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Il referendum sui contratti a termine​. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Valerio Speziale, Silvia Ciucciovino e Andrea Morrone


Il referendum abrogativo parziale dell’art. 19, commi 1,1-bis, e 4, e dell’art. 21, comma 01, del d.lgs.15 giugno 2015, n. 81 sui contratti a termine                                            

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V. A. Poso Su iniziativa della CGIL sono stati promossi quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche (dopo la comunicazione in data12 aprile dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 87 del 13 aprile 2024; il deposito presso la Cancelleria della Corte di cassazione della documentazione attestante le firme raccolte è stato effettuato il 19 luglio 2024).

Il terzo, sinteticamente denominato dai promotori “Lavoro Stabile” ha ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?».

Secondo il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato dalla CGIL, per realizzare il “lavoro stabile”, il quesito è inteso, in estrema sintesi, ad abrogare le norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine e limitare il ricorso a questo tipo di lavoro solo in presenza di causali specifiche obiettive e temporanee – previste e disciplinate dai contratti collettivi – verificabili dal giudice, anche per i contratti di durata non superiore a dodici mesi così da superare la precarietà dei contratti di lavoro, anche in caso di proroga e rinnovo; e ad abrogane la norma che consente alle parti individuali del contratto di lavoro di individuare la causale del termine, «che nei fatti apre la strada ad assunzioni a termine senza alcun controllo», essendo il lavoratore in attesa di essere assunto dell’autonomia necessaria per valutare e decidere. Per i promotori di questo referendum il lavoro «deve essere stabile perché la precarietà è una perdita di libertà».

Chiedo, in particolar modo, ai giuslavoristi di tracciare un quadro sintetico della disciplina del contratto a termine – con riferimento agli aspetti più rilevanti che qui interessano e ai principi informatori delle norme che si sono succedute – per come si è evoluta, a partire dalla l. 18 aprile 1962, n.230.

S. Ciucciovino. La disciplina del contratto a termine è stata attraversata nel corso degli anni da numerose e continue modifiche. Essa ha assunto progressivamente una vera e propria valenza simbolica, anche nell’opinione pubblica, rispetto alla questione della “precarietà lavorativa”. Da questo punto di vista, le diverse riforme del contratto a termine messe in atto dai Governi che si sono succeduti, almeno dagli anni 2000 in poi, sono state connotate da una forte connotazione “politica”.

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Non a caso anche la proposta referendaria in commento, nell’intento di contrastare la precarietà lavorativa, prende di mira il contratto a termine. Va detto, però, che il fenomeno della precarietà – specie nelle forme più deprecabili – è addebitabile in larga parte a forme di lavoro ben meno tutelate del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato; forme più o meno irregolari, grigie e mascherate, rispetto alle quali non si è notato lo stesso livello di attenzione che è stato riservato al contratto a tempo determinato.

Ciò detto, al netto di interventi correttivi di portata minore, dagli anni ‘60 del secolo scorso ad oggi si contano almeno sei grandi riforme del contratto a termine, rispettivamente apportate con la l. n. 230/1962, con l’art. 23 della l. 56/1987, con il d. lgs. n. 368/2001, con il d. lgs. 81/2015 (c.d. Jobs Act), con il d.l. 87/2018, convertito in l. 96/2018 (c.d. decreto Dignità) e, infine, con le successive correzioni del c.d. decreto sostegni bis (d.l. 73/2021, conv. in l. 106/2021). Ciascuna di queste riforme corrisponde ad una precisa ispirazione di politica del diritto e fissa uno specifico bilanciamento del ruolo del legislatore, dell’autonomia collettiva e dell’autonomia individuale nel governo del lavoro temporaneo.

Tutto inizia con la legge n. 230 del 1962 che poneva un divieto generale di apposizione del termine al contratto di lavoro, salve le eccezioni previste e disciplinate dallo stesso legislatore. Si trattava di ipotesi che legittimavano l’assunzione a termine: per esigenze stagionali; per esigenze sostitutive; per l’esecuzione di un’opera o un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale; per lavorazioni che richiedevano maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative non continuative e, infine, per il personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli. All’epoca, è bene ricordarlo, vigeva un regime di libera recedibilità dai contratti di lavoro a tempo indeterminato, con il solo limite del preavviso ex art. 2118 c.c. e, quindi, la precarietà era una caratteristica comune sia alle assunzioni a termine che a quelle a tempo indeterminato.

La normativa limitativa dell’assunzione a termine del 1962 cominciò a rivelarsi invece particolarmente restrittiva quando, pochi anni dopo, nel 1966 e nel 1970, si posero vincoli stringenti al licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato. A quel punto l’interesse per l’assunzione a termine si caricò di nuovi significati, in quanto il termine consentiva all’impresa di chiudere il rapporto di lavoro senza dover passare per le strettoie della giustificazione del licenziamento del lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Con le crisi degli anni ’70 le prospettive di mercato in cui operavano le imprese si fecero più incerte e difficili e ciò alimentò la richiesta di contratti temporanei che si scontrava con il rigido impianto regolativo della legge n. 230/1962. Così, a partire dagli anni ’80, prese avvio una fase del diritto del lavoro di cauta attenuazione delle rigidità legali, che venne affidata alla contrattazione collettiva. Si aprì allora la stagione della cosiddetta “flessibilità negoziata”, di cui l’art. 23 della l. n. 56/1987 è emblematica. Questa norma configurò una tappa importante di riforma della disciplina del contratto a termine, in quanto affidò al contratto collettivo nazionale, con una vera e propria “delega in bianco”, il potere di prevedere “ulteriori ipotesi” di legittima apposizione del termine, aggiuntive rispetto a quelle legali già previste dalla legge del 1962. Una valvola di sfogo della domanda di flessibilità che le imprese potevano attingere attraverso le relazioni sindacali. Questa normativa, nell’affidare all’autonomia collettiva la gestione della flessibilità in entrata, accrebbe notevolmente il potere dei sindacati nei tavoli negoziali. Si passò, quindi, da un governo del lavoro temporaneo rimesso esclusivamente alla fonte legale, ad un governo in cui coesistevano la fonte legale e la fonte contrattuale collettiva.

Altre norme negli anni ‘80 e ‘90 replicarono lo stesso modello di flessibilità negoziata con una stretta integrazione tra fonte legale e collettiva. Si possono citare in proposito le norme sul contratto di formazione e lavoro e sul contratto di inserimento (l. n.863/1984 e l. n.451/1994), le norme sul lavoro temporaneo tramite agenzia (l. n.196/1997), le norme sull’apprendistato (l. n.196/1997), le norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (l. n.146/1990). Attraverso la delega in bianco dell’art. 23, l. n. 56/1987 e altre disposizioni di quel periodo storico cominciò ad emergere anche il contratto a termine con causale soggettiva, dove il termine costitutiva una sorta di incentivo all’assunzione di categorie svantaggiate: giovani, donne, soggetti a rischio disoccupazione (art. 8, l. n.223/1991). In questo panorama normativo, in cui l’assunzione a termine era veicolata e controllata dall’autonomia collettiva, anche il contenzioso giudiziario si rivelò contenuto, in quanto il contratto collettivo assolveva ad un sufficiente ruolo di garanzia della parte lavoratrice rispetto alla precarietà lavorativa, guardato con rispetto anche dai giudici.

Tutto cambiò con la riforma del contratto a termine realizzata dal governo Berlusconi con il d.lgs. n. 368/2001. Quella terza grande riforma pretendeva di cambiare gli equilibri complessivi che fino a quel momento avevano più o meno tenuto. Il legislatore, infatti, abbandonò la tecnica della flessibilità negoziata e anticipatamente filtrata dalla mediazione sindacale, tipica degli anni ‘80/’90 del secolo scorso, e optò per una tecnica di governo del ricorso ai contratti flessibili, risultata poi fallimentare, affidata alla norma legale ma, differentemente dalla l. n. 230 del 1962, questa volta incentrata sul precetto generale e aperto – il c.d. “causalone” – che identificava in non meglio specificate “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” i presupposti causali dell’apposizione del termine al contratto di lavoro. In questo modo si rimetteva, in definitiva, all’autonomia individuale l’individuazione dei presupposti oggettivi di assunzione a termine.

La norma a precetto indeterminato ha accresciuto enormemente il tasso di incertezza applicativa della disciplina legale e le dimensioni del relativo contenzioso giudiziale. Un contenzioso che ha fatto emergere il forte soggettivismo delle decisioni giudiziali orientate da un’interpretazione carica di opzioni valutative tipiche dell’applicazione di clausole generali che, come tali, necessitano di essere completate attingendo il significato delle norme da concetti presenti nella realtà sociale ovvero da fonti extra ordinem. In realtà la locuzione legale riferita alle “ragioni” oggettive di ricorso al contratto a termine non configurava una clausola generale (come è ad esempio quella del notevole o grave inadempimento o del congruo preavviso), quanto piuttosto un precetto legale a contenuto elastico che chiama l’interprete ad effettuare una valutazione che non dovrebbe essere ispirata ad opzioni di valore, bensì limitata alla verifica in concreto della sussistenza della ragione addotta dall’imprenditore afferente alla sfera delle decisioni produttive o organizzative dell’impresa, che come tali restano insindacabili, nonché alla verifica del nesso casale tra la ragione così enucleata e l’impiego del lavoratore assunto a termine.

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Comunque la maggiore discontinuità segnata dalla riforma del 2001 rispetto al passato era rappresentata dalla soppressione di qualsiasi ruolo significativo della fonte collettiva nel governo della flessibilità in entrata. Il legislatore del 2001 poneva così fine alla stagione della flessibilità negoziata e apriva la nuova fase della flessibilità prevista direttamente dalla legge e rimessa all’autonomia individuale. Cioè all’accordo delle parti del rapporto di lavoro, tenute a concretizzare e contrattualmente specificare le ragioni oggettive genericamente previste dal legislatore. Non più quindi un mix di fonte legale e fonte collettiva, bensì un mix di fonte legale e autonomia individuale, in un quadro dove la norma legale non era puntuale, come lo era la l. n.230 del 1962, bensì aperta e indeterminata, accrescendo il grado di (apparente) discrezionalità dell’autonomia individuale.

La giurisprudenza ha, però, avuto una vera e propria crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001 e quella che è stata definita dai commentatori dell’epoca come una normativa di “liberalizzazione” del contratto a termine si è infranta, dopo almeno un quindicennio di tormentato contenzioso giudiziario, contro un’interpretazione fortemente restrittiva, rivelandosi in definitiva una vera e propria illusione ottica. I vincoli al contratto a termine, pur non previsti espressamente dal legislatore, né necessitati dalla normativa europea, sono stati sostanzialmente reintrodotti per via giudiziale, nella misura in cui è stato ritenuto sottointeso all’oggettività delle ragioni giustificative del termine, anche il requisito della sostanziale temporaneità delle stesse, di cui i giudici hanno fornito di volta in volta la propria personale accezione.

Questo sviluppo inglorioso della disciplina del contratto a termine rende più chiara l’operazione di politica del diritto sottesa alla successiva importante quarta riforma operata dal Jobs Act con il d. lgs. n.81 del 2015.

V. Speziale. Silvia Ciucciovino descrive in modo esaustivo l’evoluzione della disciplina del contratto a termine, la profonda valenza politica delle varie riforme che sono state introdotte, le diverse tecniche utilizzate e i contesti normativi nei quali esse sono state inserite.

Va rilevato, in primo luogo, che tra le innovazioni effettuate nel tempo va inclusa anche quella introdotta con il d.l. n. 48/2023, convertito nella l. n. 85/2023. Questa normativa va sicuramente ricordata per le importanti innovazioni che ha introdotto. Anche successivamente vi sono state modifiche ulteriori (nel 2024 e 2025), a dimostrazione del carattere assai “tormentato” della regolazione del contratto a termine.

Questo continuo processo riformatore è spiegabile con ragioni specifiche, connesse al ruolo del Diritto del lavoro nell’ambito della politica e alle diverse opinioni legate alla funzione del rapporto di lavoro a tempo determinato.

In relazione al primo aspetto, non vi è dubbio che la riforma del Diritto del lavoro (e, in particolare di quello direttamente connesso alla regolazione del mercato del lavoro) sia ormai parte fondamentale di qualunque programma politico, venendo ad assumere un valore fortemente identitario per le maggioranze parlamentari e per il Governo da esse espresso che di volta in volta si succedono alla guida del Paese. L’idea, coltivata per lungo tempo anche a livello europeo, è che il Diritto del lavoro sia uno strumento di politica economica, al pari delle politiche di bilancio, di quelle dirette a sostenere il sistema produttivo o l’innovazione tecnologica, delle politiche fiscali e così via. Questa impostazione ha sicuramente un fondo di realtà, perché il Diritto del lavoro è un diritto della produzione, che influenza le dinamiche organizzative, la produttività, i costi diretti (retribuzione e oneri sociali) e indiretti (tutele normative più o meno limitative delle prerogative manageriali), i profitti di ogni singola impresa ecc.

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Senza dimenticare i profili macroeconomici condizionati da questa branca del diritto, in rapporto ad esempio alla domanda aggregata di beni e servizi, al livello delle entrate fiscali (legate alle risorse distribuite dai contratti collettivi nazionali di lavoro), alla limitazione della concorrenza, alla regolazione del mercato del lavoro (politiche attive e capacità di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro), al rapporto tra salari e tasso di occupazione e disoccupazione e così via.

Tuttavia, la pretesa che il Diritto del lavoro possa avere una funzione essenziale nello sviluppo economico di un Paese e, in particolare, svolgere un ruolo determinante nei livelli di occupazione e di disoccupazione è assolutamente priva di riscontri empirici ed esprime una concezione che enfatizza oltre misura la funzione del diritto in generale – e di quello del lavoro in particolare – nell’ambito economico. Tale ruolo, in realtà, è assai limitato e non può certo sostituire gli strumenti tipici della politica economica (politiche di bilancio, fiscali, monetarie, sostegno economico alla domanda aggregata ecc.). Alcune regole in materia di lavoro possono indubbiamente avere un riflesso di tipo economico, ma in una misura molto più ridotta di quanto si è cercato di sostenere, con una accentuazione che, a ben vedere, rispecchia la impossibilità o difficoltà di utilizzare altri strumenti – come le politiche keynesiane di sostegno alla domanda aggregata e basate sul deficit spending o le svalutazioni competitive della moneta – che hanno caratterizzato lunghi periodi storici del nostro paese. Il Diritto del lavoro, in questo contesto, è stato chiamato a svolgere una funzione di supplenza di interventi di politica economica non più realizzabili o di minore impatto rispetto al passato con risultati economici che, a consuntivo, si sono rivelati deludenti.

La riforma costante del contratto a termine, peraltro, esprime anche il valore attribuito alla flessibilità del lavoro che, per oltre 25 anni, ha costituito, anche a livello europeo, il mainstream della materia. È evidente, infatti, che in sistemi giuridici in cui tutti i diritti dei lavoratori – considerati quali “rigidità” da rimuovere – sono prevalentemente incentrati sul contratto di lavoro a tempo indeterminato, il rapporto a termine è una alternativa valida ad un contratto standard considerato come eccessivamente tutelato e la maggiore diffusione del primo potrebbe incrementare la flessibilità del sistema, con tutti i presunti effetti positivi che ne possono scaturire. Anche in questo caso, la realtà ha smentito questa impostazione. Oggi anche le organizzazioni internazionali che maggiormente aveva sostenuto queste idee (Ocse, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea) sono arrivate ad ammettere che la flessibilità del lavoro non produce gli effetti promessi sull’occupazione. Ed anzi, al contrario, una diffusione eccessiva di rapporti a termine può produrre conseguenze negative sui livelli di produttività, sugli investimenti formativi e quindi sulla stessa qualità del lavoro, inteso quale strumento fondamentale di creazione di valore per le imprese.

I fattori descritti sono dunque all’origine della “riforma continua” del rapporto a tempo determinato che ha caratterizzato gli ultimi 40 anni. Inoltre, la egemonia della lettura economica del diritto che ha caratterizzato questo lungo periodo ha causato una alterazione della funzione giuridica del contratto a termine, trasformato da modello contrattuale diretto a soddisfare esigenze temporanee di lavoro delle imprese e dei lavoratori a strumento di creazione di occupazione. Il tutto, in una concezione che considera l’occupazione prevalentemente sotto il profilo quantitativo (in base al noto aforisma che è meglio un lavoro non stabile che la disoccupazione), senza considerare che la qualità del lavoro – oltre ad essere fondata sulla nostra Costituzione e sulle tutele garantite dalle Carte dei diritti fondamentali a livello europeo – è un presupposto essenziale per una migliore produttività e qualità dei processi e dei prodotti delle imprese. Non è un caso, infatti, che il nuovo paradigma della impresa e dello sviluppo sostenibile si basino proprio sulla valorizzazione del lavoro quale strumento di realizzazione delle finalità sociali e produttive connesse al concetto di “sostenibilità”.

