Partecipare alla Conferenza Programmatica del Partito Democratico sulle Politiche Industriali è stato un momento di riflessione profonda sul futuro produttivo del nostro Paese. In un’epoca di transizioni complesse, è emersa con forza la necessità di una strategia industriale che sia sostenibile, innovativa e socialmente giusta. In particolare ritengo importante evidenziare le tre direttrici sulle quali, partendo dalle tesi espresse dalla conferenza, si sono concentrati i contributi degli ospiti che ho chiamato ad intervenire nella sezione plenaria e nei workshop verticali: filiere produttive, trasferimento tecnologico, formazione e competenze.
Filiere produttive: una politica industriale di sistema
La prima urgenza emersa riguarda il rafforzamento delle filiere, oggi spesso frammentate, vulnerabili e dipendenti da dinamiche esterne. La conferenza propone di tornare a una logica di politica industriale attiva capace di sostenere distretti, integrazioni con le grandi aziende a fare da driver, una nuova governance. Le filiere, soprattutto in settori chiave come la manifattura avanzata, l’agroalimentare, l’energia, vanno irrobustite con il contributo delle grandi imprese e della programmazione pubblica.
Gli investimenti dovrebbero essere orientati a rafforzare la competitività internazionale del Paese nel contesto globale, promuovendo filiere produttive capaci di generare valore aggiunto ed esportare soluzioni tecnologiche all’avanguardia. Risulta perciò importante ripensare ad una politica industriale che guarda alle filiere strategiche per il Sistema Italia e che ridefinisce i settori su cui puntare per costruire un nuovo progetto di Paese. Una politica industriale che mette al centro la capacità di innovazione come elemento di competizione la quale necessita di investimenti senza ritorni immediati che devono essere sostenuti.
La creazione di politiche di filiera chiare passa anche dal richiedere che le grandi aziende, in particolare quelle pubbliche, facciano crescere le PMI della loro filiera. Le grandi imprese, infatti, hanno quella capacità di ricerca e sviluppo che manca alle PMI mentre queste ultime sono depositarie di competenze uniche. Grandi imprese che creano modelli e PMI che possono utilizzare il loro know how: la contaminazione diventa elemento portante della crescita.
E’ necessario anche rivedere il funzionamento della governance pubblica che deve essere più efficiente. Il Ministero dello sviluppo economico o dell’industria deve integrare le deleghe oggi frammentate tra ricerca, energia, telecomunicazioni, commercio estero e ambiente, per guidare lo sviluppo industriale verso obiettivi comuni. A questo si deve affiancare un’Agenzia per le partecipate – sul modello francese dell’APE – capace di orientare gli investimenti nelle imprese strategiche con visione e responsabilità. L’istituzione di un Consiglio per la strategia industriale – come nel modello britannico – può monitorare gli obiettivi e l’attuazione della politica industriale. In un Forum permanente per le politiche industriali istituzioni, imprese, lavoratori e mondo accademico possono costruire congiuntamente una visione condivisa sulle catene del valore chiave per il Paese. Il rafforzamento del coordinamento tra il centro e le regioni può avvenire attraverso la Conferenza regionale dell’industria, composta da rappresentanti statali e regionali, per assicurare coerenza tra le azioni pubbliche a tutti i livelli.
Tutto ciò si colloca all’interno di un quadro europeo che rimane il contesto decisivo nel quale collocare il ragionamento sulle politiche industriali. Il ruolo europeo dovrebbe risultare rafforzato nell’ottica delle due transizioni gemelle – digitale e sostenibile – ma per fare ciò sono necessarie risorse che la situazione attuale non consente: sino a quando i Paesi europei continueranno a trasferire all’Unione Europea l’1% del loro PIL quando gli stati americani lasciano il 23% al governo centrale degli Stati Uniti, l’Europa non sarà in grado di mettere in campo gli strumenti necessari a contrastare la corsa di USA e Cina. L’unica alternativa è data dalla possibilità di creare strumenti di debito comune europeo proprio allo scopo di governare le due transizioni: eurobond oppure un nuovo NextGenEU per un Piano Industriale Europeo allo scopo di guidare e non di subire le transizioni gemelle.
