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«C’è una differenza tra vivere e abitare le aree interne: dobbiamo ricentralizzare le comunità nei processi di sviluppo»


C’è stato un momento, durante gli Stati Generali delle Aree Interne del giugno 2023, in cui si è ribaltato tutto. Non erano più i territori a dover ascoltare dall’alto le ricette per il loro sviluppo, ma è stata l’accademia a mettersi in ascolto, pronta a raccogliere voci, bisogni, intuizioni che salivano dal basso. Un ribaltamento metodologico che Angela Cresta – presidente del Comitato Scientifico e coordinatrice dell’evento – racconta oggi a due anni di distanza, perché quel laboratorio partecipativo si è trasformato in un volume che dà voce a venticinque autori e, attraverso loro, a intere comunità.

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Promossi dalla Provincia e dal Comune di Avellino – con l’organizzazione affidata alla rete Inspired by Irpinia – non è stato l’ennesimo convegno sui margini d’Italia, ma una vera e propria “piazza pubblica” costruita per condividere esperienze, riflessioni e pratiche concrete a partire dal protagonismo delle comunità locali.

L’intento era ambizioso: non ragionare di aree interne, ma farle parlare, mettendo al centro chi le abita e le conosce. Ne è nata una pubblicazione – Aree Interne: modelli e approcci di sviluppo territoriale , edita da Aracne – che raccoglie le riflessioni emerse dai gruppi di lavoro, dall’esperienza dei facilitatori e membri del Comitato Scientifico, coinvolti in un confronto diretto e trasversale con esperti, accademici, amministratori e cittadini.

«Di fatto questo volume rappresenta l’output degli Stati Generali delle Aree Interne. Infatti gli autori, membri del Comitato Tecnico-Scientifico oppure facilitatori durante quell’evento, nella prima parte del libro, non hanno fatto altro che dare voce ai partecipanti a quel forum». Ci spiega Angela Cresta.

Era proprio questa la chiave: far emergere, attraverso un metodo corale, esigenze, criticità, potenzialità. Un’operazione che ha visto il coinvolgimento diretto dei territori.

«Tutto ciò che leggiamo nei capitoli del volume è, in realtà, la risultante – arricchita dal bagaglio esperienziale e dalle competenze degli autori – dei bisogni e dei desideri inespressi dei nostri territori, delle nostre aree interne, così come sono emerse in quel consesso. Una cosa è certa: non ci sarebbe stato questo volume se non ci fossero stati gli Stati Generali delle Aree Interne».

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Una modalità che ha voluto ribaltare lo schema classico delle relazioni verticali, invertendo i ruoli tra chi ascolta e chi parla.

«Abbiamo ribaltato la prospettiva: abbiamo messo i territori e le comunità “in cattedra” e invece, l’accademia e gli esperti a prestare attenzione, oltre che a facilitare il dialogo. In quelle giornate abbiamo immaginato dei temi topici. Siamo partiti dai tre pilastri individuati anche dalla SNAI – sanità, istruzione e mobilità – e, da qui, abbiamo cercato, in maniera incrementale, di individuare nuovi temi che potessero essere di interesse per i partecipanti e su cui focalizzare la discussione. Abbiamo quindi aggiunto temi quali Imprese e innovazione (con un Focus su Agricoltura), Welfare e Lavoro, Turismo, Cultura, e “Riabitare”, che in realtà un po’ li contiene tutti».

E così il confronto tra aree interne, con soggetti provenienti da territori diversi, ha permesso di allargare la riflessione, aprendo uno spazio di contaminazione fertile.

«Non tutte le aree interne sono uguali e il nostro obiettivo era leggere realtà ed esperienze diverse rispetto ai nostri territori, contaminarci a partire dalle esperienze di altre aree interne con condizioni simili o dissimili dalle nostre. Ed è per questo che la rete si è allargata anche ad esperti rappresentanti da enti, istituzioni e centri di ricerca più lontani – Centro Aria dell’Università del Molise, Università della Valle d’Aosta, Sistur, ANCI – come si evince dalla seconda parte del volume».

Il volume restituisce una mappa corale e stratificata, da cui emerge con chiarezza il filo conduttore dell’intera esperienza.

«Il volume non offre la “soluzione”, piuttosto legge dinamiche. Nessuna formula magica per invertire la rarefazione delle aree interne, Ognuno degli autori ha registrato le sollecitazioni dei partecipanti rispetto al tema affrontato, evidenziando le difficoltà e le priorità di intervento. Se vogliamo individuare un filo rosso, un filo conduttore del volume, quello che sicuramente emerge è l’urgenza di ripartire dai luoghi e dai territori per arginare e per contenere il processo in atto, e per farlo occorre concentrarsi sulle comunità locali, sul loro radicamento, ma al contempo anche sull’innalzamento della qualità della vita di chi resta più o meno convintamente. Quello che viene fuori con forza è che ogni forma di attrattività dall’esterno – che si tratti di turisti, risorse economiche o investimenti – è sì necessaria, ma non sufficiente. È fondamentale il coinvolgimento dei territori intesi come comunità».