Le condizioni descritte spiegano perché il processo di liberalizzazione del contratto a termine, che si era svolto anche negli anni ’80 e ’90 ma con maggiore moderazione e filtrato anche dal controllo sindacale, si è particolarmente accentuato dal 2001 al 2018, con riduzione dei vincoli normativi e ampliamento delle sue possibilità di utilizzazione (salvo qualche intervento in controtendenza, come quello realizzato con la legge n. 247 del 2007). In sostanza, nel periodo di tempo indicato, le riforme del contratto a termine hanno avuto la finalità di assicurare alle imprese le assunzioni a termine come strumento generale e privilegiato di accesso al lavoro allo scopo di: a) consentire di testare le capacità professionali e le caratteristiche personali del lavoratore per periodi temporali più lunghi rispetto ai periodi di prova previsti dai CCNL; b) evitare i limiti giuridici connessi al licenziamento; c) in situazioni caratterizzate da incertezza economica e fluttuazioni nella domanda provenienti dal mercato, escludere l’inserimento in organico di lavoratori stabili, mantenendo una quota elevata di dipendenti temporanei.

Senza dubbio gli enormi processi di cambiamento che hanno caratterizzato i sistemi economici e i modelli organizzativi delle imprese nella parte finale del XX secolo e nei primi 25 anni di quello in corso hanno modificato la struttura della domanda di beni e servizi, con una maggiore alternanza nei flussi di intensità della produzione delle imprese, caratterizzati da picchi più elevati di attività, seguiti da periodi meno intensi. Vi era quindi l’esigenza di un uso diverso dei contratti a termine per fare fronte a queste nuove esigenze produttive, riducendo le eccessive limitazioni al suo ricorso che avevano caratterizzato alcune normative degli anni ’60 e ’70. Tuttavia, il processo che si è realizzato è andato ben al di là di questa necessità di adeguamento normativo e si è tradotto in una liberalizzazione eccessiva della disciplina, escludendo la mediazione sindacale e trasformando il contratto a termine in un modello contrattuale tendenzialmente fungibile con il lavoro stabile, con effetti economici importanti, che esaminerò in seguito.

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Silvia Ciucciovino sottolinea come sarebbe scorretto collegare la diffusione del contratto a termine al fenomeno della precarietà, visto che essa sarebbe propria delle forme di lavoro irregolare meno tutelate. Non vi è dubbio che il rapporto a tempo determinato sia più protettivo per i lavoratori rispetto al lavoro “in nero” o anche ad alcune modelli contrattuali tipizzati dalla legge (si pensi al lavoro intermittente o a quello occasionale). Tuttavia, non va dimenticato che molti studi empirici hanno messo in evidenza come i dipendenti a termine abbiano di fatto retribuzioni inferiori a quelli stabili, nonostante la legge non consentirebbe questa differenziazione, espressamente vietata. Inoltre, le analisi sociologiche ed economiche hanno messo in rilievo come la reiterazione dei contratti a tempo determinato, consentita dalla disciplina vigente, può realizzare la cosiddetta “trappola della precarietà”. I lavoratori che per anni sono utilizzati con rapporti a termine, anche per i minori investimenti in formazione (che, per il loro costo e per l’attesa da parte dell’impresa di poterli utilizzare, sono generalmente destinati ai dipendenti stabili), hanno meno possibilità di essere assunti con contratti a t. indeterminato, con tutte le conseguenze annesse in termini di incertezza del reddito, minore possibilità di pianificare il proprio futuro, incremento nel gap di professionalità ecc.

Nel periodo antecedente alla introduzione del d.lgs. n. 81/2015, Silvia Ciucciovino descrive la riforma del 2001, con l’abbandono della tecnica della flessibilità negoziata dalla mediazione collettiva e l’introduzione di una causale legata a ragioni di carattere tecnico ed organizzativo. La Collega rileva poi come questa riforma abbia determinato un processo di notevole incremento del contenzioso caratterizzato da un forte soggettivismo delle decisioni giudiziali, ispirate ad opzioni di valore che avrebbero dovuto essere escluse nella interpretazione della disposizione. Si afferma, inoltre, che la giurisprudenza ha avuto “una crisi di rigetto nei confronti della riforma del 2001”, che ha ridotto in modo consistente l’intento di liberalizzare l’uso del contratto a termine e, dopo un quindicennio, ha adottato una interpretazione fortemente restrittiva della nuova normativa, reintroducendo in via giudiziale i vincoli che si era voluto evitare, in particolare tramite la riaffermazione della temporaneità delle ragioni tecniche ed organizzative previste dal d.lgs. n. 368/2001.

Rilevo, in primo luogo, che l’utilizzazione di norme “aperte” o a contenuto elastico non può che necessariamente ampliare la discrezionalità del giudice nella interpretazione delle stesse, rispetto a fattispecie più specificamente regolate. Tuttavia, l’uso di disposizioni con queste caratteristiche è ormai una tecnica ampiamente diffusa in tutti i settori del diritto e si lega a fattori di evoluzione dei sistemi normativi che rendono sempre più difficile ipotizzare una regolazione per fattispecie molto dettagliate, per ragioni diverse e che qui non posso esaminare (tra cui, comunque, la difficoltà di regolare con disposizioni molto particolareggiate una realtà in evoluzione rapidissima, che rende subito obsolete norme appena emesse). Inoltre, nel Diritto del lavoro la presenza di norme con queste caratteristiche è da sempre assai diffusa e senza che tale tecnica sia stata mai oggetto di critiche assai accentuate come nel caso del contratto a termine. Il caso sicuramente più significativo è quello della giusta causa e del giustificato motivo di licenziamento, dove la funzione della giurisprudenza nel dare contenuto a tali norme aperte è assai ampia. Ma gli esempi potrebbero continuare, perché disposizioni simili caratterizzano tutta la produzione normativa italiane (e anche europea).

La critica alla interpretazione della giurisprudenza basata su opzioni di valore non considera che questa tecnica interpretativa è un portato ineludibile della trasformazione del processo di ascrizione di un significato ad una norma, che è oggi un metodo aperto dove – secondo gli insegnamenti della ermeneutica giuridica – i valori sono parte integrante del processo, anche per la possibilità per il giudice di adottare direttamente una interpretazione costituzionalmente ed eurounitariamente orientata di una disposizione, accedendo a testi (Costituzione, Trattati) che sono fortemente impregnati di principi e valori a cui essi si ispirano. Senza dimenticare che anche norme sulla interpretazione legate a diversi periodi storici – come l’art. 12 delle preleggi – nell’attribuire rilievo alla “intenzione del legislatore” danno spazio proprio alle finalità perseguite dalla legge e alle scelte di valore ad essa sottese. Il problema, dunque, non è quello di una “interpretazione per valori”, che è ormai un dato acquisito delle tecniche interpretative, quanto la giustificazione che il giudice è in grado di dare sia sulla selezione dei valori, sia sulla loro utilizzazione nella lettura della disposizione sottoposta al suo giudizio, che è espressione del principio della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto dall’art. 111, c. 6, Cost.

La tesi secondo cui la giurisprudenza avrebbe “remato contro” la riforma, limitandone la portata liberalizzatrice e reintroducendo presupposti (come la temporaneità) non previsti dalla legge, non mi trova d’accordo. La verità è che la tesi sostenuta da una parte della dottrina, secondo cui il “causalone” previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 consentiva di stipulare il contratto in presenza di ragioni oggettive ma non temporanee, era difficilmente sostenibile. La formulazione letterale della disposizione, letta in connessione con la disciplina del lavoro stabile e con i valori costituzionali ed eurounitari esistenti, rendeva implausibile tale interpretazione. Essa, tra l’altro, anche in considerazione della assenza di limiti temporali massima alla durata del contratto, avrebbe consentito di instaurare rapporti a termine per periodi lunghissimi, rendendo di fatto questa tipologia contrattuale del tutto identica alle assunzioni a t. indeterminato, in palese contraddizione con la Direttiva 1999/70/Ce, che il d.lgs. n. 368/2001 ha implementato nell’ordinamento nazionale. La fonte europea, infatti, afferma che la “forma comune” dei contratti è quella senza limite di durata. E non è un caso che la giurisprudenza della Corte di giustizia europea abbia costantemente affermato, negli anni successivi alla sua emanazione, che la Direttiva andava interpretata nel senso di consentire la stipulazione di contratti temporanei e non tali da sostituire il lavoro stabile. La giurisprudenza italiana, e in particolare la Cassazione, non ha potuto fare altro che adeguarsi alla interpretazione più coerente con una lettura della normativa all’interno del sistema giuridico italiano ed europeo.

 

V. A. Poso. Soffermiamoci sul d. lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, emanato in attuazione dell’art. 1, c. 7, della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, che si inserisce nel complessivo disegno riformatore

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– da molti non condiviso – del Jobs Act. Quali sono i punti salienti di questa disciplina, stando al testo originario del decreto legislativo? 

V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015, nella sua impostazione originaria, segna una netta cesura con la disciplina precedente meno recente. Il contratto a termine, che dagli anni ’60 in poi era sempre stato caratterizzato dalla presenza di una ragione giustificativa, diventa “acausale”. Il datore di lavoro ha solo un limite temporale massimo di 36 mesi, che peraltro può essere derogato in senso migliorativo o peggiorativo dai contratti collettivi e, comunque, esteso di altri 12 mesi in sede di negoziazione assistita. Inoltre, la normativa, oltre alla possibile e fondamentale modifica alla durata massima del rapporto, riattribuisce alla autonomia collettiva poteri regolatori e/o derogatori importanti, in materia di individuazione delle ipotesi di lavoro stagionale (art. 21, c. 2), di deroga ai limiti quantitativi nelle assunzioni a termine (art. 23, c. 1 e c. 2, lett. a) e in tema di diritto di precedenza (art. 24, c. 1), in relazione alla formazione dei lavoratori a termine (art. 26), per l’individuazione dei casi di servizi speciali nel settore turismo e pubblici esercizi di durata non superiore a tre giorni ed esentati dalla applicazione della disciplina generale sul termine (art. 29, c. 2, lett. b).

Le nuove regole segnano, innanzitutto, il passaggio da un controllo qualitativo sulle ragioni tecniche e organizzative ad uno prevalentemente quantitativo. Lo scopo perseguito è, in primo luogo, quello di eliminare la verifica giudiziaria sulla causale del contratto, escludendo il principio della temporaneità delle esigenze di lavoro a termine, che si era ormai consolidato nella giurisprudenza. L’intento di liberalizzare il rapporto e di depotenziare una interpretazione giurisprudenziale che ne restringeva l’utilizzo è assolutamente evidente. In alcuni commenti si è messo in evidenza che la riforma intendeva ridurre le incertezze applicative espresse dai giudici, che, in realtà, nel 2015 avevano trovato un loro assetto abbastanza consolidato e con un grado di indeterminatezza non certo superiore a quello presente nella giurisprudenza in materia di licenziamento o in altre ipotesi. In verità, questa sfiducia nel controllo giurisdizionale e la volontà di ridurre la discrezionalità del giudice è una finalità perseguita dalla legislazione del 2015 in generale, come dimostrano le vicende del d.lgs. n.23/2015 sul contratto a tutele crescenti, caratterizzato da tecniche normative che limitano il controllo del magistrato e, attraverso la diminuzione delle tutele, favoriscono discipline che consentono un’esatta predeterminazione dei costi sostenuti dalle imprese. Certezza del diritto e riduzione del contenzioso sono gli obiettivi fondamentali da perseguire, anche se determinano un sensibile decremento dei diritti dei lavoratori.

La vera finalità della riforma del 2015 era comunque un’altra: trasformare il contratto a termine, da strumento se non eccezionale quantomeno derogatorio rispetto alla “forma comune” del rapporto stabile, in un modello contrattuale del tutto fungibile rispetto al contratto a t. determinato. Nel limite massimo di 36 mesi, estensibile ulteriormente dai contratti collettivi senza “tetti massimi” e con la possibilità di ulteriori 12 mesi in sede di negoziazione assistita, si eliminava qualsiasi distinzione basata sulle ragioni organizzative dell’impresa o personali del dipendente. Il datore di lavoro poteva assumere a termine con più contratti e nei limiti massimi previsti dalla legge o dal contratto collettivo per soddisfare esigenze di lavoro stabile. In questo caso, gli obiettivi già descritti (testare il lavoratore per un periodo assai più lungo dei periodi di prova previsti dalla legge e dai Ccnl; bypassare i vincoli giuridici previsti per i licenziamenti individuali e collettivi; creare una quota fissa di personale a termine, indipendentemente dalla sussistenza di bisogni di lavoro temporaneo) sono stati la finalità principale perseguita dal legislatore.

In ogni caso, dal punto di vista delle tecniche normative, la eliminazione di una distinzione funzionale tra lavoro a termine e a t. indeterminato costituisce una vera e propria rottura con il passato. Essa, da un lato, ribadisce l’utilizzazione del contratto a termine come strumento di incremento della occupazione, che si sperava favorita dalla eliminazione della causale e del controllo giurisdizionale. Un sistema che, come vedremo, ha contribuito in modo rilevante ad aumentare la diffusione di contratti privi di stabilità. Inoltre, la finalità è quella di aumentare in modo consistente la flessibilità organizzativa delle imprese, indipendentemente dal carattere stabile o meno della esigenza di lavoro, e con possibilità di favorire un maggiore turn over nei livelli occupazionali.

Il limite dimensionale del 20 per cento dei lavoratori stabili costituiva, indubbiamente, un deterrente importante ad una espansione incontrollata del lavoro a t. determinato. Tuttavia, le numerose deroghe previste dalla legge per ipotesi escluse da limitazione quantitative (art. 23, c. 2) e soprattutto il potere derogatorio affidato ai contratti collettivi di qualunque livello estenderanno in materia significativa il tetto quantitativo, ampliando in misura significativa la diffusione del contratto a termine. L’evoluzione della contrattazione collettiva successiva alla emanazione della legge, sia a livello nazionale e soprattutto a livello decentrato, comporterà un innalzamento significativo dei tetti quantitativi. Per quanto attiene i contratti aziendali, vi sono stati casi dove il limite è stato incrementato in misura assai rilevante, arrivando al 70/80 per cento dell’intero organico dell’impresa.

La riforma del 2015, già anticipata da precedenti normative, come si è visto ha attribuito funzioni importanti alla autonomia collettiva. Tuttavia, in coerenza con l’ispirazione complessiva della riforma, il sindacato non poteva esercitare un controllo sulle ragioni economiche ed organizzative (aggiungendovene altre o specificando quelle legali), ma solo sulla quantità dei contratti. L’autonomia collettiva, inoltre, aveva un ampio potere derogatorio alle discipline legali in molte materie (intervalli temporali tra un contratto e l’altro, periodo massimo di trentasei mesi, diritto di precedenza). La deroga avrebbe potuto anche essere migliorativa. Tuttavia, come sottolineato da un’autorevole dottrina, la legge aveva attribuito al sindacato un potere contrattuale “in salita” e assai difficile da esercitare. Nella misura in cui, infatti, le deroghe avrebbero inciso sulla utilizzazione del contratto e sulle opportunità occupazionali che esso offriva, le organizzazioni sindacali hanno avuto forti difficoltà a contrastare le esigenze di una utilizzazione più ampia dal punto di vista quantitativo e più estesa sotto il profilo temporale di questa tipologia contrattuale.

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L’alternativa, infatti, era quella di impedire l’assunzione di lavoratori, seppure a termine, con il rifiuto di opportunità di lavoro difficili da giustificare nei confronti dei lavoratori iscritti e non ai sindacati. E non è un caso che molti Ccnl, in settori economici importanti, hanno ampliato i tetti quantitativi e anche il periodo massimo di 36 mesi, consentendo di stipulare contratti a termine per periodi di 4 o 5 anni (a volte con tetti massimi previsti, insieme, per termine e somministrazione a t. determinato) e, in alcuni casi, hanno addirittura eliminato qualsiasi vincolo massimo di durata. Inoltre, come si è detto, questa tendenza alla disciplina più favorevole alle imprese si è manifestata anche a livello aziendale, con deroghe ancora più accentuate.

La riforma del 2015, in conclusione, oltre a mutarne natura e funzione, ha determinato una decisa liberalizzazione del contratto a termine, dimostrata anche dai dati statistici successivi al 2015, come vedremo.