Trasferimento tecnologico: i ponti tra ricerca e impresa
Il secondo tema è il cronico ritardo dell’Italia nel trasferimento tecnologico che pesa sulla competitività del nostro sistema produttivo. È necessario rafforzare i legami tra ricerca e industria accorciando le distanze tra centri di ricerca e università e il sistema produttivo. La proposta è di rafforzare il ruolo degli ITS, dei competence center, e di favorire l’interazione tra pubblico e privato, con incentivi mirati e strumenti territoriali, allo scopo di realizzare una contaminazione effettiva tra sapere scientifico, sperimentazione industriale, vocazioni locali.
In Italia abbiamo enormi difficoltà di assorbimento della ricerca in innovazione tecnologica nel mercato: difficoltà a tradurre la ricerca di qualità in prodotti e servizi ad alto valore aggiunto in grado di essere immessi sul mercato e di conquistarvi posizioni competitive. Stimolare gli investimenti delle imprese in ricerca e sviluppo e favorire il trasferimento tecnologico tra la ricerca scientifica e il mondo imprenditoriale richiede un intervento sistemico che affronti alcuni nodi strutturali del panorama italiano. La ricerca va concepita come asset fondamentale di una nuova politica industriale che, per funzionare, ha bisogno di un ecosistema dell’innovazione funzionale e organizzato. E la presenza di un ecosistema favorevole alla collaborazione tra ricerca e industria è centrale per trasformare la conoscenza scientifica in innovazione tangibile e valore economico. Uniformare e rendere più efficaci i meccanismi di trasferimento tecnologico significa superare il quadro frammentato e disomogeneo, a livello di ecosistema, che presenta oggi l’Italia. È fondamentale armonizzare le pratiche stabilendo linee guida chiare e procedure semplificate che facilitino il passaggio dalla ricerca al mercato. Allo stesso tempo, però, è essenziale evitare, con un quadro di regole chiare, che l’attività di ricerca sia subordinata agli interessi delle aziende più in grado di muoversi su questo terreno.
Un Paese che perde la propria industria perde la propria identità. L’unica soluzione per non perdere competitività nel sistema industriale è puntare sull’innovazione. E per fare innovazione è indispensabile il trasferimento tecnologico. Il rafforzamento dell’ecosistema del trasferimento tecnologico deve fare perno intorno a (pochi) enti aggregatori dei diversi soggetti coinvolti. Poli tecnologici, competence center, hub digitali, parchi tecnologici, digital innovation hub, european digital innovation hub, punti di ingresso digitali delle camere di commercio, fabbriche faro, cluster nazionali etc.: la prospettiva deve essere quella di mettere in rete e di “mettere ordine” negli hub di innovazione. Se vogliamo “prendere per mano” ed aiutare le PMI dobbiamo da una parte evitare la frammentazione degli hub e dei centri di ricerca nazionali e dall’altra parte evitare la frammentazione progettuale favorendo progetti di sistema ed aggregazioni tra aziende.
Un’Agenzia nazionale per il trasferimento tecnologico, con una struttura e un capitale umano fortemente qualificato e in grado di mettere in asse gli obiettivi nazionali di sviluppo tecnologico e le esigenze di mercato dell’industria, con articolazioni regionali e territoriali in grado di interconnettere realtà necessariamente diverse, deve poi diventare il soggetto pubblico in grado di definire strategicamente ricerca e sviluppo per l’industria, aggregare poli tecnologici e centri di competenza, connettere ricerca applicata e industria diffondendo la ricerca alle imprese, definendo le modalità di accompagnamento delle PMI nei percorsi di innovazione, determinando effetti moltiplicatori importanti in termini di rapporto tra investimento di spesa (pubblica e privata) e ricchezza prodotta/PIL.
