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quesito Licenziamenti e relativa indennità


Dopo aver illustrato il quesito numero uno dei Referendum dell’8 e del 9 giugno, inerente ai Licenziamenti illegittimi e contratto a tutele crescenti, con questa scheda si analizza il secondo, quello sull’Indennità per licenziamenti nelle piccole imprese.

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Le tappe di avvicinamento alla consultazione referendaria fissata per l’8-9 giugno, proseguiranno poi nei prossimi giorni affrontando i restanti su Contratti a termine, Responsabilità solidale negli appalti e Cittadinanza italiana per stranieri.

Referendum 8-9 giugno, quesito 2: «Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità: Abrogazione parziale»

Anche questo quesito affronta il tema dei licenziamenti. Sulla scheda di colore arancione si propone l’abrogazione parziale dell’art. 8 della legge n. 604/1996 (così come modificato dalla legge n. 108/1990), che dispone un limite all’indennità per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese con meno di 16 dipendenti.

L’attuale normativa, anche se il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto di lavoro, fissa un risarcimento massimo pari a sei mesi di stipendio (elevati a dieci per anzianità superiore ai dieci anni o a quattordici se superiore ai venti anni).

L’esclusione per le piccole imprese dai vincoli dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori trova origine nelle discipline del 1966 e del 1970, che volevano bilanciare la tutela del lavoratore con l’esigenza di non danneggiare eccessivamente quelle attività considerate di natura prevalentemente familiare (piccoli esercizi commerciali, artigianali, ditte edili, ecc.).

Quella preoccupazione appare oggi anacronistica, nonché superata dall’attuale organizzazione del mondo del lavoro. Sotto l’aspetto contrattuale, ad esempio, vi è ormai una tale proliferazione di rapporti per cui alcuni occupati sono considerati solo parzialmente dipendenti dell’impresa (part time, lavoro intermittente) o addirittura non computati (apprendisti, lavoratori somministrati, lavoratori autonomi di ditte appaltatrici o subappaltatrici).

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Inoltre, l’automazione e le innovazioni tecnologiche introdotte nei processi produttivi non consentono più di definire, sic et simpliciter, una correlazione diretta tra il numero dei dipendenti e il fatturato economico dell’impresa.

Gli ammonimenti già avanzati dalla Corte costituzionale

Il concetto è stato ribadito anche dalla Corte costituzionale, che nella recente sentenza n. 183/2022 evidenzia le carenze della normativa, sottolineando come la disposizione censurata, «nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo», non garantirebbe «un’equilibrata compensazione» e «un adeguato ristoro» del pregiudizio e non assolverebbe alla necessaria funzione deterrente.

Questo perché, proseguono le motivazioni, «in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. […] In conclusione, un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi».

Tra l’altro, il giudice delle leggi avverte anche che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e indurrebbe la Corte a provvedere direttamente.

Ma l’iniziativa parlamentare auspicata non vi è stata, e pertanto la parola passa ora ai cittadini.

Se il referendum venisse approvato, la responsabilità di stabilire l’indennizzo spetterebbe al giudice, che a quel punto potrà determinare l’ammontare del risarcimento senza limiti economici, tenendo conto di criteri come l’età, i carichi di famiglia e la capacità economica dell’azienda.

Le ragioni del SÌ

Secondo i promotori dell’abrogazione, il danno effettivo che il lavoratore subisce in caso di licenziamento illegittimo non può essere limitato all’esiguo indennizzo previsto dalla legge, poiché sussiste anche un danno morale ed esistenziale, trovandosi assoggettato con la sua famiglia a condizioni socio-economiche disagiate, soprattutto in quelle zone del nostro Paese che già registrano un alto tasso di disoccupazione.

Inoltre, alla luce delle modifiche subite negli anni dall’organizzazione del lavoro, appare alquanto iniquo mantenere questa grande differenza di tutela tra i lavoratori dipendenti da imprese medio grandi e quelli delle piccole imprese, stimati in circa 3 milioni e 700 mila.

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L’esiguità del risarcimento previsto, infatti, come ribadito anche dalla Corte costituzionale nella sent. n. 183/2022, risulta assolutamente inadeguato sia in relazione al danno subito dal lavoratore, sia in termini di dissuasività rispetto a comportamenti arbitrari adottati con consapevolezza dal datore di lavoro.

Rimettendo ai giudici la decisione sulla misura del risarcimento, questi potranno valutare criteri oggettivi e determinare caso per caso soluzioni più equilibrate, tenendo conto di fattori specifici come l’anzianità di servizio, la dimensione numerica dell’azienda, la sua effettiva potenzialità economica, il comportamento e le condizioni delle parti.

Le ragioni del NO

Secondo i sostenitori del NO, se il quesito venisse approvato si produrrebbe un’incongruenza determinata proprio dalla suddetta pronuncia della Corte, poiché il principio per cui le piccole imprese vengono definite soltanto sul numero dei dipendenti rimarrebbe invariato, e quindi resterebbe incostituzionale anche dopo il referendum.

Inoltre, si ritiene che la vittoria del SÌ produrrebbe un effetto paradossale, dal momento che ne scaturirebbe un regime sanzionatorio del licenziamento addirittura più sfavorevole nelle piccole imprese rispetto alle grandi; infatti, per le prime la decisione sarebbe rimessa a una libera disposizione del giudice, mentre per le seconde resterebbe il tetto risarcitorio massimo dei 24 o 36 mesi.

Questa situazione potrebbe comportare anche un’esposizione economica potenzialmente eccessiva per la realtà delle piccole imprese, causando conseguenze disastrose in caso di vertenze molto costose o risarcimenti ingenti.



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