La nuova disciplina, inoltre, ha posto problemi di compatibilità con la Direttiva 1999/70/CE, il cui rispetto, alla luce della prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, deve sempre essere garantito. La Direttiva, finalizzata a prevenire l’abuso nella utilizzazione del contratto a termine, ha previsto tre modalità alternative di regole dirette a raggiungere tale scopo. Da questo punto di vista, la normativa introdotta dal d.lgs. n.81/2015 ne prevede due (la durata massima totale dei contratti e il numero delle proroghe, che, pur diversi, sono assimilabili ai rinnovi). Essa, quindi, sembra perfettamente in linea con la disciplina europea. Tuttavia, la Corte di giustizia (CGE) ha con molte sentenze affermato che la normativa nazionale che attua la Direttiva non debba essere tale da soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”. Tale limite opera, a giudizio della CGE, anche se vi sono due delle misure previste dalla fonte europea, come la presenza di ragioni obiettive e la durata massima dei contratti a termine successivi. Infatti, anche singole necessità oggettive temporanee non escludono l’abuso se, complessivamente considerate, sono tali da soddisfare esigenze lavorative non transitorie, tranne l’ipotesi della sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto.

Le regole introdotte dal d.lgs. n. 81/2015, nella sua versione originaria, prevedevano la totale “acausalità” del contratto a termine, dei rinnovi e delle proroghe e una durata complessiva di utilizzazione molto ampia (36 mesi). Il limite temporale – nel caso di successione di rapporti – poteva essere ulteriormente esteso dalla contrattazione collettiva (o addirittura, come è accaduto, del tutto rimosso). La normativa, pertanto, di fatto consentiva l’uso di rapporti a termine per soddisfare esigenze stabili di lavoro, sia in considerazione della piena fungibilità tra tempo determinato e indeterminato – pur nel limite massimo previsto dalla legge o dai contratti collettivi – sia in considerazione di altre regole normative che consentono di estendere in modo significativo la durata dei contratti (ad esempio, con il semplice mutamento di mansioni). In tale contesto, inoltre, le norme sul contingentamento dei lavoratori assunti a termine non potevano svolgere alcuna funzione, perché esse non escludevano che i contratti stipulati potessero soddisfare stabili esigenze organizzative. Questo potenziale contrasto con la Direttiva, tuttavia, non ha originato un contenzioso né a livello nazionale, né a quello europeo. 

S. Ciucciovino. Con il d. lgs. n. 81/2015 si procede ad una netta modifica, rispetto all’impianto del 2001, dei limiti sostanziali di ricorso al contratto a termine. Si inaugura una fase in cui l’assunzione a termine è acausale, cioè non più sottoposta a limiti sostanziali di carattere qualitativo (legati, come in passato, alle ragioni giustificative oggettive che avevano sviluppato tanto contenzioso), bensì assoggettata unicamente a limiti quantitativi di utilizzo, di agevole determinazione. Ciò ha determinato, più che una liberalizzazione del lavoro a termine, una tecnica di controllo e governo diversa dal passato, più quantitativa e meno qualitativa, sicuramente più certa e meno soggetta al sindacato giudiziale. In particolare i limiti quantitativi riguardano; la durata del singolo contratto (inizialmente 36, poi 24 mesi); la successione di più contratti con il medesimo lavoratore (inizialmente 36, poi 24 mesi); la proporzione in percentuale degli assunti a termine rispetto agli assunti a tempo indeterminato, infatti, salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione.

La tecnica legislativa di regolazione e contenimento dei contratti temporanei (ma più in generale di tutte le tipologie flessibili) con il Jobs Act si caratterizza per il netto abbandono della norma generale ed elastica a contenuto indeterminato – che lasciava ampio spazio alle incertezze applicative e ad una valutazione e apprezzamento qualitativo della flessibilità da parte del giudice – per imperniarsi esclusivamente su limiti di carattere quantitativo, certi e agevolmente verificabili (percentuali massime e durata del singolo contratto o di più contratti in successione) che consentono di demarcare molto più agevolmente del passato i confini del lecito utilizzo dei contratti flessibili e praticamente azzerano ogni sindacato giudiziale sulla motivazione economica sottostante alla scelta datoriale di ricorso al lavoro temporaneo.

Con il d. lgs. n.81/2015 viene inoltre realizzato un riassetto complessivo delle fonti di disciplina dei contratti flessibili, con la restituzione di un considerevole spazio all’autonomia privata collettiva nella regolazione della flessibilità, con disposizioni che si configurano come vere e proprie deleghe in bianco al contratto collettivo, sul modello della flessibilità negoziata degli anni ’80/’90 del secolo scorso. Il contratto collettivo così ha potuto in questa materia riprendere a svolgere un ruolo essenziale e forse ancor più rilevante del passato. L’apertura all’intervento della autonomia collettiva è veramente considerevole, anche comparato alla stagione della flessibilità negoziata, sia per la facoltà concessa al contratto collettivo di integrare la disciplina legale e di derogarla anche in pejus, sia perché tale potere è riconosciuto non più soltanto al contratto nazionale, bensì a tutti i livelli contrattuali, con un rinvio ampio ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [a]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria” (art. 51, d. lgs. n. 81/2015).

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In realtà, non si può comprendere la portata della modifica della disciplina del contratto a termine del 2015 se non si guarda al più complessivo disegno riformatore del Jobs Act. Il cuore della riforma messa in campo dal Jobs Act, infatti, ruota attorno al riposizionamento del contratto di lavoro a tempo indeterminato al centro del sistema del diritto del lavoro per restituirgli la perduta primazia. Una posizione dalla quale, al di là delle formali declamazioni del legislatore, era stato obiettivamente scalzato anche dalla stessa produzione legislativa dell’ultimo ventennio, tutta tesa ad iniettare dosi di flessibilità al margine del contratto a tempo indeterminato, attraverso la creazione di alternative più o meno convenienti a quest’ultimo.

Non occorre essere acuti osservatori dei fenomeni giuridico-sociali per riconoscere che lo sviluppo abnorme della flessibilità tipologica e – segnatamente – di quella caratterizzata dalla temporaneità dell’impiego, ha ingenerato negli ultimi anni almeno due grandi distorsioni nell’utilizzo dei rapporti di lavoro temporanei: a) in primo luogo il termine contrattuale è stato utilizzato, spesso e volentieri, come surrogato del licenziamento, come vera e propria via di fuga dalle strettoie e dai costi di separazione dal contratto a tempo indeterminato connessi al licenziamento illegittimo; b) in secondo luogo la domanda di flessibilità espressa dal sistema produttivo ha trovato indulgente risposta proprio dal legislatore che l’ha convogliata nel canale della flessibilità numerica o esterna, grazie alla previsione di una pluralità di tipologie contrattuali temporanee.

Di questa miope scelta di politica del diritto in definitiva i lavoratori a termine, specie i più giovani, hanno pagato il prezzo più alto. Ma anche l’autonomia collettiva ha le sue responsabilità, perché sui temi centrali della flessibilità interna del contratto di lavoro subordinato standard – inquadramenti, orari e retribuzioni – non si può certo dire che i contratti collettivi abbiano messo a frutto gli ampi margini di governo di cui da sempre dispongono e che avrebbero potuto forse utilizzare di più per rispondere in modo condiviso ai bisogni di flessibilità del sistema produttivo e di accrescimento della produttività.

Questo contesto ha favorito la precarietà del lavoro ma soprattutto ha contribuito ad inquinare o viziare, se così si può dire, l’utilizzo pur formalmente legittimo dei rapporti di lavoro temporanei. La correzione di queste distorsioni è stata inevitabilmente lasciata nelle mani di una magistratura che ha acquisito un ruolo rilevantissimo (e forse eccessivo) nel controllo della dose di flessibilità legittimamente attingibile dal sistema economico.

Al di là del giudizio che se ne possa dare nel merito, è indubbio che il Jobs Act abbia gettato le basi per uno stravolgimento completo delle condizioni di contesto appena rammentate.

      

V. A. Poso. Sta di fatto che, almeno a leggere l’art. 1, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, sin dalla sua rubrica: «Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro». È così, nella sostanza? Quanto incidono i contratti a termine nel complesso delle assunzioni?

S. Ciucciovino. Con i Jobs Act si è voluto incidere su alcuni dei principali fattori di condizionamento responsabili dell’utilizzo improprio dei contratti temporanei degli anni precedenti. In particolare, da un lato, ha introdotto una maggiore flessibilità in uscita dal contatto a tempo indeterminato standard (contratto a tutele crescenti) grazie alla sostituzione dell’art. 18 con un nuovo sistema rimediale economico per il licenziamento illegittimo (anche questo oggetto oggi di requisito referendario) e, dall’altro lato, ha introdotto rilevanti dosi di flessibilità funzionale interna al rapporto di lavoro che, nel disegno del legislatore, avrebbero dovuto innescare un processo di attrattività e ri-centralizzazione del contratto a tempo indeterminato. Tutto ciò avrebbe dovuto creare le premesse, nell’intenzione del legislatore, per depurare il contratto a termine da utilizzi strumentali, cioè volti all’aggiramento della disciplina limitativa del licenziamento dal contratto a tempi indeterminato, con l’intento di riportare il ricorso al contratto a termine ad un impiego fisiologico e non più sostitutivo del lavoro a tempo indeterminato.

Può dirsi riuscito questo proposito? Il tentativo di riforma dell’art. 18,St.Lav., è stato fortemente intaccato dalla Corte Costituzionale. Inoltre, sul piano delle flessibilità interne al rapporto di lavoro, l’autonomia collettiva non ha saputo sempre cogliere adeguatamente le sfide lanciate dal legislatore e non si è appropriata – come avrebbe potuto fare – della modernizzazione della disciplina del lavoro subordinato standard (basti pensare all’enorme ritardo con cui i CCNL hanno messo mano agli inquadramenti, senza dare adeguato seguito alla modifica dell’art. 2103 c.c.). Quindi due assi portanti dell’intero disegno di riforma in cui si inseriva la nuova disciplina del contratto a termine – flessibilità interne e flessibilità in uscita dal contratto a tempo indeterminato – sono stati fortemente indeboliti.

Dal punto di vista quantitativo le ricerche condotte dall’Osservatorio sul mercato del lavoro da me coordinato presso l’Università Roma Tre, che elabora dati forniti dal Ministero del lavoro, mettono in evidenza come la quota dei contratti a tempo determinato sulle attivazioni complessive (dati di flusso) è rimasta elevata e cresciuta dal 2010 al 2023 passando dal 56% del 2010 a valori intorno al 60% intorno al 2020 per attestarsi a circa il 67% nel 2023 e 2024. La quota delle attivazioni con contratti a tempo indeterminato si è ridotta nel tempo (eccetto un picco del 19,6% nel 2015), passando dal 16,5% del 2010 all’11,7% del 2017, per poi riprendere un trend leggermente crescente dal 2018 attestandosi al 12.5% nel 2023.

Se guardiamo ai dati di stock, il numero di persone occupate con un contratto a tempo indeterminato nel 2023 ha raggiunto uno storico picco di 15,57 milioni, l’84,2% dei lavoratori dipendenti. I lavoratori occupati con contratto a termine nel 2023 sono stati 2,97 milioni, pari al 15,8% del totale dei lavoratori dipendenti. Il dato è lievemente in calo rispetto al 2022, quando i lavoratori a termine superavano i 3 milioni ed erano pari al 16,8% del totale.

Guardando alla situazione occupazionale a 24 mesi degli assunti con contratto a termine si nota che, considerando i lavoratori attivi con un contratto a termine nel primo trimestre del 2022 (tra i 25 e i 55 anni), dopo 24 mesi circa il 30% risultava non essere più occupato con un contratto di lavoro dipendente. Il 24,4% risultava essere occupato con un contratto a tempo indeterminato, mentre il 39,7% con un contratto a tempo determinato.

I dati ci parlano, quindi, di un mercato del lavoro molto dinamico, ma non certo totalmente precarizzato. Guardando ai dati di stock la quota dei tempi determinati rispetto agli assunti a tempo indeterminato si attesta ampiamente al di sotto di quella soglia del 20% che il legislatore individua come una proporzione accettabile di ricorso al tempo determinato. 

V. Speziale. Il d.lgs. n. 81 del 2015 aveva la finalità di incrementare l’occupazione attraverso la riforma della disciplina dei licenziamenti individuali (come risulta da quanto espressamente affermato nella legge delega) e rendendo più flessibili le assunzioni a termine. In relazione al primo aspetto, la nuova disciplina partiva dall’assunto – sostenuto dai teorici della Law & Economics – secondo cui regole troppo vincolanti in materia di licenziamento avrebbero ostacolato le assunzioni, con la conseguenza che la diminuzione di tutele avrebbe favorito la diffusione del lavoro stabile quale “forma comune”. Questa teoria, smentita dalla letteratura prevalente in materia economica, non ha trovato nessun riscontro empirico, con particolare riferimento al mercato del lavoro italiano, dove studi e ricerche approfonditi compiuti nell’arco di oltre un trentennio hanno addirittura messo in evidenza come tale mercato ha una struttura definita come “liquida”, perché caratterizzata da un turnover assai elevato nella creazione e distruzione di posti di lavoro. E le stesse vicende successive all’emanazione del decreto legislativo hanno confermato tale aspetto, nella misura in cui la consistente crescita dei rapporti di lavoro stabili realizzata subito dopo il d.lgs. 23/2015 è stata determinata non dalle modifiche della disciplina dei licenziamenti ma dagli elevati incentivi economici per le assunzioni a t. indeterminato, con un processo che si è interrotto non appena essi sono terminati (anche per gli alti costi incidenti sul bilancio dello Stato).

A parte tale aspetto, l’idea di ridare centralità al lavoro stabile è stata palesemente contraddetta dalla evidente riforma del contratto a termine, che ne ha ampliato in modo significativo la possibile diffusione. Il che dimostra una certa confusione nel disegno ispiratore del Jobs Act, che peraltro può essere compresa qualora le due riforme vengano lette insieme e inquadrate nel reale intento perseguito dal legislatore: diminuire le tutele in materia di licenziamento e rendere più agevole l’utilizzazione del contratto a termine. Si tratta di finalità che ben poco hanno a che vedere con l’obiettivo di riaffermare il lavoro subordinato a tempo indeterminato come forma comune del rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda l’incidenza dei contratti a termine sulle assunzioni, i dati messi in evidenza da Silvia Ciucciovino rivelano una crescita costante di questa tipologia contrattuale dal 2010 al 2024 (dal 56% al 67%), con una riduzione delle attivazioni di lavoro stabile (passate dal 16,5% nel 2010, al 12,5% nel 2023). In tempi più recenti, l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Università Roma Tre mette in evidenza percentuali che si collocano tra il 16,8% (2022) e il 15,8% (2023), pur in presenza di un elevata quantità di rapporti stabili. I dati sono in linea con la media europea, che si colloca intorno al 16% nel 2018 e nel 2022 (in base a dati Eurostat) è del 14%. In Italia, secondo l’Istat e con riferimento al 2024, le assunzioni a termine sono pari al 14,69 rispetto a tutti i lavoratori dipendenti. Altre fonti di rilevazione mettono in evidenza aspetti ulteriori. I dati Inps – aggiornati a marzo 2025 – affermano che, nel 2023, sul totale delle assunzioni effettuate (5.089.321), quelle a termine sono pari al 73,15% (3.722.959). Nel 2024, le assunzioni complessive sono pari a 4.962.658 e quelle a t. determinato sono il 74,36% (3.690.359), in un contesto dove, secondo le elaborazioni del Ministero del lavoro riferite alle comunicazioni obbligatorie gennaio – settembre 2024 e considerando tutte le tipologie contrattuali (t. determinato, collaborazioni, lavoro a chiamata, stagionale, somministrazione), le assunzioni stabili sono solo il 16%, mentre i contratti temporanei restano il principale canale di accesso al lavoro.

Si può dunque rilevare che, mentre la percentuale dei lavoratori a termine è abbastanza elevata ma coerente con la media europea, il fattore più rilevante è l’elevatissima quantità di assunzioni a tempo determinato (effettuate anche in relazione al medesimo lavoratore) rispetto a quelle stabili. E poiché è assai difficile poter ritenere che dati così elevati siano collegati ad effettive esigenze di lavoro temporaneo, vi è la dimostrazione evidente della utilizzazione impropria del contratto a termine. Esso è usato come tipologia contrattuale di ingresso nel mondo del lavoro e anche per soddisfare ragioni stabili di lavoro, con la distorsione funzionale di cui ho già parlato in precedenza.

Inoltre, come rileva la Banca d’Italia nella Relazione annuale del 2023 (p. 109), “nonostante l’incidenza del lavoro a termine sia scesa nel corso dell’ultimo quadriennio, principalmente nella fascia di età tra 15 e 34 anni, essa resta comunque molto più alta rispetto all’inizio degli anni duemila. Circa l’80 per cento dei lavoratori con un contratto a tempo determinato non viene stabilizzato entro due anni dall’assunzione: il 30 per cento rimane occupato con un altro contratto a termine e il restante 50 non risulta più impiegato alle dipendenze. Secondo nostre analisi ciò è dovuto al fatto che un numero significativo di imprese, anziché stabilizzare il personale già assunto con contratti di tipo temporaneo, preferisce assumere nuovi lavoratori a termine. Il fenomeno si concentra in alcune aziende che utilizzano sistematicamente contratti di breve durata, in particolare nei comparti delle costruzioni, dell’alloggio e ristorazione e delle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento, in larga misura indipendentemente dalla stagionalità dell’attività”.

