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Cerruti (Deloitte): ecco come le aziende italiane hanno affrontato la CSRD


Nell’anno in cui la CSRD ha fatto il suo debutto ufficiale nei bilanci di sostenibilità, Deloitte ha analizzato 85 società quotate italiane attive in dieci diversi settori economici e rappresentative di una capitalizzazione complessiva che rappresenta l’81% di quella totale del listino italiano, per tracciare una prima mappa del cambiamento in atto.

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Il risultato è una fotografia nitida e articolata, che restituisce tanto l’impegno quanto la complessità di un percorso appena iniziato, ma già estremamente denso. I report CSRD del primo anno mostrano infatti un notevole sforzo di compliance normativa: la media delle pagine si attesta attorno a 150, con punte di oltre 300 in settori ad alta intensità regolatoria come Energy, Oil & Gas e Servizi Finanziari. Le imprese hanno affrontato con serietà anche la complessità del quadro ESRS, avvalendosi di strumenti come l’analisi di doppia materialità, arrivando a rendicontare in media otto temi materiali su dieci possibili, di cui i tre ricorrenti per tutti sono cambiamento climatico, forza lavoro e condotta d’impresa.

Tuttavia, emergono significative differenze nell’interpretazione e applicazione degli standard, anche tra peer del medesimo settore. Tra i principali spunti di miglioramento emersi, infatti, vi sono la comparabilità e anche l’efficacia comunicativa, probabilmente anche a causa della struttura molto standardizzata e dei numerosi data point. Inoltre solo il 12% ha quantificato gli impatti finanziari legati alla sostenibilità, segno che il legame tra dati ESG e performance economico-finanziaria è ancora in fase embrionale. Infine, a conferma di un terreno ancora in costruzione, solo il 31% delle aziende ha già formalizzato un piano di transizione climatica.

“Non era un compito semplice riuscire a districarsi in un quadro normativo decisamente complesso, ma le aziende hanno affrontato questo passaggio con grande serietà. Dopo la corsa per rispettare le tempistiche di questo primo anno di implementazione ci sarà bisogno di razionalizzare e rivedere alcune parti con l’obiettivo di rendere il report più comunicativo ed efficace, ma senza snaturarne la completezza”, ha dichiarato Alessandra Cerruti, Partner Sustainability di Deloitte & Touche, che ci ha accompagnato nella lettura di questa prima, fondamentale transizione verso una rendicontazione ESG integrata, trasparente e finanziariamente rilevante.

Quali sono le principali evidenze che emergono dall’analisi dei primi bilanci CSRD pubblicati dalle 85 aziende italiane del campione?

Direi che emergono due messaggi principali. Da un lato, va riconosciuto il grande impegno mostrato dalle aziende. Non era un compito semplice riuscire a districarsi in un quadro normativo decisamente complesso, ma hanno affrontato questo passaggio con grande serietà. Lo si può notare da una serie di dettagli, come l’estensione dei report o la coerenza nella struttura secondo il framework ESRS, che indicano come sia stato svolto un lavoro organizzato e coerente. E si nota come per arrivare a produrre un documento in linea con i nuovi e articolati requisiti della CSRD, le aziende abbiano messo in campo importanti sforzi anche per adeguare i processi interni.

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D’altro canto, tuttavia, emerge anche che il percorso non è concluso. Il secondo messaggio che si può cogliere dall’analisi è, quindi, che c’è ancora margine per migliorare, soprattutto sul piano della comparabilità. Nei primi bilanci analizzati, si riscontra molta variabilità nel modo in cui i principi sono stati interpretati e applicati anche all’interno di uno stesso settore.

Un altro aspetto che può essere migliorato riguarda l’efficacia comunicativa che, a causa della struttura molto standardizzata e dei numerosi data point che tendono ad appesantire il messaggio e ridurre la chiarezza complessiva, rischia di perdere efficacia. Dopo la corsa per rispettare le tempistiche di questo primo anno di implementazione ci sarà quindi bisogno di razionalizzare e rivedere alcune parti con l’obiettivo di rendere il report più comunicativo ed efficace, ma senza snaturarne la completezza.

Spesso, per sottolineare l’eccessiva onerosità della CSRD, si citano gli oltre 1000 KPI previsti dalla normativa. Avete calcolato quanti sono, invece, quelli rivelati in media dalle aziende?