Anche sul livello ministeriale è necessaria una regia e una governance pubblica snella e non burocratica: il coordinamento deve essere svolto da un Comitato Interministeriale per la Ricerca e l’Innovazione il quale, sulla base di analisi di scenario e capacità di forecasts, deve agire per individuare le priorità e gli interventi muovendo dalle caratteristiche strutturali del sistema produttivo e dagli obiettivi di lungo termine ed identificando le aree in cui le soluzioni possono avere il maggiore impatto nel favorire gli obiettivi di innovazione.
Competenze e formazione: il capitale umano prima di tutto
Infine il tema delle competenze. Nessuna transizione potrà avere successo senza un massiccio investimento nella formazione tecnica e permanente. La conferenza ha insistito sulla necessità di superare la storica frattura tra scuola, università e mondo del lavoro. Per il mondo del lavoro attuale servono nuove competenze digitali, ambientali, gestionali. E serve dignità per chi lavora.
Il nostro Sistema Paese sconta dei problemi strutturali che gli impediscono di risultare attrattivo per gli investimenti stranieri: ma prima ancora del costo del lavoro e del costo dell’energia sono la burocrazia, l’incertezza del diritto e proprio la mancanza di competenze adeguate i vulnus di base che frenano gli investitori.
E non siamo attrattivi come Sistema Paese neanche per i giovani. Negli ultimi 9 anni 350.000 nostri giovani sono andati all’estero, un saldo negativo pesantissimo, giovani formati (e la cui formazione è stata pagata dai nostri cittadini) nel nostro Paese che ogni anno perdiamo (e raramente recuperiamo). L’Italia esporta manodopera formata e importa manodopera da formare. Sono necessarie strategie per mantenere i cervelli in Italia. E le uniche strategie per non far scappare i talenti sono investimenti in innovazione, ricerca, formazione.
Si parla sempre di up-skilling e di re-skilling. La qualificazione delle persone deve essere un obiettivo fondamentale in un mondo del lavoro come quello attuale che richiede e richiederà sempre di più un aggiornamento delle competenze continuo. Dobbiamo arrivare a realizzare una formazione continua per i lavoratori che li accompagni lungo tutto l’arco della vita professionale. Ed essa deve diventare un vero e proprio diritto alla formazione permanente all’interno dell’orario di lavoro.
Nelle competenze sulle nostre filiere abbiamo gap sì come qualità ma anche come quantità. Dobbiamo accelerare i processi legati alle Academy di Filiera e agli ITS. Gli ITS, in particolare, devono avere un’omogeneità nelle regole di ingaggio per risultare agili e qualitativamente elevati. E moltiplicare il numero degli iscritti. Per fare questo dobbiamo cambiare loro nome perché spesso le famiglie li associano ancora agli istituti di istruzione superiore: non potendo utilizzare il termine Università, Alta Formazione Professionale potrebbe essere un’idea.
Grazie agli interventi che, tra gli altri, hanno contribuito alla discussione su queste tra direttrici da parte di Marco Taisch, presidente di MADE Competence Center Industria 4.0, Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Enrico Pisino, Ceo del Competence Industry Manufacturing Center 4.0, Luca Manuelli, direttore dell’Osservatorio Italiano sull’Intelligenza Artificiale, Guido Ceresole, direttore della Piattaforma Europea EPoSS, Rosanna Fornasiero, Cluster Manager di Cluster Fabbrica Intelligente, Antonio Frisoli, presidente di Artes 4.0. La conferenza ha tracciato rotte chiare per il futuro dell’industria italiana basate tra l’altro su filiere solide, innovazione tecnologica, valorizzazione del capitale umano. È ora compito della politica insieme alla società civile trasformare queste idee in azioni concrete per costruire un’Italia più forte.
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