Dunque, la riforma del 2015 (insieme a quelle immediatamente precedenti) ha sicuramente inciso sull’incremento complessivo dei contratti a tempo determinato rispetto all’inizio del secolo e ha favorito quella che ho definito la “trappola della precarietà”, oltre a concorrere alla utilizzazione di contratti di breve durata come strumento ordinario per soddisfare le proprie esigenze lavorative, come si è già detto.

Quest’ultimo profilo è messo in evidenza dalla analisi di alcuni dati. A seguito della emanazione del Decreto Dignità del 2018, che ha certamente ristretto la possibile utilizzazione del contratto a termine dopo i 12 mesi, secondo le rilevazioni del Ministero del lavoro, nei 10 mesi successivi (luglio 2018 – aprile 2019) vi è stato un consistente aumento dei rapporti a t. indeterminato (+ 11,8%) e la riduzione di quelli a termine (- 4,2%) e di quelli in somministrazione (- 26,2%, anch’essi riformati dal Decreto. Questi dati mettono in rilievo l’uso distorto del contratto a t. determinato a cui ho fatto riferimento in precedenza. Le imprese assumevano a termine pur a fronte di esigenze stabili di lavoro. Quando la legge non ha più consentito, dopo i 12 mesi, questa possibilità, esse hanno aumentato in modo molto accentuato le trasformazioni in rapporti a t. indeterminato, perché avevano sperimentato i lavoratori e ne avevano bisogno per soddisfare le necessità di lavoro stabile esistenti sin dall’origine.

In una valutazione di sintesi si può osservare che la disciplina del rapporto a termine, sia quella che ne liberalizza l’uso o che ne restringe il campo di applicazione, incide sulla ripartizione delle occasioni di lavoro tra quello stabile e quello a t. determinato, senza che influenzi il livello complessivo di crescita dell’occupazione o di riduzione della disoccupazione. Inoltre, la mancanza di causali che specifichino quando è possibile ricorrere a questa tipologia contrattuale favorisce un uso opportunistico del contratto a termine, utilizzato anche per soddisfare esigenze permanenti di lavoro, aumentando il livello di instabilità dei rapporti di lavoro e contraddicendo l’obiettivo del tempo indeterminato come “forma comune” del lavoro.

                    

V. A. Poso Qual è il Vostro giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine dopo l’intervento del legislatore del Jobs Act ? 

V. Speziale. La valutazione complessiva sulla riforma introdotta dagli articoli 19 e seguenti del d.lgs. n. 81 del 2015 deve prendere in considerazione i diversi contenuti della disciplina, che, dopo l’intervento iniziale, è stata modificata più volte. Questi cambiamenti, come ho già detto, rispecchiano il ruolo attribuito al contratto a termine quale strumento di lavoro flessibile o di accesso all’occupazione. Le innovazioni introdotte dopo il 2015 sono state numerose, ma esaminerò solo quelle più importanti.

La formulazione originaria introdotta nel 2015, con un contratto a termine “acausale” e con il limite complessivo dei 36 mesi, ha concluso un processo di liberalizzazione della materia che, cominciato nel 2012, è poi proseguito nel 2014. Ho già espresso le mie considerazioni negative su tale riforma, che ha certamente contribuito ad una diffusione rilevante del numero dei rapporti a termine e a quella distorsione funzionale di questo modello contrattuale che ho già analizzato.

Nel 2018, il c.d. Decreto Dignità ha introdotto modifiche ispirate ad un netto restringimento della possibile utilizzazione del contratto a termine, con la riduzione del tetto massimo da 36 a 24 mesi, il mantenimento della acausalità del contratto nei primi 12 e la previsione di specifiche ragioni tecniche ed organizzative molto restrittive necessarie per stipulare il contratto dopo i 12 mesi e nel limite massimo di due anni. Il netto sfavore per il contratto a tempo determinato è dimostrato dal fatto che le causali necessarie per i contratti di durata superiore a 12 mesi erano talmente limitative da scoraggiare qualsiasi assunzione a termine. Si tratta di un’impostazione eccessivamente rigida da un lato e inidonea ad incidere su una reale riduzione dei contratti a termine dall’altro. La volontà di reintrodurre le causali era a mio giudizio positiva, ma era necessario non utilizzare ragioni così circoscritte, perché era sufficiente ribadire il carattere temporaneo delle ipotesi normative, in coerenza con le esigenze scaturenti dal mondo della produzione di beni e servizi. Inoltre, l’assenza di qualunque spazio alla contrattazione collettiva nella introduzione di ipotesi tecniche ed organizzative per la stipula del contratto inibiva la tecnica della “flessibilità contrattata” che aveva dato una buona prova in passato nella sua capacità di adattare la disciplina legale ai diversi contesti settoriali dell’economia. La riforma, inoltre, anche se è riuscita, in fase transitoria, a incrementare in misura consistente i rapporti di lavoro stabile (ne ho già parlato in precedenza), nel lungo periodo non era in grado di ottenere i risultati sperati. I dati del Ministero del lavoro del 2018 (riferiti al 2017) mettevano in evidenza che, nelle nuove assunzioni, vi era un’attivazione di contratti termine pari al 70% e che, tra questi, solo il 16,8% aveva una durata superiore ad un anno. Dunque, lasciare la acausalità del contratto sino a 12 mesi, significava, per il futuro, incidere solo su una quota minoritaria di rapporti a t. determinato, mantenendo praticamente immutata la situazione del mercato del lavoro. La disciplina, quindi, si poneva in contraddizione con l’intento di ridurre l’uso di questa tipologia contrattuale.

La normativa attuale ha in parte ridotto le rigidità della riforma del 2018. È stata confermata la acausalità del contratto per i primi 12 mesi e il tetto massimo di 24 mesi. Si è ridato spazio alla contrattazione collettiva (art. 19, c. 1, lett. a) e b), ma anche alla autonomia individuale in generale e in via transitoria (sino al 31 dicembre 2025) o in relazione a causali specifiche (la sostituzione di altri lavoratori). La nuova disciplina, molto enfatizzata dal Governo sotto il profilo mediatico per la sua capacità di nuova regolazione della materia, in verità ha avuto soprattutto una funzione di “immagine”. Infatti, i dati congiunti raccolti dal Ministero del lavoro (insieme ad Istat, Inps, Inail, Anpal) e riferiti al terzo trimestre 2022 (non vi sono dati più recenti), hanno messo in evidenza che i contratti a termine di durata superiore ad un anno erano solo lo 0,6 per cento del totale. Quindi, in relazione alla situazione esistente al momento della nuova disciplina legislativa (2023), l’impatto rilevante della riforma era escluso.

Dal punto di vista normativo, la riforma apre nuovamente spazio alla autonomia collettiva, reintroducendo la tecnica della “flessibilità contrattata”, che era prevista dall’art. 23 della l. n. 56/1987 e che, a mio giudizio, come ho già detto e se effettuata con determinate garanzie nella scelta dei soggetti sindacali, può svolgere una funzione positiva. I contratti collettivi di qualsiasi livello, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) possono introdurre nuove causali di contratto a termine. La formulazione della lettera a) del c. 1 dell’art. 19 lascia pensare ad una vera e propria “delega in bianco” all’autonomia collettiva (secondo la soluzione adottata dalla giurisprudenza della Cassazione – S.U. n. 4588/2006 – in relazione all’art. 23 della l. n. 56/1987). Anche se, per la prevalenza dell’ordinamento europeo e la interpretazione della Direttiva 1999/70/CE effettuata dalla Corte di giustizia europea, secondo la quale il rapporto a termine non può essere utilizzato per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, i contratti collettivi non potrebbero legittimare causali che, invece, determinassero tale effetto. Quelli esistenti al momento di introduzione della riforma hanno previsto causali oggettive, legate ad esigenze temporanee, in piena coerenza con la giurisprudenza europea. Essi hanno anche regolato esigenze di carattere soggettivo (riferite a giovani, cassaintegrati, disoccupati o inoccupati). Queste, alla luce delle sentenze della CGE, dovrebbero essere coerenti con la Direttiva, perché finalizzate al perseguimento di legittimi scopi di politica sociale (in questo caso la promozione di “soggetti deboli” sul mercato del lavoro). Anche se la Corte di giustizia ha affermato che tale legittimità è condizionata alla specificazione, da parte della legge che le introduce, della volontà di perseguire tale obiettivo. Tale esplicitazione non è contenuta nel d.lgs. n. 81/2015.

La lettera b) del c. 1 dell’art. 19 ribadisce che, in assenza dei prodotti dell’autonomia collettiva sopra indicati, le causali possono essere regolate dai “contratti collettivi applicati in azienda”. La formulazione ambigua utilizzata sembra autorizzare qualsiasi contratto collettivo, anche se stipulato da soggetti sindacali non comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In tal modo si legittimerebbero anche contratti sottoscritti da sindacati privi di rappresentatività, favorendo il dumping contrattuale, vista la sussistenza, nel nostro sistema, di accordi assai lontani dagli standard protettivi garantiti da quelli siglati dalle associazioni sindacali più importanti. Si sono proposte interpretazioni alternative, secondo le quali, la disposizione riguarderebbe sempre i contratti collettivi previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015. Essa intenderebbe dire che, in mancanza di nuovi prodotti dell’autonomia collettiva emanati dopo la riforma, continuerebbero a trovare applicazione i contratti già esistenti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (o dalle rappresentanze aziendali a loro riferite o dalle RSU) e applicati in azienda. Questa interpretazione, a mio giudizio condivisibile sul piano della politica del diritto, si pone in contrasto con la formulazione letterale della disposizione e anche con una sua lettura sistematica con la precedente lettera a) del c. 1 dell’art. 19. L’interpretazione alternativa, che salva sempre il requisito della comparatività più rappresentativa, è stata fatta propria anche da una Circolare del Ministero del lavoro. Tuttavia, l’ambiguità, a mio giudizio, rimane.

La medesima lettera b) del c. 1 dell’art. 19, con una norma transitoria sino al 31 dicembre 2025 (prorogata in continuazione e che, con una tecnica tipica del nostro legislatore, potrebbe diventare permanente o essere costantemente reiterata) consente, a livello individuale, di stipulare rapporti a termine “per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”. Non mi sembra che la disposizione possa essere letta nel senso che le parti sarebbero quelle collettive (anche in questo caso in base ad una interpretazione letterale e sistematica del suo contenuto). E il riferimento ai soggetti del contratto individuale è stato sostenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 14/2025 (v. infra, l’ultimo periodo della risposta al sesto quesito). La norma, al contrario, reintroduce una sorta di “causalone” (come nel d.gs. n. 368/2001) e potrebbe riproporre tutte le questioni interpretative già analizzate. Ritengo, peraltro, che, per le ragioni che ho già analizzato e anche alla luce di quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione in relazione alla omologa disposizione del 2001 (oltre che più in generale dalla CGE con riferimento alla Direttiva del 1999), le esigenze previste dalla lettera b) debbano necessariamente essere di carattere temporaneo. L’autonomia individuale, infine, con la lettera b-bis) del c. 1 dell’art. 19, conserva la possibilità di stipulare contratti a termine per la sostituzione di lavoratori assenti, con riferimento a qualsiasi ipotesi prevista dalla legge o dalla autonomia collettiva e senza che il sostituito abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro. La disposizione non pone problemi interpretativi ed è coerente con una logica di utilizzazione del termine per soddisfare esigenze temporanee di lavoro.

L’attuale formulazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 conserva la acausalità del contratto per i primi 12 mesi (sia in caso di proroga che di rinnovi). Vi possono essere dubbi sulla conformità di questa disposizione con la Direttiva europea 1999/70/CE. La clausola 5 dell’Accordo quadro, recepito nella fonte europea e diretto a prevenire gli abusi nella utilizzazione del contratto a termine, prevede, come si è già detto, tre ipotesi alternative. Tuttavia, in questo caso, non si è in presenza di nessuna delle tre condizioni previste, visto che i 12 mesi non costituiscono la durata totale massima dei contratti. Inoltre, in tale periodo non sono previste ragioni obiettive (secondo la stessa costante giurisprudenza della CGE). In aggiunta, sono stabiliti limiti massimi alle proroghe ma non ai rinnovi, che teoricamente potrebbero essere molto elevati, nel rispetto degli intervalli minimi previsti dall’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015. Dunque, anche da un punto di vista letterale, i 12 mesi previsti dall’art. 19 del d.lgs. n.81/2015 non sono tali da essere coerenti con l’art. 5 dell’Accordo a meno che non si sia in presenza di un unico contratto di durata di 12 mesi. In questo caso, infatti, l’art. 5 non si applica, perché riferito alla successione dei contratti (CGE 3 giugno 2021, causa C- 726/19, punto 28; CGE 11.02.2021, causa C-760/18 e molte altre). Senza dimenticare, infine, che, per 12 mesi, è possibile stipulare contratti a termine per soddisfare esigenze di lavoro “permanenti e durevoli”, in contrasto con la ampia giurisprudenza della CGE già analizzata.

In conclusione, mi sembra di poter dire che la riforma introdotta con il d.lgs. n. 81/2015 si presti a numerose critiche, sia in relazione alla formulazione originaria, che per le modifiche che si sono succedute nel tempo. La forte flessibilizzazione effettuata con la prima stesura della norma (a consuntivo di quanto già effettuato negli anni precedenti), dopo l’eccessivo irrigidimento del 2018, è stata ridotta e razionalizzata negli ultimi anni, riattribuendo valore all’autonomia collettiva. Tuttavia, la disciplina attuale presenta ambiguità nel testo, con possibili incertezze interpretative, e potenziali contrasti con la Direttiva europea, secondo l’interpretazione adottata dalla CGE. Il giudizio complessivo è, quindi, negativo. Penso che esigenze temporanee per qualsiasi contratto a termine (salvo quelli di brevissima durata) e spazio ai contratti collettivi stipulati da sindacati realmente rappresentativi (magari introducendo con legge criteri di verifica effettiva della rappresentatività) dovrebbero essere le linee guida di una regolazione della materia. In tal modo si riporterebbe il contratto a termine alla sua funzione originaria di rapporto diretto a soddisfare esigenze non stabili di lavoro, in coerenza con il t. indeterminato quale “forma comune” del lavoro ed evitando l’uso improprio che, come si è visto, caratterizza oggi questa tipologia contrattuale. 

S. Ciucciovino. Il mio giudizio complessivo sulla disciplina normativa dei contratti a termine degli anni successivi al Jobs Act non è positivo.

Il c. d. Decreto Dignità del 2018, a forte connotazione ideologica, con una quinta grande riforma del contratto a termine, ha riportato le lancette dell’orologio indietro di diversi anni. Se può essere condivisibile l’obiettivo di politica del diritto di restringere ulteriormente il ricorso ai contratti a termine, sul piano della tecnica legislativa tale risultato poteva essere perseguito più semplicemente riducendo il limite quantitativo di durata massima e/o di successione di più contratti temporanei con il medesimo lavoratore e/o agendo sul limite quantitativo di proporzione percentuale tra tempo indeterminato e tempo determinato. Invece si è voluto reintrodurre il regime causale dell’assunzione a termine prevedendo presupposti oggettivi oltre il 12° mese molto stringenti e di difficile applicazione, esponendo nuovamente all’incertezza interpretativa la disciplina dei presupposti di legittimo ricorso al contratto a termine, in netta controtendenza con lo spirito di semplificazione controllata che era sotteso al Jobs Act.

Le modifiche successive apportate dal c.d. Decreto Sostegni bis (d.l. n.73/2021, conv. in l. n.106/2021), realizzano una sesta riforma dei contratti a termine e aprono nuovamente alla contrattazione collettiva creando un varco significativo nella rigidità della normativa vigente, ma dall’altro lato, lasciano all’interprete diversi dubbi interpretativi.

L’importante novità di questa riforma risiede nella restituzione all’autonomia collettiva del potere di individuare i presupposti causali, nonché di proroga e di rinnovo del termine, per durate eccedenti i 12 mesi (entro i 24 mesi), superando così quella estrema rigidità delle causali legali che il Decreto Dignità aveva determinato in modo tassativo e restrittivo, impedendo di fatto il superamento dei 12 mesi nell’impiego temporaneo.