Dall’analisi emerge che il numero effettivamente rendicontato di data point sia inferiore agli oltre 1.000 teorici spesso citati, anche se non ci siamo soffermati a fare un conteggio specifico. Questo perché le aziende hanno potuto utilizzare il filtro dell’analisi di materialità, le possibilità di phase-in e la facoltà di non rendicontare alcuni indicatori volontari, che spesso non sono stati prioritizzati.

Le aziende hanno quindi deciso di focalizzarsi sui data point che ritenevano più rilavanti. Da un lato, infatti, sono state ampiamente utilizzate le misure transitorie che consentivano di limitare in numero di KPI. Dall’altro, attraverso l’analisi di materialità, hanno potuto limitare la disclosure agli aspetti considerati prioritari per la propria attività. I tre temi ricorrenti che sono emersi come fondamentali per tutte le imprese, a prescindere dal settore, sono il cambiamento climatico, la forza lavoro e gli impatti legati alla condotta delle imprese.

In termini numerici, il numero medio di temi materiali rendicontati è pari a otto, molto vicino al massimo previsto, che è di dieci. Alcuni settori, come i servizi finanziari, hanno evidenziato un numero più contenuto di temi, in linea con la natura del loro modello di business. Tuttavia, anche in questi casi, il cambiamento climatico è risultato materiale per tutti gli operatori, mentre altri temi ambientali sono stati considerati meno rilevanti.

I temi rilevanti su cui converge l’analisi di materialità di tutte le aziende del campione sono tre: cambiamento climatico (E1), forza lavoro propria (S1) e condotta delle imprese (G1). La semplificazione del pacchetto Omnibus va quindi nella giusta direzione per cogliere le priorità delle aziende?

Siamo in attesa di vedere cosa produrrà la revisione degli standard prevista dal pacchetto Omnibus, che dovrebbe rendere il quadro complessivo più gestibile e proporzionato. Il Progress Report pubblicato dall’EFRAG il 20 giugno riporta alcuni elementi interessanti. Uno dei messaggi chiave che emerge riguarda una maggiore flessibilità nella struttura del reporting, oltre a un impegno verso la riduzione complessiva dei data point. Si ipotizza anche di semplificare l’esercizio della doppia materialità, che è stato uno degli aspetti più complessi con cui si sono confrontate le aziende. Uno degli obiettivi dichiarati è proprio quello di estendere questo approccio semplificato a tutti gli standard, incluso quello generale, l’ESRS2, che è obbligatorio per tutti.

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L’approccio quindi di riduzione non è legato a temi specifici, ma rappresenta un orientamento generale di semplificazione dell’intero impianto. E devo dire che questo è un auspicio che mi sento di condividere.

Secondo me, a prescindere dai singoli temi, dove comunque c’è stato e c’è ancora un forte imprinting settoriale, quello che emerge è la volontà di intervenire in modo trasversale su tutti gli standard, riducendo i data point, con un’attenzione particolare a valorizzare maggiormente gli aspetti quantitativi rispetto a quelli puramente qualitativi.

Il documento dell’EFRAG propone anche una maggiore flessibilità nella struttura. Per esempio, si introduce la possibilità di inserire un executive summary, che va proprio nella direzione di rendere il report più comunicativo ed efficace, anche al di là degli obblighi di rendicontazione formale. Anche l’esercizio di semplificazione è una sfida ambiziosa, viste le tempistiche piuttosto strette.

Solo il 12% delle aziende ha quantificato gli effetti finanziari dei rischi legati alla sostenibilità. Significa che c’è ancora difficoltà nel monitorare gli impatti di elementi come il cambiamento climatico sull’attività aziendale?

Questo è sicuramente un ambito in cui c’è ancora molta strada da fare. Parliamo di quella che io chiamo la dimensione finanziaria della sostenibilità o, se vogliamo, la connessione tra le informazioni finanziarie e quelle non finanziarie. Uno degli elementi di maggiore novità introdotti dal framework CSRD è proprio l’integrazione crescente tra la rendicontazione di sostenibilità e il bilancio.

Non a caso, i due report devono ora essere pubblicati congiuntamente, in un unico documento. Nel framework ESRS, infatti, troviamo numerosi elementi finanziari, sia nella valutazione di rischi e opportunità, sia nelle disclosure richieste. Investitori e stakeholder si aspettano sempre di più una narrazione unitaria e coerente che leghi strategie e obiettivi di sostenibilità  alle loro ricadute sulle performance economico-finanziarie, sia a consuntivo sia prospettiche. Le aziende, in questa prima fase, hanno optato in larga maggioranza per avvalersi della possibilità di non dettagliare gli impatti finanziari. È evidente che questo è un terreno su cui le imprese dovranno lavorare molto.