Una partecipazione reale, capace di superare la dimensione formale o strumentale dei bandi e dei partenariati.

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«Significa rendere i territori – e quindi le comunità da cui parte il processo di sviluppo – partecipi nelle strategie. Si comincia dalla consapevolezza che, molto spesso, anche le amministrazioni locali non sono autosufficienti nel definire con le migliori strategie da implementare sui territori per la ricerca delle soluzioni opportune e necessarie a soddisfare i bisogni delle comunità locali. E se non si riescono a intercettare i fabbisogni, anche le migliori intenzioni rischiano di non produrre risultati. Ricentralizzare le comunità nei processi di sviluppo significa anche questo. E lo abbiamo fatto in quel consesso, andando oltre la logica delle reti partenariali che ci impongono i bandi – perché lo sappiamo, quando partecipi a un bando, più soggetti hai nella rete, più il progetto acquista valore – ma provando invece ad andare oltre, a guardare alla comunità nella sua essenza: le associazioni, il terzo settore, ma anche studenti, singoli cittadini, che possono portare istanze nuove o punti di vista diversi rispetto a quelli degli stakeholder istituzionali».

Tra i nodi centrali affrontati nel percorso, quello della qualità della vita e della motivazione – o demotivazione – di chi resta.

«Non si può puntare sull’attrattività, residenziale ma soprattutto turistica, di queste aree. Anche perché non sono del tutto convinta – continua Cresta – che si possa parlare davvero di “turismo” nelle nostre aree, se prima non qualifichiamo la vita di coloro che restano».

Perciò nemmeno il turismo – spesso evocato come via di salvezza – sembra sufficiente se la comunità non è presente, coesa, consapevole.

«Di frequente ci viene proposto il turismo come la panacea di tutti i mali delle aree interne. Sicuramente possiedono risorse che rispondono perfettamente alla domanda turistica attuale: abbiamo l’identità, la memoria storica, le tradizioni, la salubrità, il verde, i borghi, i tempi lenti…Tutto quello che oggi il turismo cerca. Eppure siamo al palo. Nel 2024 l’Irpinia ha intercettato poco meno del 2% dei turisti regionali, il Sannio, ancora meno, si è fermato sotto l’1% degli arrivi. E sulle presenze i dati sono ancora più bassi».

Perché? «Probabilmente perché, in quell’identità che vorremmo “vendere”, noi stessi non ci riconosciamo. Non ha senso lavorare sull’attività turistica se i processi di rigenerazione, riqualificazione e valorizzazione dei luoghi non riguardano prima di tutto le singole comunità. Non possiamo concentrarci sul potenziale turista perdendo di vista proprio quella comunità che si vuole valorizzare e rigenerare. Se la comunità è assente, sgretolata, senza senso di appartenenza, anche la risorsa più preziosa non diventerà mai un prodotto turistico».

Uno spunto che invita a spostare lo sguardo: non su chi arriva da fuori, ma su chi, spesso per necessità e non per scelta, continua a vivere nei territori interni, senza tuttavia sentirli propri.

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«Il problema dei nostri territori è che chi resta – chi sceglie consapevolmente di restare – è spesso una minoranza. Molti, anche giovani, restano perché non hanno alternative. E anche se lavorano, restano in maniera poco determinata. Bisogna partire dall’innalzamento della qualità della vita, a cominciare dai servizi essenziali. Quelli canonici: sanità, trasporti e istruzione. E poi, a seguire, impegnarsi per un cambiamento culturale, finalizzato ad accrescere l’identità, il senso di radicamento, di appartenenza, che troppe volte manca».

Il vero rischio, secondo Angela Cresta, non è tanto l’abbandono fisico, quanto quello emotivo e collaborativo.

«Personalmente spopolamento e abbandono sono fenomeni da attenzionare, ma l’abbandono fisico c’è sempre stato, le emigrazioni sono sempre esistite; e poi in generale chi parte spesso mantiene un legame forte con i luoghi da cui è partito; e a volte con un bagaglio di nuove esperienze ritorna anche sui territori di origine. Quello che mi preoccupa di più è l’abbandono “non fisico”, cioè l’allontanamento, la disaffezione ai luoghi, lo scarso senso di appartenenza, la distanza emotiva e culturale di chi resta. Chi abita questi territori senza viverli».





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