La nuova norma, invece, prevede la possibilità di superare i 12 mesi, oltre che nelle ipotesi legali già previste, anche a fronte di “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51”, cioè dai contratti di qualsiasi livello (nazionale, territoriale, aziendale) stipulati “da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e [da]i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

Dal punto di vista del rapporto tra legge e autonomia collettiva, si tratta di un ritorno al passato, in particolare a quel modello fecondo di integrazione tra disciplina legale e disciplina collettiva nel controllo dell’occupazione a termine che, varato con l’art. 23 della l. n. 56 del 1987, per tanti anni ha prosperato e ha consentito una gestione condivisa dell’occupazione a tempo determinato, articolata sulle specifiche esigenze di settori e realtà produttive. Il rinvio legale all’autonomia collettiva, peraltro, come si è detto era riuscito anche a mantenere sotto controllo il contenzioso giudiziario in materia, cosa non trascurabile tenuto conto del notevole contenzioso che ha accompagnato invece le successive riforme del contratto a termine caratterizzate dal ridimensionamento del ruolo del contratto collettivo.

La norma introdotta dal c.d. Decreto Sostegni bis rinvia a tutti i livelli contrattuali che, indifferentemente e sullo stesso piano, sono abilitati a dare attuazione al rinvio di legge, in quanto rientranti nella definizione dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015. Previsione, quest’ultima, cui deve ormai riconoscersi la valenza di norma generale nella disciplina dei rinvii legali alla contrattazione collettiva. Si tratta di un rinvio ampio alla contrattazione collettiva, una vera e propria “delega in bianco” di nuova generazione, che può riguardare sia esigenze oggettive sia causali c.d. soggettive, cioè legate a caratteristiche soggettive dei lavoratori (giovani, disoccupati, disabili, ecc.). Con la differenza che, diversamente dal modello di flessibilità negoziata degli anni ‘80/’90, tali limiti operano dal 12° mese, perché nei primi 12 mesi l’assunzione a termine è ancora sostanzialmente svincolata da presupposti qualitativi, ma tuttora sottoposta ai limiti di carattere quantitativo già previsti dal Jobs Act di cui si è già detto.

Sennonché, la riforma del Decreto Sostegni bis indebolisce questo rinnovato quadro di combinazione di fonte legale e fonte collettiva nel governo della flessibilità, attraverso una norma, di discutibile razionalità, secondo la quale, in assenza delle previsioni dei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, viene rimessa all’autonomia individuale l’individuazione di esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva e sostitutiva che possono legittimare l’apposizione del termine al contratto di lavoro oltre il 12° mese di durata. Un ritorno, quindi, alla fonte individuale (molto simile al modello del c.d. causalone del 2001) dove l’intervento dell’autonomia collettiva non è più autorizzatorio (come lo era nel modello della flessibilità negoziata della fine del secolo scorso), bensì meramente alternativo a quello della fonte legale e persino della fonte individuale.

Vero è che si tratta di una norma transitoria, che è stata oggetto di diverse proroghe, l’ultima delle quali – fino al 31 dicembre 2025 – apportata dal Decreto Milleproroghe n. 202/2024. Ma non si può non notare, dal punto di vista della tecnica legislativa, la distonia di una previsione che altera sostanzialmente il difficile equilibrio raggiunto tra limiti legali e collettivi nella gestione del lavoro temporaneo e introduce nuovamente nella disciplina legale del contratto a termine elementi di forte soggettivismo, riportando sostanzialmente in vita il sistema del “causalone”, con lo scopo di rimettere in gioco anche la fonte individuale.

                  

V. A. Poso. Chiedo, sempre ai giuslavoristi, di tracciare un quadro illustrativo, sintetico, delle disposizioni normative oggetto del quesito referendario. 

S. Ciucciovino. Il requisito referendario in sostanza mira a introdurre un divieto generale di assunzione a termine, salvo che per ragioni sostitutive. Divieto che potrebbe essere derogato soltanto dai contratti collettivi di cui all’art. 51, d. lgs. n. 81/2015, quindi dai contratti collettivi, di qualsiasi livello, sottoscritti da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

Si tratterebbe di un regime straordinariamente vincolistico, ancora più restrittivo di quello vigente all’epoca della legge n.230/1962, con una vera e propria radicalizzazione del modello di flessibilità negoziata degli anni ’80/’90. Allora, infatti, il contratto collettivo era una valvola di sfogo delle istanze di flessibilità che si aggiungevano alle cinque ipotesi legali, comunque consentite dal legislatore in base ad una valutazione di ragionevolezza della sussistenza di fisiologiche esigenze oggettive di impiego temporaneo della manodopera. Nella prospettiva delineata dal quesito referendario, invece, si attribuirebbe un vero e proprio potere di veto al sindacato rispetto a tutte le assunzioni a termine, escluse soltanto quelle dovute a ragioni sostitutive. Il che a dire il vero appare eccessivamente rigido e dagli esiti incerti, vista anche la forte competitività che si riscontra sul piano della rappresentanza collettiva e della proliferazione dei contratti collettivi, che potrebbe addirittura innescare, per eterogenesi dei fini, una concorrenza tra sindacati giocata sul terreno della gestione della flessibilità negoziata.

L’intervento referendario determinerebbe una forte discontinuità con il regime attuale in quanto ora l’assunzione a termine è sempre consentita in base alla previsione legale entro i 12 mesi. Sia l’autonomia individuale (transitoriamente) sia l’autonomia collettiva possono disciplinare i presupposti per assunzioni a termine oltre i 12 mesi. Viceversa, con la modifica proposta dal referendum sarebbe cancellata del tutto la possibilità di assumere a termine per qualsiasi durata, anche per durate inferiore ai 12 mesi, salvo che nei casi consentiti dal contratto collettivo. Quindi la discontinuità è molto rilevante sia rispetto al regime attuale, sia rispetto a tutte le riforme della disciplina del contratto a termine che si sono succedute dagli anni 60 ad oggi. Certamente la promozione dell’intervento della contrattazione collettiva nella disciplina della materia, come ho ripetuto più volte, è da considerare positivamente, ma pur sempre in un modello di integrazione e completamento della disciplina legale e non di esclusiva regolazione della materia. 

V. Speziale. Il referendum si propone di realizzare una abrogazione parziale di alcune parole contenute negli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015. Per comprendere quale sarebbe l’effetto abrogativo derivante dal referendum, se avesse esito positivo, sarebbe opportuno riprodurre le disposizioni che scaturirebbero dall’accoglimento dei quesiti referendari:

Articolo 19

 1.Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non eccedente i ventiquattro mesi, solo:

  a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;

  b) sostituzione di altri lavoratori.

 01. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato.

Articolo 21

1bis. In caso di stipulazione di un contratto in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato

L’abrogazione parziale conserverebbe il limite massimo dei 24 mesi oggi esistente, ma tuttavia, a parte l’ipotesi della sostituzione di altri lavoratori (rimasta immutata e di cui ho già parlato), rinvierebbe integralmente all’autonomia collettiva di vario livello la determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che possono giustificare l’apposizione del termine al contratto. Si realizzerebbe, dunque, un modello di “flessibilità contrattata” che attribuirebbe ai sindacati comparativamente più rappresentativi (e alle rappresentanze aziendali) un potere ancora più esteso che in passato. Infatti, nell’art. 23 della l. n. 56/1987 il contratto collettivo poteva aggiungere causali rispetto a quanto previsto dalla l. n. 230/1962 e ad altra normativa, venendo a costituire una potenziale fonte aggiuntiva di ipotesi normative. In caso di esito positivo del referendum, i contratti collettivi, a parte le ragioni sostitutive, sarebbero l’unico atto negoziale abilitato a individuare le causali.

Non condivido le critiche che sono state espressa da Silvia Ciucciovino.

In primo luogo, la nuova normativa sarebbe pienamente in linea con quella attualmente esistente per quanto riguarda il potere di determinazione delle ragioni economiche ed organizzative che consentono l’apposizione del termine. L’unica novità sarebbe quella di eliminare la possibilità, concessa alle parti individuali sino al 31 dicembre 2025, di individuare tali esigenze. Una eventualità che il legislatore ha previsto solo in via transitoria e la cui eliminazione non dovrebbe destare eccessivo stupore, poiché è in linea con le scelte legislative già effettuate. D’altra parte, la valorizzazione dei contratti collettivi stipulati da soggetti dotati di effettiva rappresentatività mi sembra una scelta che intende privilegiare le parti sociali quali attori fondamentali della regolazione del livello di flessibilità richiesto dalle imprese, da contemperare con la tutela del lavoro. Queste esigenze, con la mediazione sindacale, possono trovare un punto di equilibrio ottimale, con una capacità di adattamento ai singoli contesti di settore economico o di azienda certamente più efficace di una fattispecie legale di generale applicazione. Tra l’altro, le esperienze dei contratti collettivi degli ultimi anni dimostrano che le parti sociali sono state in grado di regolare la materia con ragioni oggettive di natura temporanea e con causali soggettive di promozione dell’occupazione di soggetti deboli sul mercato del lavoro che sembrano definire soluzioni soddisfacenti dei contrapposti interessi. Il che lascerebbe ben sperare sul ruolo ancora più centrale che i contratti collettivi verrebbero a svolgere se il referendum avesse esito positivo.

La scelta effettuata dai promotori del referendum non significa, ovviamente, rifiuto a priori di una tipizzazione legale delle causali del contratto a t. determinato. Tale opzione, tuttavia, è quella resa possibile dal meccanismo referendario che, nel caso di proposta di abrogazione parziale, impone di agire su un testo già esistente, senza poter aggiungere previsioni normative ulteriori. In considerazione del carattere transitorio della disposizione che affida alle parti individuali la specificazione delle ragioni di carattere tecnico e produttivo che legittimano il termine e della mancanza di un chiaro riferimento alle esigenze temporanee (peraltro desumibili in via interpretativa), si è preferito proporre la eliminazione di questa norma, conservando quella che valorizza il ruolo dell’autonomia collettiva.

Piuttosto, in relazione a quest’ultimo profilo, i problemi sono altri. In particolare, la mancanza di criteri certi per la individuazione dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale, che è tuttavia questione di carattere generale (e non legata solo al contratto a termine) e da non impedire comunque, anche allo stato attuale, la selezione dei prodotti dell’autonomia collettiva. Inoltre, rimane la questione della devoluzione di un potere così ampio a livello aziendale, con i possibili problemi di squilibrio nei rapporti negoziali con l’impresa e di potenziale concorrenza al ribasso tra i sindacati dei lavoratori che ha determinato, in alcuni casi, veri e propri fenomeni di flessibilizzazione molto accentuata nell’uso dei contratti a termine. Si tratta, peraltro, di problemi difficilmente risolvibili in sede referendaria e che richiederebbero interventi legislativi specifici.

La novità più rilevante è certamente quella della eliminazione dei 12 mesi di rapporti a t. determinato acausali. Tuttavia, dopo quanto ho già avuto modo di dire, sono totalmente favorevole ad una innovazione che dovrebbe evitare i fenomeni negativi già descritti e riportare questo modello contrattuale nell’ambito della regolazione basata su fattispecie tipizzate e non quale strumento fungibile con il lavoro stabile seppur nell’ambito di un limite temporale determinato (un anno), ma comunque sempre molto ampio.

L’assetto normativo che ne scaturirebbe riproporrebbe alcuni dei problemi giuridici già esaminati, in relazione alla delega “in bianco” ai contratti collettivi e alla coerenza delle disposizioni modificate con la Direttiva 1999/70/CE. Rinvio, sul punto, a quanto già detto. Rilevo peraltro, che la eliminazione dei 12 mesi acausali, la fissazione di un tetto massimo di 24 mesi e il ritorno a ragioni oggettive tipizzate dall’autonomia collettiva – con l’obbligo, comunque, di rispettare il requisito della temporaneità per essere coerenti con la giurisprudenza della CGE – dovrebbero garantire la conformità della nuova normativa al contenuto della fonte europea.

Le altre disposizioni oggetto di referendum, diverse da quelle analizzate (art. 19, c. 1 bis e art. 21, c. 01), non richiedono un esame particolare. Si tratta solo della loro modificazione parziale, per adeguarle al contenuto delle abrogazioni che riguarderebbero l’art. 19, c. 1, lettere a) e b).

 

V. A. Poso A Valerio Speziale chiedo di ricordarci, per sommi capi, le opinioni espresse dalla dottrina con riferimento alle disposizioni normative oggetto di referendum.

V. Speziale. Ho in parte già risposto a questa domanda.

L’eliminazione dei 12 mesi nei quali è possibile stipulare un contratto a termine senza causale è stato criticato da parte della dottrina per le ragioni già spiegate (fungibilità tra contratto a termine e lavoro stabile nell’arco di anno; utilizzazione impropria del rapporto quale periodo di prova e per evitare la normativa sui licenziamenti, potenziale contrasto con la Direttiva europea e così via). Alcuni autori hanno quindi sostenuto l’opportunità che, nell’ambito del limite massimo temporale dei 24 mesi, fossero introdotte nuovamente le causali riconducibili ad esigenze temporanee di lavoro, senza le ipotesi fortemente restrittive introdotte dal c.d. Decreto Dignità (valutate negativamente dalla stragrande maggioranza degli studiosi).

Al contrario, altri autori hanno ritenuto che la conservazione di un periodo in cui il contratto non richiede ragioni giustificative sia un fattore positivo, per garantire alle imprese un determinato livello di flessibilità ed evitare il contenzioso, lasciando al limite quantitativo previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 81/2015 (derogabile dalla autonomia collettiva) il compito di evitare una eccessiva precarizzazione dei rapporti di lavoro. Tra l’altro, da quando sono state eliminate le causali del termine (prima nel limite dei 36 mesi, poi ridotto a 12), la quantità di controversie in sede giurisdizionale è diminuita in modo rilevantissimo. La spiegazione è rinvenibile nella assenza di esigenze giustificative (che sono state la causa preponderante dei processi instaurati nel passato) e nel fatto che, come si è visto, il numero dei contratti a termine di durata superiore all’anno è assai ridotto.

La previsione del rinvio alle ipotesi normative dei contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, introdotta per la prima volta nel luglio 2021 e successivamente confermata nel testo vigente sottoposto a referendum, è stato accolto in senso positivo dalla dottrina, quale elemento di valorizzazione delle flessibilità negoziata, considerata come uno strumento importante per la regolazione delle esigenze di flessibilità delle imprese e di tutela del lavoro, anche per la sua adattabilità a specifici settori economici o contesti aziendali. Si è sostenuto che il riferimento ai “casi” invece che alle “esigenze” consentirebbe ai contratti collettivi di avere maggiore ampiezza nelle ipotesi che potrebbero essere determinate, in relazione a particolari categorie di lavoratori o a specifiche professionalità. Una tesi certamente sostenibile dal punto di vista letterale, ma che sopravvaluta la capacità del legislatore di utilizzare un linguaggio così selettivo e tale da distinguerlo da altre formulazioni utilizzate.

Alcuni autori hanno ritenuto che, tuttavia, fosse importante prevedere anche causali di fonte legale, in considerazione della opportunità che la legge regoli fattispecie così rilevanti per la disciplina del mercato del lavoro e anche per influenzare in modo positivo la stessa autonomia collettiva, che poteva trovare nelle ipotesi legali un parametro di riferimento. Altra parte della dottrina ha messo in rilievo come attribuire il potere di introdurre ipotesi normative anche al contratto collettivo aziendale possa comportare problemi per la minore forza negoziale del sindacato a questo livello e per la stessa concorrenza al ribasso tra i sindacati.

La lettera a) del comma 1 dell’art. 19 del decreto legislativo è stata interpretata dalla dottrina come delega “in bianco” all’autonomia collettiva, che non ha limiti nella introduzione delle causali di tipo oggettivo e soggettivo. In effetti, se si analizza la formulazione letterale della disposizione, questa conclusione sembra condivisibile. Inoltre, il testo attuale è molto simile a quello dell’art. 23 della l. n. 56/1987, la cui interpretazione da parte delle Sezioni Unite della Cassazione (con la sentenza n. 4588/2006) ha confermato l’ampiezza della delega, che poteva introdurre ipotesi diverse da quelle al tempo previste dalla legge e sia di carattere oggettivo e soggettivo (per fasce deboli di lavoratori e a fini di promozione dell’occupazione). Credo che queste conclusioni possano essere ribadite oggi. Tuttavia, la lettura della motivazione della sentenza del 2006 mette in rilievo come la Corte Suprema non abbia in alcun modo argomentato le sue conclusioni alla luce del quadro normativo europeo e dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Questi limiti riducono la piena libertà dell’autonomia collettiva, come ho già spiegato in precedenza (nella mia risposta al quarto quesito).

La lettera b) del primo comma dell’art. 19 è quella che ha sollecitato maggiori critiche e attenzioni da parte della dottrina, per il suo contenuto non lineare che autorizza opzioni interpretative in netta discontinuità con il passato, nella misura in cui sembra legittimare anche contratti collettivi non stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ho già descritto questi aspetti nella mia risposta al quarto quesito e non prendo in considerazione tutte le diverse interpretazioni proposte, ma solo quelle prevalenti.

