Pur al centro della retorica politica e dei documenti strategici, l’obiettivo del 2% del PIL resta ancora lontano per l’Italia. A fronte di risorse limitate e priorità interne divergenti, Roma continua a rivendicare ambizioni industriali e un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. Un caso emblematico per misurare la distanza tra le narrazioni euro-atlantiche e le capacità reali, proprio mentre l’Alleanza innalza l’asticella della spesa verso il 5%.
Negli ultimi anni la spesa militare italiana è tornata al centro del dibattito strategico nazionale ed europeo. Sebbene il governo abbia ribadito l’intenzione di rafforzare il contributo alla NATO, gli investimenti effettivi restano inferiori agli standard richiesti. Nel frattempo, l’Unione Europea ha lanciato strumenti innovativi, come RearmEU, per promuovere la capacità difensive comuni e rafforzare la base industriale. Serve oggi un confronto tra ambizioni e strumenti reali per valutare quanto Roma sia effettivamente allineata al contesto euro-atlantico e quale margine d’azione le resti per colmare il divario.
L’Italia sotto la soglia NATO del 2%: ostacoli e conseguenze
Nel 2024, secondo i dati ufficiali della NATO, l’Italia ha destinato alla difesa circa l’1,5% del PIL. Un valore che resta al di sotto della soglia del 2%, stabilita al Vertice del Galles del 2014 e consolidata al Vertice di Vilnius del 2023 come livello minimo vincolante per l’Alleanza. La distanza, se rapportata al PIL aggregato degli alleati, è tanto più rilevante se si considera che la spesa complessiva della NATO si avvicina ormai al 3,5%, un livello che non si registrava dagli anni Cinquanta. Inoltre, singoli alleati come la Polonia, Estonia e gli Stati Uniti superano già ampiamente questa soglia, contribuendo ad innalzare significativamente la pressione politica sugli altri membri.
Il problema non è solo quantitativo. La spesa per il personale rappresenta storicamente circa il 60% del bilancio complessivo della Difesa, una quota significativa che pesa sulla capacità di allocare risorse ad altre voci. D’altra parte, la percentuale destinata agli investimenti in equipaggiamenti, tecnologie e modernizzazione supera il 25% se si considerano anche i fondi integrati del Ministero dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture (MiMIT) e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Questo dato, superiore alla soglia minima del 20% raccomandata dalla NATO, riflette un impegno rilevante nella modernizzazione delle Forze Armate. Tuttavia, senza una programmazione pluriennale stabile e integrata, questo equilibrio rischia di essere fragile, limitando la capacità di sostenere missioni ad alta intensità operativa.
Nel frattempo, alcuni partner stanno accelerando la propria trasformazione difensiva. La Polonia ha previsto per il 2025 una spesa pari al 4,7% del PIL, con programmi di riarmo su larga scala e un ruolo crescente nel fianco orientale. Estonia, Lituania e Romania hanno già superato la soglia del 2% e partecipano attivamente alla definizione della postura regionale dell’Alleanza. In questo scenario, l’Italia rischia di trovarsi in posizione marginale, nonostante l’ambizione di svolgere un ruolo centrale nel Mediterraneo e nei Balcani.
Il divario è anche proiettato nel tempo. Per colmare la distanza e contribuire in linea con l’innalzamento degli standard NATO – che punta a una spesa “pura” del 3,5% del PIL in capacità operative – si stima che l’Italia dovrebbe investire oltre 700 miliardi di euro entro il 2035. Una cifra che pone interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine dell’attuale modello.
Il mancato raggiungimento della soglia non è solo un problema di reputazione: comporta una ridotta capacità di incidere sulle decisioni strategiche, una minore credibilità nell’assunzione di responsabilità regionali e una limitata influenza nei meccanismi europei di finanziamento e cooperazione industriale. Senza una svolta strutturale, l’Italia rischia di diventare un alleato importante solo sulla carta, ma sempre meno incisivo nei fatti.
Potenziale industriale e limiti strategici
L’Italia vanta un comparto industriale della difesa tra i più avanzati in Europa. Aziende come Leonardo, Fincantieri, MBDA Italia, Elettronica e Avio Aero partecipano a numerosi progetti europei e internazionali, tra cui il Global Combat Air Programme (GCAP), il drone europeo Eurodrone e il sistema Main Ground Combat System (MGCS). A questi si aggiunge il TWISTER, sistema integrato europeo per la difesa antimissile ad alta quota.