Sul tema della quantificazione dei rischi, la difficoltà è evidente dato che non si tratta semplicemente di scattare una fotografia dell’esistente, ma di fornire una prospettiva futura. E impegnarsi in un documento di questo tipo, arrivando a formulare delle stime forward-looking, è tutt’altro che banale.

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Lo conferma anche uno degli highlight del report: circa il 95% delle aziende del campione ha rimandato la disclosure degli effetti finanziari futuri, proprio a causa della complessità nel formulare stime affidabili e coerenti con la strategia di sostenibilità.

Alcuni ambiti, come quello climatico, sono più maturi grazie al lavoro pregresso fatto, ad esempio, con il framework TCFD. In particolare, nel settore finanziario esistono già obblighi regolatori di lungo corso sulla valutazione dei rischi climatici, spesso con riferimento anche agli impatti economico-finanziari. Occorre dare tempo alle imprese per strutturarsi meglio e affinare le proprie stime. Diverso è il discorso per altri ambiti, come quello sociale, dove mancano del tutto modelli e metodologie condivise.

Dall’analisi emergono anche alcune differenze a livello di settore, ci può illustrare quali sono le tendenze?

Abbiamo notato alcune diversità tra i diversi comparti, ma anche ampie variabilità all’interno dei settori stessi. Un primo dato interessante riguarda la presenza di marcate differenze in termini di estensione dei report, specialmente nei settori Oil & Gas, Chemicals edEnergy. Lo stesso vale per Financial Services, Power e Utilities, Industrial Products e Construction.

Questi settori sono quelli che presentano sia i report più voluminosi, sia una maggiore variabilità nel numero di pagine. Per esempio, nel comparto bancario abbiamo trovato report che vanno da un minimo di circa 50 pagine fino a un massimo di 380. Una forbice molto ampia che ci mostra come, anche all’interno dello stesso settore, il modo di interpretare e applicare i requisiti di rendicontazione possa essere molto differente.

La media nazionale italiana dei report si attesta intorno alle 150 pagine, un dato in linea con altri Paesi come la Francia, con i quali condividiamo un approccio simile all’ESG reporting.

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Sempre restando nel settore finanziario, notiamo come presenti il minore numero medio di temi materiali rendicontati: circa sei, con alcuni report che ne includono solo quattro. Questo riflette la specificità del business dove l’analisi di materialità ha portato a valutare in modo inferiore rispetto ad altri settori l’incidenza di alcuni temi ambientali, escluso il cambiamento climatico, la cui importanza è trasversale.

Un altro elemento da evidenziare è il numero diimpatti, rischi e opportunità (IRO) dichiarati per settore. Anche qui, primeggiano Oil & Gas, Chemicals, Power & Utilities, Financial Services, Conglomerates e Industrial Products e Construction, che presentano i numeri medi e massimi più elevati.

Un aspetto particolarmente interessante è che diverse realtà hanno scelto di riportare temi specifici aziendali, cioè quei temi ulteriori rispetto ai dieci temi ESRS, che le imprese possono autonomamente identificare e rendicontare. Tra questi figurano, per esempio, cybersecurity, ricerca, sviluppo e innovazione. In generale, l’incidenza di questi temi “entity-specific” è ancora contenuta (circa il 28% dei casi), ma alcuni settori, comeFinancial Services, Industrial Products e Construction e, in misura minore, il Retail, mostrano una maggiore propensione a individuarli.

Infine, guardando al tema clima, osserviamo che la presenza di un piano di transizione climatica è ancora limitata, probabilmente a causa della severità dei requisiti previsti dagli standard. Tuttavia, settori come automotive, Oil e Gas, Chemicals e Power e Utilities mostrano una maggiore incidenza di tali piani. Ciò conferma la loro maggiore esposizione alla transizione energetica della quale le aziende sono consapevoli e alla quale stanno rispondendo in modo concreto.

Nell’ambito dell’analisi IRO, emerge che le imprese tendono a individuare con maggiore facilità i rischi rispetto alle opportunità. A cosa può essere attribuito questo fenomeno?

In generale, le società quotate che abbiamo analizzato e che si sono già cimentate con il reporting, partivano da modelli di Enterprise Risk Management (ERM) già strutturati. Questi modelli sono tradizionalmente focalizzati soprattutto sulla gestione dei rischi. Da questo punto di vista, quindi, le aziende disponevano già di una base solida da cui partire.