 La tesi della possibile apertura anche a contratti collettivi stipulati da sindacati non rappresentativi si basa sulla formulazione letterale (non si fa riferimento a quelli sottoscritti da soggetti sindacali con determinati requisiti di rappresentatività) e sul fatto che la lettera b) opera “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a)” e cioè quando manchino gli atti di autonomia negoziale previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, che seleziona appunto alcune organizzazioni sindacali e non tutte. Si è detto che, in realtà, la lettura della norma deve essere diversa. La lettera a) sarebbe riferita ai contratti collettivi stipulati successivamente all’entrata in vigore dalla legge. Mentre la lettera b) riguarderebbe gli accordi esistenti nel momento in cui la legge è emanata ed applicati in azienda, che, per esigenze di coerenza sistematica, dovrebbero avere gli stessi requisiti di quelli previsti dall’art. 51.

 Mi sembra che questa lettura non sia condivisibile. Non esiste nessun elemento che consenta di relegare la lettera a) ai contratti futuri e la b) a quelli esistenti già in precedenza. La spiegazione più coerente con il testo (sia dal punto di vista letterale che sistematico) è quella contraria. Come ho già detto, la Circolare del Ministero del lavoro del 9.10.2023 ha affermato che anche i contratti collettivi stipulati ai sensi della lettera b) devono essere quelli previsti dall’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, senza peraltro spiegare il perché. L’ambiguità di una formulazione letterale così infelice è sicuramente una delle ragioni che ha spinto i promotori del referendum a chiederne l’abrogazione.

La seconda parte della lettera b) è stata interpretata dalla parte preponderante della dottrina come tale da abilitare l’autonomia individuale, sino al 31.12.2025 e in aggiunta a quanto previsto dai contratti collettivi, a stipulare rapporti a termine fondati su esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti del contratto di cui all’art. 2094 c.c. Anche questa tesi mi sembra condivisibile, in considerazione del testo della disposizione, che aggiunge una terza ipotesi alle due precedenti tutte riferite all’autonomia collettiva, che sembra non essere ricompresa da questa fattispecie ulteriore. Viene qui riprodotto, in via transitoria, lo stesso “causalone” regolato dall’art. 1 del d.lgs. 368/2001, che presenta, quindi gli analoghi problemi interpretativi. Come ho già spiegato nella risposta al quarto quesito, le esigenze tecniche e produttive, a mio giudizio, debbono essere di carattere necessariamente temporaneo.

Tuttavia, è stata prospettata anche una tesi diversa, basata sulla formulazione letterale della disposizione e, in particolare, sulla posizione della virgola. Si è detto che, se si avesse voluto abilitare l’autonomia individuale, la virgola avrebbe dovuto essere collocata in posizione diversa. Invece che con la formulazione attuale (“nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa…”), la disposizione avrebbe dovuto essere scritta nel seguente modo: “”nei contratti collettivi applicati in azienda e, comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze…”. Con il testo esistente, se viene omesso l’inciso tra le due virgole (“e comunque entro il 31 dicembre 2025), le parti sarebbero quelle collettive e non individuali. L’autore di questa tesi (Franco Scarpelli) ritiene che la lettera b) conterrebbe quindi un doppio rinvio all’autonomia collettiva, che si potrebbe spiegare come una disposizione che intende stimolare i nuovi contratti collettivi ad intervenire e nel frattempo (fino al 31 dicembre 2025) continuando ad utilizzare quelli già esistenti e applicati in azienda. La tesi, che ha certamente un suo fondamento dal punto di vista della costruzione ortografica del testo, mi sembra difficile da sostenere dal punto di vista sistematico. Non si comprende, infatti, perché nella lettera a) e nella prima parte della b), il riferimento alla contrattazione collettiva è totalmente libero, senza vincoli di contenuto, e, invece, nella seconda parte di quest’ultima disposizione vi è il riferimento alle ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo (seppure con un limite temporale). Comunque, la Circolare del Ministero del lavoro sopra indicata ha ribadito che la seconda parte della lettera b) è riferita al contratto individuale di lavoro. I promotori del referendum, partendo da questa interpretazione prevalente, hanno inteso sottrarre all’autonomia individuale questo potere, evitando tra l’altro una delle ragioni principali del contenzioso che si era sviluppato durante la vigenza del d.lgs. n. 368/2001.

Va anche rilevato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025 e in sede di valutazione della ammissibilità del referendum sul contratto a termine, ha espressamente interpretato la disposizione sopra esaminata come tale da abilitare i contratti individuali e non quelli collettivi (punto 3.1, nono capoverso, e punto 4.1.2, secondo capoverso, del Considerato in diritto). Pur senza un’analisi approfondita della questione, la presa di posizione della Corte ha indubbiamente una importanza essenziale per l’ascrizione del significato alla disposizione come tale da autorizzare solo l’autonomia individuale.

                   

V. A. Poso Silvia Ciucciovino, hai qualcosa da aggiungere rispetto a quanto evidenziato da Valerio Speziale? 

S. Ciucciovino. Non ho nulla da aggiungere a quanto detto da Valerio Speziale.

                   

V. A. Poso Rivolgo la stessa domanda a Silvia Ciucciovino, con riferimento, però, alle applicazioni giurisprudenziali più importanti che si sono registrate a proposito delle disposizioni normative oggetto di referendum. 

S. Ciucciovino. Da una ricerca condotta nei repertori di giurisprudenza non si riscontrano contenziosi né di merito né di legittimità sull’art. 19, comma 1, come modificato dal c.d. Decreto Dignità in poi. Il contenzioso sulle causali, soprattutto quello di Cassazione, è ancora riferito al d. lgs. n. 368/2001 ratione temporis applicabile ai rapporti oggetto di causa.

Sul “Decreto Dignità”, a quanto consta non risulta contenzioso forse anche per via della impraticabilità delle causali.

 Il contenzioso emerge a partire dal venir meno del periodo di acausalità introdotto con la legislazione emergenziale, ma le poche pronunce di merito respingono i ricorsi in quanto i rapporti sono sorti durante il periodo di deroga e dunque le causali non risultavano applicabili.                  

 

V. A. Poso Hai qualcosa da aggiungere, Valerio Speziale, alle osservazioni di Silvia Ciucciovino? 

V. Speziale. Concordo con quanto detto da Silvia Ciucciovino.

  

V. A. Poso Come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria sui contratti a termine?

 Lo slogan utilizzato dalla CGIL per questo quesito, come abbiamo detto, è che il lavoro deve essere stabile e non precario, perché la precarietà è una limitazione della libertà. Viene quindi auspicato il superamento della liberalizzazione dei contratti a termine e della possibilità di concludere contratti a termine a-causali nel periodo di dodici mesi. Ferma restando la durata massima non eccedente i ventiquattro mesi, il contratto di lavoro a termine resterebbe possibile solo nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’art. 51 (dotati di specifici requisiti di rappresentatività sindacale comparativa) e per la sostituzione di altri lavoratori, con la trasformazione in contratto a tempo indeterminato in assenza di dette condizioni; condizioni che devono essere osservate sempre, anche in caso di proroghe e rinnovi.

Condividete la prospettazione referendaria? 

S. Ciucciovino. Non condivido l’impostazione referendaria per l’estremismo della norma che ne risulterebbe, ai limiti della irrazionalità e che potrebbe porsi addirittura in contrasto con l’art. 41 Cost. per i fortissimi vincoli che ne deriverebbero all’iniziativa economica privata, specie per attività produttive che sono più soggette di altre a variazioni fisiologiche della domanda di mercato. Infatti in mancanza di previsioni del contratto collettivo l’assunzione a termine sarebbe di fatto impedita.

Un conto è la rivalutazione o valorizzazione del ruolo della fonte collettiva, altro conto è l’introduzione di un modello, del tutto inedito in Italia, di vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso. 

V. Speziale. Ho già espresso il mio apprezzamento per la richiesta di referendum abrogativo. Rinvio a quanto ho detto nel rispondere alla quarta e quinta domanda.

Non condivido l’opinione di Silvia Ciucciovino sulla irrazionalità delle norme che scaturirebbero qualora il referendum avesse un esito positivo e sul possibile contrasto con l’art. 41 Cost. delle disposizioni che deriverebbero dalla abrogazione parziale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, rimando alla mia risposta alla quinta domanda, in relazione al ruolo positivo svolto in passato dai contratti collettivi ed alla possibile funzione strategica che essi potrebbero avere in futuro. Silvia parla di un vero e proprio monopolio sindacale della flessibilità in ingresso. Ma la situazione attuale non è diversa, visto che, a parte le esigenze sostitutive (che non sono cambiate), tutto è rimesso ai contratti collettivi, perché la disposizione che attribuisce all’autonomia individuale la possibilità di introdurre causali è transitoria (oltre ad essere scritta male, con i potenziali contrasti interpretativi da me già descritti).

Non vedo quali sono i vincoli che verrebbero posti all’iniziativa economica privata. La possibilità di introdurre causali giustificative all’autonomia collettiva, oltre a trovare fondamento nell’art. 39 Cost., rispecchia una tecnica usuale nel nostro ordinamento in cui la legge rimette ai contratti collettivi la regolazione di aspetti fondamentali del mercato del lavoro, in piena coerenza con tutte le disposizioni costituzionali a tutela del lavoro e con lo stesso comma secondo dell’art. 41 della Costituzione. La eliminazione della “acausalità” nei primi 12 mesi del contratto a termine non può certo essere considerata come eccessivamente restrittiva dell’iniziativa economica. La presenza di ragioni giustificative del rapporto a termine sin dal momento della sua stipulazione è stata una caratteristica del nostro sistema giuridico per decenni, senza che si ponesse alcun problema di compatibilità con la Costituzione, proprio in considerazione della protezione che la nostra legge fondamentale assicura al lavoro ed ai limiti previsti dal secondo comma dell’art. 41. 

A. Morrone. La proposta referendaria è stata dichiarata ammissibile dalla Corte costituzionale. Non sono stati rilevati, in proposito, limiti costituzionali ostativi. Neppure quelli derivanti dall’art. 41 Cost. Ricordo, infatti, che ancorché il giudice delle leggi abbia più volte ribadito che il controllo di ammissibilità non è un sindacato anticipato di costituzionalità, nei fatti, per tabulas, guardando alla sostanza di quella giurisprudenza, la Corte ha sempre considerato i principi e i valori costituzionali quali parametri il cui rispetto è necessario assicurare per dare il via libera a referendum abrogativi. Personalmente non ritengo il rinvio alla contrattazione collettiva un vulnus rispetto alla “intrapresa” economica privata, l’oggetto effettivo della libertà tutelata (l’attività economica privata è, com’è noto, oggetto tanto di limiti, quanto di indirizzi e controlli per mezzo della legge); mentre, invece, l’autonomia collettiva rimanda proprio al principio dell’accordo tra le parti (datoriale e lavorativa), sicché non si può ritenere che l’impresa privata venga con ciò esclusa, e il sindacato dei lavoratori investito di un potere esclusivo. Il rinvio alla contrattazione è coerente con l’art. 39 Cost. (sia pure nell’interpretazione che tende a “de-costituzionalizzare” i commi successivi al primo).

             

V. A. Poso. Possiamo dire che l’intervento referendario, in caso di esito positivo del voto popolare, renderebbe più coerente la nostra legislazione con la direttiva europea e le applicazioni della Corte di Giustizia? 

S. Ciucciovino. Assolutamente no. La Direttiva europea 1999/70 CE non pone vincoli alla prima assunzione a termine e non chiede agli ordinamenti nazionali di porne. Chiede piuttosto di prevenire la discriminazione e l’abuso del contratto a termine, e quindi si concentra piuttosto sulla successione di più contratti a termine.

È rimessa alla discrezionalità degli Stati membri la forma più opportuna per raggiungere l’obiettivo della prevenzione dell’abuso. In tale contesto le ragioni oggettive nel caso di proroga o rinnovo sono uno dei possibili, ma non l’unico, mezzi di prevenzione dell’abuso, in alternativa a limiti alla durata massima e alla successione di più contratti a termine.

In definitiva la stretta proposta dal quesito referendario all’apposizione del termine al contratto di lavoro sin dalla prima assunzione non è richiesta dalla Direttiva europea e si porrebbe come una iniziativa dell’ordinamento italiano nell’esercizio della sua discrezionalità regolativa dell’occupazione a termine, ben più restrittiva di quelle che si riscontra nel panorama europeo.

V. Speziale. Ha ragione Silvia Ciucciovino quando afferma che la Direttiva, come interpretata dalla CGE, non pone vincoli alla stipulazione del primo contratto a termine e sul fatto che le ragioni oggettive sono solo uno dei possibili strumenti per prevenire l’abuso nella successione dei contratti a termine.

Tuttavia, la previsione delle esigenze tecniche produttive ed organizzative è una delle possibilità rimesse al legislatore nazionale e, quindi, la normativa scaturente dall’esito positivo del referendum sarebbe assolutamente coerente con la fonte europea. Non si potrebbe parlare di maggiore conformità alla Direttiva, ma certamente di utilizzazione di una delle soluzioni giuridiche da essa ammessa. Per quanto attiene poi alla introduzione di causali giustificative anche per il primo contratto (che, come già detto è parte della storia nazionale del contratto a termine), essa è certamente consentita dalla clausola 8, comma 1, dell’Accordo Quadro della Direttiva, che autorizza gli Stati membri ad introdurre disposizioni più favorevoli rispetto ad essa. La necessità di ragioni giustificative anche per il primo rapporto a t. determinato rientra certamente in tale ambito.                

A. Morrone. I margini di apprezzamento degli Stati membri di fronte ad una direttiva sono sempre stati intesi in maniera lasca dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Anche in questo caso non riterrei rilevanti questi limiti, ammesso che ci siano. Come ricordato, se una violazione degli obblighi europei fosse derivata dalla richiesta referendaria, la Corte costituzionale l’avrebbe indicato, bloccando l’ammissibilità. Dopo il primo precedente, la sentenza di non ammissibilità del quesito sul testo unico in materia di immigrazione (sent. n. 31/2000), la giurisprudenza in materia di referendum ha previsto tra gli ostacoli all’ammissibilità le “leggi a contenuto comunitariamente vincolato”. Un simile sindacato implica l’esistenza di limiti europei specifici e determinati che la legislazione nazionale ha violato. Nel caso che ci occupa, secondo l’interpretazione della sent. n. 14/2025, non ricorre una simile ipotesi.

 

V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo agli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015, per le parti più sopra indicate. Anche a seguito di interlocuzione con i promotori, alla denominazione del quesito – allo scopo di consentire l’immediata comprensione del risultato perseguito dal referendum e delle conseguenze che si determinerebbero nell’ordinamento ove la richiesta referendaria, ai sensi dell’art. 75,co.3,Cost., venisse approvata – è stata assegnata la seguente denominazione sintetica, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “ Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi”.

Il quesito è stato integrato, opportunamente, con l’indicazione separata degli articoli in esso richiamati e dei commi in cui sono contenute le disposizioni degli articoli 19 e 21 di cui è richiesta la parziale abrogazione.

Dato atto della sussistenza dei presupposti per dichiarare la rispondenza a legge del quesito (atto normativo avente natura ed efficacia di legge, vigenza delle disposizioni oggetto di referendum in esso contenute, in assenza di atti di abrogazione, anche parziale, e di pronunce di illegittimità incostituzionale),l’Ufficio Centrale per il Referendum ha escluso la possibilità, in applicazione dell’art. 32, comma 7, l. 25 maggio 1970, n.352, di procedere alla concentrazione della richiesta referendaria oggetto di esame con le altre tre richieste in materia lavoristica, non ravvisandosi, tra quella in esame e le altre, eventuali uniformità o analogie di materia.

Merita di essere rilevato che il quesito ammesso non è stato integrato con la specifica menzione degli interventi normativi che hanno apportato le modifiche del testo vigente – al momento della decisione- ad opera del d.l. 4 maggio 2023,n. 48, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 luglio 2023, n. 85: quanto al comma 1,lett.a) dell’art. 24, con riferimento al comma 1,lett.b) dell’art. 19, d.lgs. n. 81/2015 (solo questa modifica, dove si legge la originaria data del 30 aprile 2024, poi prorogata, è stata indicata nella premessa della motivazione di detta ordinanza, a pag. 5, 2° cpv); quanto al comma 1-bis del medesimo art. 24, con riferimento all’art. 21, comma 01 del d. lgs. n. 81/2015); e da ultimo ad opera del d.l. 30 dicembre 2023,n.215 ( c.d. decreto Milleproroghe 2023), convertito, con modificazioni, dalla l. 23 febbraio 2024, n. 18, che, con l’art. 18, comma 4-bis, ha modificato la lett. b) dell’art. 19,comma 1, del d. lgs. n. 81/2015.

Da rilevare che è l’art. 18, comma 4-bis sopra citato che ha prorogato al 31 dicembre 2024 la scadenza originaria del 30 aprile 2024 indicata nella norma oggetto di referendum.

