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Private equity, la giostra delle compravendite si è fermata. Gli investitori fremono: «Vogliamo i soldi indietro»


di
Francesco Bertolino

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I fondi controllano oltre 29 mila aziende, ma faticano sempre più a venderle. Le distribuzioni di denaro ai sottoscrittori sono ai minimi da 10 anni e la pressione sta salendo: «Il tempo sta scadendo, è ora di restituire il denaro»

Il portafoglio dei private equity è pieno: ma sta per scoppiare? Oggi i fondi specializzati nella compravendita di aziende controllano oltre 29 mila imprese, calcola Bain & Company, il doppio rispetto al 2011. La crescita è stata impetuosa, alimentata dai flussi di capitali provenienti da grandi investitori come fondi pensione e assicurazioni, attratti da un mercato che promette rendimenti superiori e oscillazioni inferiori rispetto alla Borsa. Fra il 2005 e il 2023, così, il denaro gestito da società come Blackstone, Kkr e Apollo si è moltiplicato per 20, arrivando a sfiorare i 10 mila miliardi di dollari.

Come funziona il private equity

Il modello, del resto, ha funzionato: i fondi hanno comperato aziende, le hanno fatte crescere (e, talvolta, indebitate) per poi rivenderle dopo quattro-cinque anni, a un prezzo superiore, a gruppi industriali o altri fondi. L’incasso è andato, in parte, in tasca ai gestori, i più celebri dei quali sono diventati miliardari. In parte è stato distribuito ai sottoscrittori dei fondi che, spesso, lo hanno reinvestito in nuovi veicoli degli stessi o di altri gestori, innescando un circolo «virtuoso» fra acquisti, vendite e raccolta.




















































La frenata delle vendite

Ma il meccanismo si è inceppato. Dalla seconda metà del 2022 le cessioni si sono arenate a causa di guerre, crisi energetica, inflazione e dazi. Insomma, a causa della permacrisi, la crisi permanente che ha aperto un ampio divario fra le attese di prezzo dei venditori e le disponibilità di spesa dei compratori. Le exit hanno toccato nel 2023 il minimo da dieci anni. Così l’anno scorso la distribuzione di denaro ai sottoscrittori dei fondi si è attestata al punto più basso del decennio. Suscitando l’ira di alcuni investitori che hanno bisogno di liquidità per far fronte ad altri impegni o per pagare le pensioni. «I fondi che hanno iniziato a investire nel 2019-2022 hanno in media restituito ai sottoscrittori 15 centesimi sul dollaro investito contro una media storica di 50 centesimi per lo stesso livello di maturità — dice una fonte di settore —. Perciò la pressione degli investitori si è alzata e, di recente, si è fatta forte».

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La pressione degli investitori

Per mesi espresse a porte chiuse, infatti, le proteste stanno ora erompendo in pubblico. «Il tempo sta scadendo per i private equity: sono in grave difficoltà e la gente sta chiedendo indietro i soldi», ha avvertito un paio di settimane fa Sheikh Saoud Salem Al-Sabah, responsabile del fondo sovrano del Kuwait (mille miliardi). Gli ha fatto eco il magnate egiziano Nassef Sawiris. «L’epoca d’oro del private equity è alle spalle — ha detto al Financial Times il proprietario dell’Aston Villa —. Gli investitori sono esasperati perché non vedono rientrare denaro da cinque-sei anni». Dunque diversi investitori stanno riducendo l’esposizione al private equity. Fra gennaio e marzo nessun fondo ha superato i cinque miliardi di raccolta, nota Bain & co. Non succedeva da dieci anni. E anche gli altri 18 mila veicoli che ora stanno bussando agli investitori per rastrellare in totale 3.300 miliardi rischiano di trovare molte porte chiuse.

L’urgenza di vendere

«Da un nostro recente sondaggio il 63% degli investitori in private equity è pronto ad accettare vendite di aziende sotto la valutazione attesa, pur di avere liquidità — nota Sergio Iardella, senior partner Bain & Company —. La pressione è forte, ma finora, non ha portato a un’accelerazione delle exit». Venditori e compratori continuano ad avere in testa cifre diverse. I gestori sono poi riluttanti a vendere sotto una certa soglia perché alla plusvalenza è agganciato il «carry», il loro premio di risultato che, di norma, vale il 20% dei profitti distribuiti dal fondo agli investitori. La speranza che tutto torni come prima si è infranta con la guerra dei dazi scatenata da Donald Trump che ha reso impossibile dare un prezzo alle aziende in Borsa e fuori, specie se lavorano negli Usa.

Le nuove modalità di uscita

Schiacciati fra la pressione interna degli investitori a vendere e l’incertezza macroeconomica, perciò, i gestori del private equity stanno sperimentando nuove soluzioni per restituire denaro agli investitori. Fra queste i fondi secondari, che acquistano a sconto quote di veicoli già in attività da sottoscrittori con urgenza di uscire. Il mercato, stima Jefferies, vale circa 160 miliardi ed è in rapida ascesa. Ci sono poi le «quotazioni private», ossia la vendita di quote di capitale a investitori di lungo termine. Mentre qualcuno inizia a valutare la quotazione in Borsa di interi fondi.

I continuation fund

Si stanno però diffondendo anche prassi più controverse come i continuation fund che consentono il passaggio di un’azienda da un fondo all’altro di uno stesso gestore. Secondo Sawiris, è «la più grande truffa della storia». Altri ritengono invece che i continuation fund abbiano senso quando l’azienda è nel mezzo di un percorso di crescita e il suo valore nel trasferimento da un veicolo a un altro è certificato da un terzo investitore o da un asseveratore indipendente. Più discutibile ancora è il Nav financing, il debito caricato sullo stesso fondo per distribuire denaro ai suoi sottoscrittori. «È una droga — dice un addetto ai lavori —. Se le aziende nel portafoglio del fondo sono sane dovrebbero generare liquidità staccando dividendi; altrimenti, si sta solo rinviando e aggravando il problema».

L’era della selezione

Quel che è certo, prosegue, è che «il private equity sta entrando nell’età matura: questo comporterà cambiamenti strutturali nei tempi e nei modi delle exit che richiederanno anche un cambio di mentalità degli investitori. La domanda non è tanto quanti anni impiega un gestore a realizzare gli investimenti, ma qual è la qualità delle aziende che il fondo ha in portafoglio e del lavoro che il gestore fa per renderle più redditizie». Il private equity entra insomma in una nuova era: quella della selezione. Dice Iardella: «L’industria non è in crisi, continua a dare rendimenti superiori ad altri. Emergeranno i fondi specializzati in nicchie e quelli capaci di generare ritorni costanti e alti per chi investe».

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