La valutazione delle opportunità, invece, ha rappresentato una delle principali novità introdotte dagli standard. Le imprese hanno quindi dovuto affrontarla appositamente per il reporting, spesso con un approccio cauto, se non prudente. Comunicare le opportunità, secondo l’impostazione stessa degli standard, implica infatti anche l’associazione a potenziali effetti finanziari attesi. Da qui nasce, probabilmente, un atteggiamento più conservativo su questo fronte.

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È importante sottolineare, tuttavia, che questo non significa che la sostenibilità o i temi ESG siano solo un costo o che non comportino benefici o vantaggi competitivi. Al contrario, sono convinta che ci sia un grande valore in termini di opportunità, che emergerà nel tempo.

A mio avviso, questo squilibrio iniziale tra rischi e opportunità è da leggere come una sorta di distorsione tecnica, legata al modo in cui nasce il reporting. Ma chi crede davvero nella sostenibilità come percorso serio e strutturato, sa che le opportunità sono numerose e concrete.

Sono ancora poche le aziende che hanno approvato piani di transizione (31%) e non arrivano al 70% quelle con target di decarbonizzazione. Come leggere questo aspetto?

Darei una duplice chiave di lettura. Da un lato, è il riflesso di una certa severità nell’approccio che ha identificato il piano di transizione che richiede elementi molto strutturati, ben definiti, con un obiettivo chiaramente allineato al limite di 1,5°C previsto dall’Accordo di Parigi.

Questa impostazione ha dato finalmente una forma a un concetto, quello del piano di transizione, che fino a poco tempo fa non era ben definito ma la definizione di criteri precisi e di una road map stringente ha trovato molte aziende non ancora pronte. Lo vediamo, ad esempio, dal fatto che solo il 31% lo ha già sviluppato. Tuttavia, credo che già dal prossimo anno leggeremo una realtà diversa, perché questo è uno degli ambiti su cui le aziende si stanno maggiormente impegnando.

Quindi anche se non erano forse pronte per il report 2024, notiamo come le grandi quotate si stiano attrezzando per dotarsi di un piano di transizione credibile e strutturato.

Oltre a questo, anche se in ambito europeo si discute nella direttiva sulla due diligence di eliminare il riferimento specifico al piano di transizione, a livello internazionale la letteratura e la metodologia su questo tema stanno comunque evolvendo. C’è, ad esempio, un quadro di riferimento molto interessante anche nel contesto UK. Non si tratta quindi di un tema accantonato, anzi. Poi, al di là del reporting in senso stretto, credo ci siano anche ostacoli più specifici, legati ad alcuni settori industriali.

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In che senso?

In certi casi, gli obiettivi e le caratteristiche richieste dai piani di transizione non sono ancora pienamente raggiungibili, anche a causa dell’evoluzione ancora in corso dei framework scientifici di riferimento. Siamo in una fase di profonda trasformazione del sistema energetico. Questo comporta necessariamente una rapida evoluzione delle tecnologie e delle aree di ricerca prioritarie.

Quindi è un ambito in forte evoluzione e, nonostante i numeri che leggiamo oggi, è chiaro che le grandi aziende vi stanno investendo, e continueranno a farlo, in termini di risorse e pianificazione strategica.

Anche il dato del 70% di aziende che ha definito obiettivi climatici, molti dei quali basati su approcci science-based, è un segnale incoraggiante. Significa che esiste una roadmap in via di definizione, che in molti casi porterà a definire un vero e proprio piano di transizione, cioè un documento dettagliato, con obiettivi intermedi, analisi di resilienza e misure concrete di decarbonizzazione.

Lo vedo, insomma, come uno step evolutivo successivo. E credo sarà centrale anche nei prossimi anni, non solo come elemento di rendicontazione, ma come indicatore di un percorso strategico più ampio. Così come sta accadendo anche per gli aspetti finanziari e per le stime prospettiche legate alla transizione.

Un piano di transizione non è solo una dichiarazione di intenti: richiede un certo livello minimo di abbattimento delle emissioni, con un ruolo residuale per le misure di compensazione, l’identificazione concreta di leve di decarbonizzazione, azioni e investimenti correlati e un’analisi di resilienza del proprio modello di business. Questo implica affrontare le barriere di maturità che oggi limitano l’adozione su larga scala di alcune tecnologie, ma che sono destinate a ridursi con il tempo.

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