La completa integrazione (con le modifiche normative intervenute e le pronunce di illegittimità costituzionale) del testo proposto dai promotori, invece, è stata operata dall’Ufficio della Cassazione con riferimento al quesito avente ad oggetto il Jobs Act, mentre i quesiti relativi all’abrogazione parziale dell’art. 8 della l. n. 604/1966 e degli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 81/2015 erano stati già proposti dai promotori dei referendum con il testo integrato dall’indicazione delle modifiche normative intervenute nel corso degli anni..

Avete osservazioni in proposito? 

A. Morrone. Sulla mancata concentrazione dei quesiti, come ho chiarito nella risposta all’analoga domanda contenuta nell’intervista sul quesito abrogativo del Jobs Act in tema di licenziamenti, ribadisco che si tratta di precisazione del tutto inutile, stante la diversità formale e materiale dei quattro quesiti promossi dalla Cgil. L’identità del soggetto promotore non rileva punto in questi casi, dove conta solo ed esclusivamente il fatto – inesistente nel nostro – di domande popolari identiche (formalmente o sostanzialmente).

Ho invece qualcosa da dire sulla riformulazione del quesito operata dall’Ufficio Centrale per il Referendum: essa si limita a separare graficamente le due disposizioni interessate dall’abrogazione di lemmi. Nulla di più (ammesso che ciò serva a rendere più intellegibile il contenuto della richiesta). Non ha riguardato l’indicazione delle successive modificazioni (anche solo con una formula sintetica di questo contenuto). In genere, di fronte allo jus superveniens (che lascia vigente l’oggetto della domanda referendaria) l’UCR ne dà conto nei quesiti che non hanno menzionato le novelle intervenute successivamente al deposito della richiesta. Qui non l’ha fatto (mentre si è preoccupato di ciò nella vicenda relative al Jobs Act).

Che poi la legge (una delle tante) sia intervenuta dopo il deposito della richiesta non è un fatto irrilevante ai fini della legittimità e dell’ammissibilità del referendum. Ai fini del primo giudizio, infatti, l’Ufficio Centrale per il Referendum dovrebbe verificare l’applicazione al caso di specie dell’art. 39, l. n. 352/1970 (ovvero decidere tra il “trasferimento” del quesito dalle vecchie alle nuove disposizioni, o la “cessazione” delle operazioni referendarie). L’UCR non si è pronunciato su questo punto. Ai fini del secondo, è la Corte costituzionale che deve valutare l’incidenza di una novella sopravvenuta, per verificare se permanga o meno una domanda ammissibile. Nella sent. n. 14/2025, il controllo è veloce, limitandosi a registrare la proroga della vigenza della disposizione interessata, dando per identico il contenuto della disciplina e, quindi, dell’oggetto (e delle finalità) della domanda referendaria. Tutto ciò dimostra come spesso il vaglio dei quesiti da parte dei suoi giudici proceda in maniera superficiale e casuale. 

V. Speziale. L’Ufficio Centrale per il Referendum della Suprema Corte, a parte il fondamentale controllo sul numero delle firme e sui requisiti di regolarità formale delle stesse, ha correttamente individuato il titolo del referendum e l’ha integrato con la indicazione separata degli articoli di cui si chiede l’abrogazione parziale.

Mi sembra giusto anche non accorpare il quesito referendario con gli altri proposti in considerazione delle profonde differenze nei testi normativi sottoposti alle ulteriori consultazioni popolari.

L’UCR ha tenuto conto dei mutamenti, rispetto al testo originario del 2015, effettuati dall’art. 24, comma 1, del D.L. n. 48/2023 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 85/2023). Non ha, invece, preso in considerazione la modifica introdotta dal D.L. n. 215/2023 (convertito, con variazioni, dalla l. n. 18/2024) e – cosa del tutto ovvia – non poteva prendere in considerazione le modifiche introdotte dal D.L. n. 202 del 27 dicembre 2024, entrato in vigore il giorno successivo (convertito, con modifiche, nella l. n. 15 del 21 febbraio 2025).

Va considerato, infatti, che la Cassazione poteva tenere conto solo dei mutamenti contenuti nel D.L. n. 215/2023 (con la relativa legge di conversione) che sono anteriori alla data di consegna del referendum (12.04.2024) e di presentazione dei promotori dinanzi ad essa (19.07.2024). Le innovazioni ulteriori si sono verificate dopo il momento in cui la Suprema Corte è stata chiamata ad esprimere la sua valutazione e, quindi, la Cassazione non poteva prenderle in considerazione.

 I cambiamenti introdotti dalle disposizioni non considerate dalla Corte, tuttavia, mutano soltanto la data finale di vigenza di una parte della disposizione contenuta nella lettera b) del c. 1 dell’art. 19 (estesa fino al 31 dicembre 2025). Si tratta indubbiamente di una modifica che peraltro non incide sulla sostanza della volontà dei promotori, che volevano eliminare questa parte della disposizione. Non mi sembra, quindi, che la mancata considerazione di queste norme possa incidere sulla chiara volontà dei primi e sulla linearità del quesito che è sottoposto ai votanti. Né la Corte poteva integrare il quesito in relazione ad una disposizione non ancora emanata quando è stata chiamata a giudicare i requisiti del referendum.

Vi è, poi, una ulteriore considerazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 14/2025, nel valutare le disposizioni oggetto del referendum, ha espressamente considerato che la norma che aveva originariamente vigore sino al 31.12.204 è stata estesa nella sua vigenza sino alla fine del 2025 ( modifica introdotta dall’art. 14,comma 3, del d.l. n. 202/2024, cit. supra). Pertanto, seppure in modo indiretto, nel rendere ammissibili i quesiti, la Corte prende atto che l’eventuale abrogazione potrebbe avvenire anche in relazione ad una disposizione che oggi è stata parzialmente modificata. Ne deriva che, se il referendum avesse esito positivo, l’abrogazione della disposizione sottoposta a consultazione travolgerebbe anche quella diversa che ha esteso la sua vigenza al 31 dicembre 2025. 

S. Ciucciovino. Concordo con le osservazioni di Valerio Speziale.

V. A. Poso Merita segnalare che l’ultima modifica normativa relativa alla lett. b) dell’art. 19, comma 1, del d. lgs. n. 81/2015, con la sostituzione dell’originario limite del 30 aprile 2024 con quello del 31 dicembre 2024 della quale abbiamo detto sopra (già intervenuta al momento della presentazione del quesito referendario) introduce una norma transitoria, quanto meno per gli accordi individuali, se non anche per i contratti collettivi applicati in azienda, che resterebbe priva di effetti per decorso del limite temporale imposto, in assenza di proroghe, quale che sia l’esito del voto referendario.

Non so se la mia interpretazione è corretta, vediamo dalle vostre risposte; mi sembra, però, che si farebbe, in parte qua, un referendum su una disposizione superata.                    

S. Ciucciovino. Dobbiamo dare conto, anche, come è stato evidenziato nella precedente risposta di Valerio Speziale, che è di recente intervenuta la norma del c.d. Decreto Milleproroghe (d.l. n. 202/2024, in vigore dal 28 dicembre 2024) che ha esteso a tutto il 31 dicembre 2025 l’operatività della disposizione in esame.

E tuttavia, non si pongono, a mio avviso, questioni, quindi, da questo punto di vista, all’eventuale assoggettabilità, ora, di questa disposizione a referendum abrogativo.

V. Speziale. Come ho già detto, le normative che si sono succedute nel tempo hanno gradualmente esteso al 31 dicembre del 2025 la seconda parte della lettera b) del c. 1 dell’art. 19, riferita agli accordi individuali e non a quelli collettivi (rimando alla mia risposta alla sesta domanda). Mi sembra chiaro che, se il referendum avesse esito positivo, sarebbe travolta la disposizione che, letteralmente, ha vigenza solo sino al 31 dicembre 2024 (perché ad essa si riferisce il quesito). Ma, in tal caso, la eliminazione della disposizione originaria la escluderebbe comunque dall’ordinamento giuridico, anche nella sua versione attuale. La norma successiva ha solo esteso al 31. 12. 2025 la sua esistenza. Ma se venisse meno quella sottoposta a referendum, tale abrogazione non potrebbe non riflettersi anche su quella, diversa, che ne prevede una durata differente. Se la volontà dei votanti era quella di eliminare una disposizione che aveva vigore sino al 31 dicembre 2024, non vi è dubbio che la loro determinazione è rispettata solo se viene eliminata anche quella che ne ha esteso gli effetti nel tempo. Mi sembra un effetto necessario dell’accoglimento del quesito referendario.                

 

V. A. Poso Con la sentenza n. 14 del 7 febbraio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione delle norme e per le parti indicate oggetto del quesito, come riformulato dall’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di cassazione, per una migliore comprensione dello stesso.

La Corte costituzionale, dopo aver delineato il contesto normativo di riferimento in cui si inseriscono le disposizioni oggetto della richiesta referendaria, ha precisato, correttamente, che l’esito della stessa

«mira dunque – al contempo – alla riespansione dell’obbligo della causale giustificativa anche per i contratti (e i rapporti) di lavoro di durata inferiore ai dodici mesi, e all’esclusione del potere delle parti di individuare giustificazioni, a fondamento della stipulazione (o della proroga o del rinnovo) di tali contratti, diverse da quelle indicate dalla legge o dai contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi».

Quali sono le Vostre osservazioni, di carattere generale, in merito? È, questa, una pronuncia attesa?                 

A. Morrone. I quattro quesiti presentati dalla Cgil in materia di “lavoro dignitoso” si caratterizzano per la peculiare natura normativa anche in senso “positivo” conseguente all’abrogazione popolare. In particolare: essi non sono solo “abrogativi”, ma sono soprattutto ad effetto introduttivo di norme. L’abolizione delle disposizioni oggetto delle relative domande prelude all’ingresso di un’altra disciplina, voluta dai promotori e ritenuta dai giudici costituzionali l’esito obiettivo dell’ablazione popolare. E, va precisato, che, proprio per questo motivo, sono stati ritenuti tutti ammissibili. Insomma, la nota caratterizzante questa tornata referendaria (se aggiungiamo anche il quesito sulla cittadinanza, diretto proprio a “sostituire” il termine di dieci anni con quello ridotto a metà di cinque affinché lo straniero maggiorenne extra UE possa presentare domanda al fine di ottenere il riconoscimento dello status civitatis italiano) è che l’ammissibilità è stata concessa a quesiti referendari che mirano ad ottenere l’introduzione di norme nuove attraverso l’abrogazione di norme vigenti.

Nella sent. n. 14/2025, in particolare, si chiarisce bene che il referendum ha come obiettivo quello di fare “riespandere” la causale per quelli di durata inferiore a dodici mesi e di impedire alle parti di indicare cause diverse da quelle legali o dalla contrattazione collettiva. In sostanza, si tratta di una sorta di “reviviscenza” di disposizioni abrogate dalle norme oggetto della disciplina vigente, oggetto del quesito referendario.   

V. Speziale. Nella predisposizione dei quesiti, i giuristi coinvolti dalla Cgil hanno operato tenendo conto di criteri enucleati dalla Corte costituzionale in relazione alla ammissibilità del referendum. Essi, pur se raccolti ormai in una giurisprudenza consolidata, sono alquanto flessibili, in quanto contrassegnati da un livello di genericità assai elevato. Si pensi, ad es., alla necessità che il quesito presenti i caratteri della chiarezza, omogeneità, univocità, con una matrice razionalmente unitaria. Si tratta di concetti comprensibili ma che si prestano ad opzioni applicative assai differenziate. Tra l’altro, la flessibilità dei criteri aumenta nel caso di proposte di abrogazione parziale, dove la Corte è stata, in alcuni casi, molto rigorosa nel valutare la ammissibilità del quesito.

Per questa ragione, i giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del testo hanno cercato di formulare la domanda da sottoporre a consultazione popolare in modo da renderla non solo chiara, ma anche tale da far comprendere quale sarebbe stato il risultato normativo che sarebbe scaturito dalle eventuali abrogazioni delle parti di disposizione su cui si chiedeva il voto. Inoltre, lo sforzo è stato quello di mettere in evidenza sia l’ispirazione complessiva della manipolazione normativa che si richiedeva, sia la compatibilità del testo che eventualmente ne sarebbe scaturito con quello già esistente. Quest’ultimo, infatti, sarebbe stata modificato in modo rilevante ma senza introdurre una nuova disciplina completamente estranea al contesto normativo esistente ed anzi con la finalità di ribadire una utilizzazione del contratto a termine basata su ragioni giustificative rimesse alla legge e all’autonomia collettiva, in coerenza con tecniche già sperimentate nel passato e con il principio del lavoro stabile quale “forma comune”.

Lo sforzo compiuto ha avuto esito positivo. La lettura delle motivazioni della Corte mette in evidenza tutti questi aspetti. I giudici, oltre a cogliere con chiarezza la finalità perseguita dai promotori del referendum, hanno vagliato il quesito alla luce della propria giurisprudenza, sottolineando come esso fosse il coerente con i criteri enucleati dalla Corte e dettagliatamente esaminati nella motivazione.

Gli auspici della Cgil e dei giuristi che hanno collaborato alla predisposizione del quesito sono stati soddisfatti. Tuttavia, tenendo conto della flessibilità dei criteri adottati dalla Corte costituzionale in materia, parlare di sentenza attesa è eccessivo. Direi che, anche alla luce del lavoro scrupoloso compiuto, vi era piuttosto la speranza concreta di superare il limite della ammissibilità.

                

V. A. Poso È la stessa Corte Costituzionale che, nella pronuncia qui esaminata, ci ricorda, richiamando la sua precedente sentenza n. 56 del 2022,che il referendum abrogativo non si deve trasformare «– insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (v. sentenza n. 16 del 1978, richiamata nella sentenza n. 56 del 2022), trattandosi di «un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può “introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento” (v. sentenza n. 36 del 1997)».

Ritenete rispettato questo limite?                 

A. Morrone. Si tratta di un’affermazione ormai consueta nella giurisprudenza. Per gli svolgimenti rinvio alla risposta contenuta nell’intervista sul quesito in materia di appalti e infortuni. Aggiungo qui che il referendum, sulla carta, serve per abrogare disposizioni legislative vigenti, non per introdurre nuove norme, compito riservato al legislatore. Fatto si è che questo assunto, derivante dal testo dell’art. 75 Cost. e dall’interpretazione del referendum abrogativo come espressione di una “legislazione negativa”, si è scontrato con la realtà delle cose.

 Da un lato, la circostanza che anche solo abrogare equivale non tanto a “un non disporre” quanto, piuttosto, ad “un disporre diversamente” (Vezio Crisafulli): sicché dall’abrogazione conseguono sempre modifiche al diritto vigente.

 Dall’altro, la giurisprudenza costituzionale ha legittimato la prassi dei referendum cd. manipolativi ovvero incidenti su disposizioni e frammenti di norme (anche privi di senso giuridico), sicché i quesiti referendari hanno naturalmente una vocazione diretta a creare nuovo diritto. Il problema diventa allora stabilire fin dove. La Corte assume una distinzione scolastica, quando giustappone istituti di “democrazia rappresentativa” e di “democrazia diretta”. La verità è che il confine tra l’una e l’altra non dipende da dati positivi, ma dai confini mobili della stessa giurisprudenza.

In genere, il limite giurisprudenziale ai referendum manipolativi sono quelli esistenti nell’ordinamento vigente: il ritaglio, per essere ammissibile, andrebbe contenuto all’interno della disciplina positiva interessata dal referendum popolare e, comunque, all’interno dell’ordinamento vigente. Cosa questa che non ha nessuna razionalità in sé e per sé: anzi, se è vero che il referendum serve per contestare una legge vigente, imporre ad esso, viceversa, di rimanere entro la legislazione positiva, equivale a tradirne la ratio o, quantomeno, a depotenziarne la forza normativa. Essa è il frutto di una giurisprudenza – questa sì – davvero creativa che, per contenere (l’abuso de) i referendum abrogativi, ha finito con elaborare criteri di ammissibilità imprevedibili ed incerti. Anche con riferimento ai quesiti di questa tornata.

 Se si guarda all’insieme, si può dire che la Corte abbia ammesso cinque quesiti manipolativi (non oltre la soglia ritenuta ammissibile, sia ben chiaro!), bloccando l’unico quesito integralmente abrogativo (quello sulla legge relativa al regionalismo differenziato). Per rispondere al quesito: sì penso che la decisione di oggi sia coerente con la pregressa giurisprudenza e che, perciò, il quesito andava dichiarato ammissibile, per non essere la domanda ad esso sottesa una forma distorta di legislazione popolare. Ma nessuno può negare, non lo ha fatto neppure la Consulta, che di “legislazione” popolare si tratti, proprio in ragione degli esiti ripristinatori di norme pre-vigenti. 

