L’Italia non cresce da 40 anni. E non deve allora stupire se i nostri salari perdono in termini di potere d’acquisto più degli altri Paesi, come ha certificato l’ennesimo rapporto Istat illustrato al Parlamento, e restano relegati in fondo alle classifiche Ocse. Le colpe della bassa produttività del sistema Paese «sono equamente divise tra i vari attori sociali», spiega Andrea Ichino, economista dell’EUI, l’European University Institute di Fiesole, e dell’Università di Bologna: ci sono i sindacati, che non capiscono che i posti improduttivi vanno chiusi e i lavoratori trasferiti, ci sono le imprese, che fanno poca innovazione, c’è la burocrazia, asfissiante e inefficiente. Ma c’è anche la famiglia: «L’attaccamento alle origini», dice Ichino, «si riflette in una immobilità geografica e settoriale della forza lavoro che dà alle imprese quello che gli economisti chiamano un “potere di monopsonio”».
Rispetto a gennaio 2019 la perdita di potere d’acquisto dei salari italiani nel 2022, dice l’Istat, era al 15% e a marzo 2025 al 10%. Come si spiega?
Come scrivevo già un anno fa, anche adesso queste cifre non sorprendono perché il nostro paese negli ultimi quarant’anni non è stato capace di far crescere la sua produttività. Le colpe di tutto questo sono equamente divise tra i vari attori sociali.
Quali?
I sindacati non capiscono che per aumentare la produttività e quindi i salari è necessario consentire che i posti di lavoro improduttivi si estinguano e i lavoratori si trasferiscano verso occupazioni più produttive, con il dovuto sostegno pubblico nella transizione. Gli imprenditori, tranne alcune rare eccellenze, non sono sufficientemente capaci di fare ricerca e sviluppo e di innovare le strategie. La pubblica amministrazione vincola con una burocrazia asfissiante e del tutto inefficiente ogni ambito della vita e delle attività produttive. E infine, tutti noi italiani in prima persona siamo un po’ responsabili perché siamo attaccati a una struttura sociale centrata sulla famiglia, che produce molti beni e servizi “in casa”, ma in modo inefficiente e con conseguenze negative per la produttività del lavoro “nel mercato”.
Se però si tiene conto delle retribuzioni lorde di fatto, comprensiva degli accordi integrativi, la perdita è più contenuta, pari al 4,4%. Ma sempre di più del 2,6% della Francia e dell’1,3% della Germania. In Spagna invece si guadagna un +3,9%. Come si spiegano queste differenze?
Premesso che fluttuazioni in questo tipo di dati possono essere occasionali e magari risultare leggermente diverse a poca distanza di tempo, il problema è il trend di lungo termine che fa del nostro Paese la maglia nera in quanto a retribuzioni, comunque le vogliamo definire e calcolare. Mentre negli altri paesi i problemi si affrontano e almeno in parte si risolvono, da noi continua ad essere vero che tutto cambia perché nulla cambi.
Il salario medio annuo, a parità di potere d’acquisto, si attesta a 48.874 dollari, posizionando l’Italia al 22esimo posto, lo scorso anno era al 21esimo, rispetto ai 34 Paesi Ocse. Siamo sempre cronicamente più poveri.
È il tema del libro “L’Italia fatta in casa” (Rizzoli, 2013, ndr) che ho scritto insieme ad Alberto Alesina. Se contassimo nel Prodotto Interno Lordo tutto quello che le famiglie italiane, ma non le americane, producono in casa -dalle marmellate, al bricolage, ai servizi di welfare- la distanza di reddito pro-capite con gli USA quasi si dimezzerebbe. Incentrare sulle famiglie tutte queste funzioni ha però effetti negativi sulla produttività e sui salari reali.
Di che effetti negativi parliamo?
In primo luogo, il ruolo nel quale vengono confinate le donne, colonne del welfare familiare che compensa le deficienze dello Stato, ma che in questo modo sono condannate a bassi tassi di occupazione nel mercato e comunque a occupazioni meno produttive di quelle potenziali.
In secondo luogo, un mercato del lavoro che richiede almeno un posto di lavoro stabile a vita in ogni famiglia, per finanziare i servizi di welfare, generalmente occupato da maschi adulti spesso non molto produttivi. Questo posto fisso riservato agli adulti toglie opportunità ai giovani i quali devono attendere, nel precariato poco produttivo, che i vecchi lascino il campo.
Insomma, una famiglia forte sarebbe concausa della nostra povertà…
Il ruolo della famiglia fa sì che nessuno se ne voglia allontanare, ad iniziare dai figli che rimangono a casa fino a ben oltre i trent’anni, anche perché il lavoro si trova soprattutto attraverso i contatti familiari. Questo attaccamento alle origini si riflette in una immobilità geografica e settoriale della forza lavoro che dà alle imprese quello che gli economisti chiamano un “potere di monopsonio”. Così come il monopolista vende i suoi prodotti a prezzi più alti di quelli concorrenziali perché sa che i consumatori non hanno alternative, il monopsonista paga i lavoratori meno di quello a cui potrebbe aspirare perché sa che accetteranno salari inferiori pur di non perdere i benefici offerti dalla famiglia. A questo punto c’è una domanda di fondo che dovremmo porci.
Quale?
Saremmo disposti a rinunciare a quello che la famiglia ci offre per avere livelli di produttività quali quelli americani, ma perdendo le nostre origini? Scelta difficile, ma certamente non possiamo pretendere di avere capra e cavolo. Bisogna trovare una strategia onnicomprensiva per conservare parte dei vantaggi dell’“Italia fatta in casa”, senza rinunciare alla crescita di cui abbiamo bisogno
Può essere utile il salario minimo nel nostro contesto, o sono più efficaci i bonus e le decontribuzioni?
Il salario minimo è una battaglia sacrosanta, che avrebbe numerosi benefici per i lavoratori più deboli ma anche per il paese nel suo complesso: sono molti gli economisti convinti di questo. Bonus e decontribuzioni sono soldi buttati via perché nella quasi totalità finanziano le imprese per scelte che avrebbero fatto comunque.
Quanto incide il lavoro precario nel tenere basso il livello retributivo?
Bisogna distinguere tra precarietà all’inizio della vita lavorativa che è del tutto normale e non patologica, e precarietà che diventa stabile. La prima riguarda un periodo in cui il lavoratore acquisisce capitale umano che è in gran parte di tipo generale e quindi deve essere pagato dal lavoratore stesso perché l’impresa non ha interesse a pagare un capitale umano spendibile altrove. Ma se la precarietà si stabilizza in una combinazione di lavori transitori e mal pagati, allora diventa parte del problema. Per quel che mi risulta però, non esistono studi recenti per l’Italia che dicano quale delle due forme di precarietà è più rilevante nel nostro Paese, al di là dell’evidenza aneddotica. Un accesso più facile ai dati, non perennemente ostacolato dalla tutela eccessiva della riservatezza, consentirebbe di avere una risposta a questa domanda e di impostare la politica del lavoro di conseguenza.
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