Non c’è spazio per eccessivi entusiasmi, ma nemmeno per allarmismi: per Renato Loiero, consigliere economico di Palazzo Chigi, i dati positivi sull’economia italiana sono reali e solidi, ma la strada resta lunga. Pressione fiscale, produttività e demografia restano nodi strutturali da affrontare. E in questa intervista con Economy, ai microfoni di “Conti in tasca” su Giornaleradio, illustra la sua visione sulle molte luci che, ancora tra numerose ombre, illuminano il camminano il cammino dell’economia nazionale.
Dottor Loiero, come si sente un economista davanti a questa “tempesta” di dati, tra ottime notizie e grandi incognite? Lo spread è ai minimi storici, l’occupazione cresce, il rating migliora. Ma la pressione fiscale resta alta e lo scenario globale è a dir poco incerto. È più ottimista o preoccupato?
Mi consenta di rispondere da economista più che da cittadino. Il nostro compito è osservare la realtà in modo il più possibile oggettivo, evitando sia entusiasmi facili sia pessimismi ingiustificati. È vero: ci troviamo di fronte a una grande quantità di dati, spesso anche contraddittori. Ma alcune tendenze sono chiare: il miglioramento del rating da parte di tre agenzie – due hanno rivisto l’outlook, una ha alzato il grado – è un segnale importante. Non è solo un esercizio teorico: impatta sul costo del debito, sull’affidabilità del Paese e quindi, in prospettiva, sulla qualità della nostra finanza pubblica. Come le ultime aste di Btp hanno ampiamente dimostrato.
Il Pil italiano cresce più della media dell’eurozona. Quali sono le componenti più dinamiche della nostra economia?
La crescita cumulata del valore aggiunto delle imprese private negli ultimi 5 anni è stata del 6%. È un dato significativo, anche rispetto alle principali economie europee. I servizi stanno mostrando un’espansione robusta, sia nei settori tradizionali che in quelli più innovativi. Le costruzioni hanno dato un contributo, ma è nei servizi – e soprattutto nei servizi avanzati – che si sta giocando una parte importante del nostro recupero economico. Il mercato del lavoro riflette questa dinamica: oggi in Italia ci sono oltre 24 milioni di occupati, un livello mai raggiunto prima. E per la prima volta abbiamo superato i 10 milioni di donne con un impiego.
Il Fondo Monetario ha promosso l’Italia, ma restano debolezze strutturali. Cosa ci viene chiesto in particolare?
La cosiddetta “Article IV consultation” è un passaggio annuale di confronto tra il Fondo e ogni Stato membro. Non è una pagella, ma uno scambio tecnico. E quest’anno il giudizio è stato complessivamente positivo, con una nota d’attenzione sull’incertezza globale e su due questioni di lungo periodo: la bassa produttività e la sfida demografica. Sulla produttività, l’Italia sconta un divario storico. Quanto alla demografia, il rischio non è tanto il Pil pro capite – che può anche migliorare con una popolazione in calo – ma la sostenibilità di medio-lungo periodo del welfare, della crescita e della tenuta sociale. Sul fronte dei conti pubblici, il Fondo ha riconosciuto che siamo andati meglio del previsto: siamo tornati a un avanzo primario, e l’impostazione prudenziale del bilancio 2024 è stata apprezzata.
Alla luce di questi risultati, non si potrebbe usare un po’ più di margine per alleggerire la pressione fiscale?
Il tema è cruciale. La pressione fiscale effettiva non si è ancora ridotta in modo percepibile, ma non è stato per mancanza di iniziativa politica. Il decreto 1° maggio 2024 ha introdotto la più ampia riduzione del cuneo contributivo degli ultimi anni, intervenendo sui redditi da lavoro dipendente più bassi. Inoltre, è partito il primo modulo di riforma dell’Irpef, con l’accorpamento dei primi due scaglioni. L’obiettivo resta quello di una riduzione graduale e compatibile con gli equilibri di finanza pubblica. Non è questione solo di volontà, ma di compatibilità: ogni intervento fiscale ha effetti strutturali che vanno valutati nel tempo.
Quali sono, realisticamente, le strade per tagliare le tasse senza mettere a rischio i conti?
In sintesi, ci sono quattro opzioni. La prima è redistribuire il carico fiscale: ridurre alcune imposte aumentandone altre. È quanto è stato fatto negli ultimi due anni. La seconda è aumentare il debito, ma questa strada ha limiti precisi, fissati anche a livello europeo. La terza è la più complessa: ridurre la spesa pubblica, in particolare quella improduttiva. È difficile, ma non impossibile. E il governo sta lavorando per rendere più efficace la spending review accentrandone nel Mef il coordinamento. La quarta opzione – e la più auspicabile – è generare più crescita. Solo un’economia che produce di più può consentire e reggere nel tempo una pressione fiscale più leggera.
Lei fa parte anche della Commissione tecnica per la riforma fiscale. A che punto siamo?
Siamo in una fase avanzata. Il processo di riforma ha già prodotto un numero record di decreti legislativi. Tra la fine del 2025 e l’inizio del 2026 arriveremo al completamento del riordino. E per la prima volta doteremo il nostro ordinamento di un Codice unitario della normativa tributaria. Non è un dettaglio: oggi il sistema è frammentato, stratificato, spesso incoerente. Riordinarlo significa rendere il fisco più trasparente, prevedibile e accessibile.
Si discute anche di una flat tax per i neoassunti, con un’aliquota al 5% per i primi anni. Potrebbe essere una svolta?
È una proposta interessante, ma bisogna valutarla nel dettaglio. Esistono già misure di decontribuzione per i nuovi assunti. Per fare un esempio, si possono generare effetti di sostituzione – cioè incentivare un’impresa a licenziare un lavoratore per assumerne un altro con una fiscalità agevolata. Inoltre, ci sono aspetti di compatibilità contabile: la Ragioneria generale dello Stato dovrebbe valutare se la misura genera un minor gettito a fronte delle assunzioni che sarebbero state effettuate comunque anche in assenza dell’incentivo. In sintesi, ogni misura di incentivazione deve essere progettata con attenzione per evitare distorsioni o effetti inattesi e indesiderati.
Come già accennavamo, il successo delle ultime emissioni di Btp indica una rinnovata fiducia dei mercati nel debito italiano.
È così. La domanda ha larghissimamente superato l’offerta, negli ultimi collocamenti. E gli investitori esteri sono tornati ad acquistare. Questo non è solo una soddisfazione, è un segnale forte: indica che il mercato crede nella stabilità economica e politica del nostro Paese. Non è solo una questione di rendimenti: è la combinazione di prudenza fiscale, prospettive di crescita e riforme in corso a rendere l’Italia più affidabile.
In un mondo instabile, possiamo dire che l’Italia è diventata un punto fermo?
Credo si possa affermare con una certa fiducia. L’Italia è tornata al centro dell’interesse anche degli investitori strategici. Il fondo sovrano norvegese ha aumentato del 14% le sue partecipazioni nel nostro Paese. Microsoft investirà 4,3 miliardi nei data center italiani, Silicon Box ha annunciato un investimento da 3 miliardi per l’assemblaggio di semiconduttori, Google ha scelto la Sicilia per la sua nuova infrastruttura sottomarina. Gli Emirati Arabi hanno annunciato investimenti per 40 miliardi. Parliamo di filiere strategiche: intelligenza artificiale, microelettronica, subacqueo, materie prime critiche. Non sono capitali mordi e fuggi, ma progetti con orizzonte lungo. È su questo terreno che si gioca il futuro del Paese.
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