V. Speziale. Mi sembra di poter dare una risposta positiva. Per quanto attiene al secondo aspetto (il referendum non può introdurre una nuova statuizione, non ricavabile dall’ordinamento), è sufficiente mettere a confronto il testo vigente con quello che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito, da me riprodotto nella risposta alla quinta domanda. La nuova versione dell’art. 19 sarebbe in larga parte coincidente con quella esistente, perché verrebbe conservata sia l’attuale lettera a) del c. 1, sia la lettera b-bis (semplicemente rinominata come lettera b). Vi sarebbe solo l’eliminazione dell’attuale previsione in tema di contratti collettivi applicati (diversi da quelli stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale) e di esigenze tecniche ed organizzative rimesse all’autonomia individuale. Dunque, si avrebbe non una disposizione integralmente nuova ed extra ordinem ma solo un testo parzialmente differente da quello esistente, scaturente da “norme residue che, in linea con il principio secondo cui (il lavoro stabile è la forma comune), subordinano, senza eccezioni temporali, la possibilità del ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato, nel limite della durata massima di ventiquattro mesi, a una delle specifiche giustificazioni, previste dalla legge o dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81 del 2015” (C. cost. n. 14/2025, punto 4.1.3., quinto capoverso).

In relazione al secondo principio (il referendum abrogativo non può essere “trasformato – insindacabilmente – in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia, nei confronti di complessive inscindibili scelte politiche dei partiti o dei gruppi organizzati che abbiano assunto e sostenuto le iniziative referendarie» (sentenza n. 16 del 1978)”), va detto che esso, così come viene enunciato, è alquanto criptico, perché non si comprende quando il quesito verrebbe ad assumere questa natura plebiscitaria o di voto popolare di fiducia.

Tuttavia, tale ambiguità viene dissolta quando si legge la parte successiva della motivazione di Corte cost. n. 56/2022 (espressamente richiamata dalla decisione n. 14/2025). Infatti, prosegue la sentenza, “non sono ammissibili, in particolare, richieste referendarie che siano ‘surrettiziamente propositiv[e]’ (ex plurimis, sentenze n. 13 del 2012, n. 26 del 2011, n. 33 del 2000 e n. 13 del 1999; nello stesso senso, sentenze n. 43 del 2003, n. 38 e n. 34 del 2000): si tratta, infatti, di un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può ‘introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento’ (sentenza n. 36 del 1997)”.

 Se, dunque, il carattere plebiscitario o di voto popolare di fiducia del referendum è legato a richieste che abbiano le caratteristiche sopra indicate, non vi è dubbio che questi elementi non sono presenti nel quesito sul contratto a termine di cui è stata dichiarata la ammissibilità, per le ragioni che ho già spiegato.

 

V. A. Poso Detto questo, è ammissibile, a Vostro avviso, e con quali limiti, il referendum abrogativo delle norme in esame? Nessuna preclusione è ravvisabile in ragione dei divieti posti dall’art. 75, comma 2, Cost. (le disposizioni normative oggetto di richiesta referendaria non sono riconducibili ad alcuna delle tipologie di leggi ivi elencate, neppure a quelle ricavabili in via di interpretazione logico-sistematica); tantomeno sono risultano profili attinenti a disposizioni a contenuto costituzionalmente obbligato: sotto questo aspetto mi sembra condivisibile la pronuncia della Consulta.

A Vostro avviso, e sotto altro profilo, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, così come individuati dalla giurisprudenza costituzionale? Mi riferisco, in particolare, alla c.d. tecnica del ritaglio operato sulle disposizioni oggetto di abrogazione. 

A. Morrone. Per le cose dette condivido il merito della sent. n. 14/2025. Il quesito è chiaro e univoco, e non impatta in maniera evidente con la giurisprudenza pregressa. Era facilmente prevedibile quindi l’esito del giudizio di ammissibilità. 

Valerio Speziale. Il referendum mi sembra certamente ammissibile sia sotto il profilo del non coinvolgimento delle leggi per le quali l’art. 75 Cost. lo vieta, sia in relazione alle caratteristiche del quesito e alla tecnica dell’abrogazione parziale mediante eliminazione di parti delle disposizioni sottoposte al voto popolare.

 Sul primo profilo non vi è da dire molto, visto la chiarezza dell’art. 75 e della giurisprudenza costituzionale che lo ha interpretato.

 Per quanto attiene al secondo aspetto rinvio a quanto ho già detto nella risposta alla domanda n. 14. Inoltre, a parte il fatto che vi sono numerosi precedenti di referendum ritenuti ammissibili e nei quali il quesito chiedeva la abrogazione parziale di alcune parole delle disposizioni interessate (quella da te definita come tecnica del ritaglio), ritengo che le motivazioni adottate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 14/2025 siano del tutto condivisibili. La parte preponderante della giurisprudenza della Corte ivi indicata è quella che ha ispirato il lavoro dei proponenti del referendum.                 

               

V. A. Poso Quindi, mi pare di capire, che, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte che, nella sentenza in esame ricorda che « l’uso della tecnica del ritaglio non è di per sé causa di inammissibilità della richiesta referendaria, allorquando quest’ultima sia diretta ad «abrogare

parzialmente la disciplina stabilita dal legislatore, senza sostituirne una estranea allo stesso contesto

normativo […] (sentenze n. 34 del 2000 e n. 36 del 1997)» (sentenza n. 26 del 2011)». 

Valerio Speziale. Ho già risposto in relazione alle precedenti domande che hanno toccato questo punto. La giurisprudenza della Corte costituzionale sopra descritta mi sembra chiara. Come ho già detto, le disposizioni che scaturirebbero qualora vi fosse l’abrogazione parziale richiesta non creerebbero fattispecie integralmente nuove ed extra ordinem ma solo testi parzialmente differenti da quelli esistenti e, in larga misura, confermativi della disciplina attuale. Non mi sembra, quindi, che si possa parlare di una nuova regolazione completamente estranea al contesto normativo esistente, anche in considerazione del principio del lavoro stabile quale “forma comune”.               

A. Morrone. La diposizione introdotta dal quesito era quella vigente nella normativa precedente (la Corte lo chiarisce in modo palese), anche se forse non con quella estensione (e ciò resta sottotraccia). Sul punto mi pare che i colleghi giuslavoristi abbiamo precisato quest’ultimo profilo. Rimasto, però, del tutto irrilevante nel giudizio di ammissibilità. Questo dimostra, ancora una volta, la tendenziale arbitrarietà del controllo di ammissibilità, tutto incentrato sulla coerenza interna di un nuovo quesito rispetto ai precedenti della giurisprudenza, il cui “uso e consumo” è, quindi, esclusivo del suo autore.

 

V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (v. sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (v. sentenza n. 13 del 1999).

Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario? 

Valerio Speziale. A mio giudizio non ci sono elementi per dire che l’effetto abrogativo sarebbe tale da determinare una disciplina del tutto diversa ed estranea al contesto normativo. Rinvio alle le ragioni che ho già ampiamente descritto in precedenza e confermate dalla Corte costituzionale con la sentenza n.14/2025. 

S. Ciucciovino. Non mi pare che ci siano i presupposti per ritenere sussistente un carattere surrettiziamente propositivo dell’alternativa posta al corpo elettorale, benché l’incisione sul corpus normativo vigente appaia di rilevante portata. 

A. Morrone. Mi sono già espresso nelle risposte precedenti alle quali rimando.               

 

V. A. Poso. A Vostro avviso l’approvazione della richiesta referendaria, genererebbe o no «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020)?

La Corte costituzionale, nella sentenza esaminata, lo esclude, proprio in considerazione della natura vincolistica della legislazione precedente sulle causali del contratto a termine. 

S. Ciucciovino. L’intervento modificativo sulla disciplina sottoposta a referendum è certamente notevole e renderebbe la regolamentazione di risulta eccezionalmente restrittiva. Ciò tuttavia non implicherebbe uno stravolgimento dei principi o dei criteri utilizzati dal legislatore in questa materia, in quanto l’apposizione del termine al contatto di lavoro è sempre stata informata ad un principio di contenimento rispetto all’assunzione a tempo indeterminato. Tale obiettivo è stato realizzato di volta in volta dal legislatore con differenti tecniche e con impostazioni più o meno restrittive, ma pur sempre facendo affidamento (anche) sulla contrattazione collettiva. 

Valerio Speziale. Concordo pienamente con quanto affermato dalla Corte costituzionale.

La sussistenza di causali giustificative del termine, affidate alla legge, all’autonomia collettiva e a quella individuale è nella storia della disciplina sul contratto a t. determinato. Ma vi sono anche argomentazioni ulteriori. Il testo attuale dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 e quello che scaturirebbe dall’abrogazione parziale sono, dal punto di vista delle tecniche utilizzate simili, perché entrambe prevedono ragioni che legittimano la stipula del contratto, predeterminate dalla legge, dai contratti collettivi e da quello individuale. Essi, inoltre, come già detto, sarebbero parzialmente coincidenti. Le differenze, che evidentemente ci sono, sono conseguenza dell’effetto abrogativo, che altrimenti non sarebbe neppure concepibile se tutto dovesse essere lasciato come prima. Ma è evidente che, eliminare la acausalità nei primi 12 mesi è possibile in un sistema che prevede invece esigenze oggettive seppure per un periodo temporale ulteriore (da 12 a 24 mesi). Escludere alcune tipologie di contratti collettivi e una norma aperta che lascia all’autonomia individuale la individuazione delle esigenze tecnico produttive avviene in un contesto in cui le parti individuali possono ancora fissare il termine per ragioni sostitutive e non viene modificata la possibile introduzione di causali da parte di contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale. In definitiva, vi è piena coerenza con i principi e le regole già contenute nel testo legislativo sottoposto ad abrogazione e non vi è alcun mutamento dei “tratti caratterizzanti” della normativa, ma solo un suo diverso contenuto.                

A. Morrone. Anche in questo caso mi limito a richiamare le risposte precedenti.

 

V. A. Poso. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si possono prospettare mi sembrano problematici, per evitare il voto popolare, considerati anche i tempi ristretti, già a far data dal deposito della sentenza della Corte Costituzionale, a maggior ragione ora. Si fa per discutere: come avrebbe potuto intervenire il legislatore (non solo nel senso demolitorio auspicato dalla proposta referendaria, ovviamente) in maniera sufficiente ad evitare il referendum abrogativo? 

V. Speziale. Nel momento in cui si scrive, la vicinanza con le date fissate per il referendum (8 e 9 giugno 2025) rende quanto meno problematico, se non impossibile, un intervento del legislatore, che, tra l’altro, non sembra minimamente orientato a modificare la disciplina contenuta negli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015. E questo anche in considerazione del fatto che l’attuale maggioranza parlamentare, certamente non favorevole al referendum, confida probabilmente sul mancato raggiungimento del quorum, che è stata una caratteristica di tutte le recenti consultazioni popolari di questo tipo. Tale speranza è ulteriormente suffragata dalla drastica riduzione del numero dei votanti nelle recenti elezioni politiche nazionali o locali.

Comunque, in linea teorica, sarebbe possibile emanare un Decreto-legge che introducesse, con effetto immediato e prima della consultazione, modifiche assai rilevanti del testo attuale. Ma anche in questo caso i tempi sono strettissimi, perché la nuova normativa dovrebbe comunque superare il vaglio preventivo della Corte di cassazione.

In ogni caso, ragionando in astratto, la risposta a questa domanda presuppone la descrizione dei principi enucleati dalla legge e dalla giurisprudenza in materia. Infatti, ai sensi dell’art. 39 della l. n. 352/1970, la mancata effettuazione del referendum è condizionata dal fatto che, prima della data del suo svolgimento, la normativa sottoposta al quesito popolare (intesa nel suo complesso o con riferimento a singole disposizioni) sia abrogata. E la Corte costituzionale, con la sentenza 17.5.1978, n. 68, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 39 nella parte in cui non prevede che il referendum debba ugualmente svolgersi qualora all’abrogazione dell’intera normativa o di singole disposizioni segua un’«altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti». Le ordinanze dell’Ufficio Centrale della Cassazione successive a questa pronuncia della Corte fanno sempre riferimento alla necessità di verificare se la nuova normativa abbia realmente effetto innovativo sopra descritto o se, in sostanza, finisca per riprodurre il testo che si intendeva abrogare o lo modifichi in modo non rilevante, lasciando immutati principi ispiratori e contenuti normativi essenziali. E questo anche nel caso di sentenze della Corte costituzionale.

Alla luce di questo contesto normativo e giurisprudenziale, il legislatore dovrebbe intervenire con modifiche sostanziali, sia nel senso auspicato dai promotori del referendum, sia in senso opposto. Nel primo caso la riforma potrebbe riprodurre la disposizione che scaturirebbe dall’accoglimento del quesito referendario o introdurne una che si avvicinasse molto al suo contenuto. Oppure, la nuova normativa potrebbe esprimere una disciplina completamente diversa ed anche molto più liberalizzante di quella attuale. Ad esempio, tornando alla completa acausalità del contratto nel limite massimo dei 24 mesi, escludendo il ruolo dell’autonomia collettiva e di quella individuale. Il legislatore, con la sua discrezionalità politica, ha qui completa libertà. Quello che rileva è il concreto effetto innovativo della nuova disciplina che modifichi i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente e i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, secondo le parole di C. cost. n. 68/1978. 

S. Ciucciovino. Non vedo assolutamente praticabile, né tecnicamente, né politicamente, un intervento legislativo in tempo utile per evitare il referendum abrogativo.                 

A. Morrone. Anche io condivido che le vie di una novella legislativa sono molto improbabili, ora, come anche prima, immediatamente dopo la pronuncia della Corte Costituzionale. In ogni caso, essendo chiaro il verso della domanda popolare, per superare l’ostacolo dell’art. 39 della legge n. 352/1970, il legislatore non avrebbe altra via che quella di superare la liberalizzazione della disciplina e introdurre limiti legali o negoziali al contratto a termine.

 

V. A. Poso. L’esito positivo del referendum abrogativo sicuramente comporterebbe il venir meno di ogni valutazione, in concreto, sulla sussistenza delle esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti e comunque il superamento della “liberalizzazione” dei contratti a termine, nella prima fase della stipulazione. Descrive bene, la Corte Costituzionale, l’obbiettivo perseguito dalla richiesta referendaria: «L’elettore, in altri termini, è posto dinanzi a un’alternativa secca: da un lato, la riespansione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione dell’apposizione del termine al contratto, senza eccezioni con riguardo alla durata del rapporto e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego».

È, a Vostro avviso, una soluzione positiva il ritorno al regime vincolistico delle causali nei contratti a termine?                

A. Morrone. La disciplina non è soggetta a vincoli costituzionali specifici. Resta il fatto che il lavoro rappresenta un valore fondamentale e la sua stabilità un corollario necessario. Il rapporto tra tempo indeterminato e tempo determinato, da questo punto di vista, va inteso nei termini di regola a eccezione. Una valutazione in materia da parte del legislatore gode di ampi margini di discrezionalità, ma resta ferma l’esigenza costituzionale di rispettare quel rapporto. Sarebbe opportuno un intervento di sistema, che adegui l’ordinamento delle relazioni industriali in questa materia alla realtà del mercato del lavoro. Non credo tuttavia che sia questo l’orientamento delle maggioranze politiche: si preferiscono interventi casuali e casistici che alimentano il disordine e la confusione nei rapporti di lavoro. La stessa Corte costituzionale, nel riscrivere molti capitoli del Jobs Act, ha ribadito l’esigenza di un intervento legislativo che riporti razionalità. L’orizzonte, tuttavia, sarà a lungo quello di un tira e molla tra legislazione emergenziale e giurisprudenza creativa, che continuerà ad alimentare un diritto del lavoro inadeguato a proteggere i diritti dei lavoratori. 

S. Ciucciovino. In realtà anche il regime attuale è vincolistico. Le assunzioni a termine entro i 12 mesi sono sganciate da causali oggettive ma comunque assoggettati a limiti di durata e di carattere quantitativo. Il ritorno ad una tecnica di limitazione del contratto a termine di tipo oggettivo e legato al ricorrere di presupposti sostanziali sicuramente immetterà una maggiore dose di incertezza applicativa, che non necessariamente si tradurrà in una maggiore tutela per i lavoratori. Piuttosto modificherà in modo sostanziale i canali di controllo dell’occupazione temporanea, attribuendone la gestione unicamente alla fonte collettiva, salvo che per le ragioni sostitutive. 

Valerio Speziale. Ho già espresso la mia opinione. Ritengo che il ritorno ad un regime vincolistico delle causali nei contratti a termine, realizzato secondo la volontà dei promotori del referendum o anche con tecniche diverse – con una combinazione tra fattispecie legali legate al concetto di temporaneità delle esigenze tecnico produttive e quelle definite da contratti collettivi stipulati da soggetti effettivamente rappresentativi – sia una soluzione positiva. Non posso che rinviare a quanto ho già detto.



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