Nonostante questo potenziale, la piena valorizzazione dell’industria resta condizionata da vincoli strutturali. Secondo il Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa 2023-2025, la spesa complessiva dovrebbe ridursi progressivamente fino a toccare l’1,44% del PIL nel 2025, segnalando una traiettoria discendente rispetto agli impegni dichiarati. La discrepanza tra risorse stanziate e proiezioni attese riflette una certa fragilità nella programmazione di lungo termine. Oltre ciò, il documento evidenzia indirettamente alcune criticità: l’assenza di una cornice industriale integrata e la frammentazione dei progetti rendono più complesso il coordinamento tra grandi imprese e PMI. Inoltre, la partecipazione italiana ai programmi europei di ricerca e sviluppo, in particolare nel quadro del Fondo Europeo per la Difesa (EDF), resta ancora inferiore rispetto al potenziale tecnologico e produttivo del paese.
In questo contesto, RearmEU rappresenta un’opportunità rilevante. La proposta, al centro dell’agenda strategica europea, punta a favorire l’interoperabilità, la produzione congiunta e la creazione di capacità duali, offrendo anche flessibilità fiscale agli stati membri per incentivare la spesa militare. Per beneficiarne pienamente, tuttavia, l’Italia dovrà rafforzare la propria capacità di pianificazione e presentare proposte integrate con le priorità dell’UE e della NATO.
Leadership nel Mediterraneo: ambizioni a rischio
L’Italia rivendica da tempo un ruolo di leadership nel Mediterraneo allargato, considerandolo uno spazio strategico prioritario per la propria sicurezza nazionale e per l’influenza geopolitica europea. Questa ambizione si traduce in un impegno operativo concreto in diverse missioni internazionali, che rappresentano la sua principale modalità di proiezione di potenza e stabilità nell’area.
Attualmente, l’Italia partecipa alla missione NATO Sea Guardian, impegnata nella sicurezza marittima e nel contrasto alle attività terroristiche nel Mediterraneo. Partecipa inoltre alla missione europea Irini, dedicata al monitoraggio del rispetto dell’embargo sulle armi verso la Libia, un paese cruciale per la stabilità regionale. Sul fronte africano, Roma contribuisce all’operazione EUMPM Niger, la missione europea di supporto alla polizia nigerina, con l’obiettivo di contrastare il terrorismo e la criminalità nel Sahel, una regione che influenza direttamente la sicurezza mediterranea per via dei flussi migratori e della diffusione di gruppi jihadisti. Questa estensione dell’impegno italiano nel Sahel riflette una visione di sicurezza integrata tra Mediterraneo e Africa subsahariana.
Tuttavia, la capacità delle Forze Armate Italiane di sostenere e tradurre in leadership concreta queste ambizioni è ostacolata da limiti strutturali evidenti. L’Italia dispone di asset tecnologici avanzati come le fregate FREMM, gli aerei da trasporto C-130J e una crescente flotta di droni tattici. Tuttavia, il numero complessivo di asset e personale resta limitato. Le unità impiegate nelle missioni all’estero vengono spesso ruotate ogni pochi mesi, riducendo la continuità operativa e l’esperienza accumulata sul terreno. Inoltre, l’Italia dipende da basi estere in Spagna, Francia e Grecia per il supporto logistico e rifornimenti, una condizione che limita l’autonomia strategica nelle operazioni prolungate.
Un limite cruciale è l’assenza di basi militari italiane avanzate nel Mediterraneo e nel Sahel. Al contrario, la Francia ha consolidato una presenza stabile in Africa occidentali con basi come quella di Gao in Mali – uno dei principali centri dell’operazione Barkhane – e un’importante infrastruttura logistica per proiezione di forza a lungo raggio. Questa differenza si traduce in una maggiore capacità di influenza e intervento da parte di Parigi in aree chiave per la sicurezza europea e mediterranea.
In questo scenario, l’iniziativa europea RearmEU offre strumenti rilevanti per superare alcune di queste criticità, promuovendo investimenti comuni per aumentare la mobilità strategica, sviluppare infrastrutture dual-use (civili e militari) e rafforzare l’autonomia operativa degli stati membri. Tuttavia, senza un impegno politico e finanziario chiaro e stabile da parte dell’Italia, tali opportunità rischiano di restare largamente inespresse, lasciando il paese in una posizione subordinata rispetto ad altri protagonisti europei.
Nel maggio 2025, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato in Senato che l’Italia raggiungerà il 2% del PIL in spesa militare entro la fine dell’anno, facendo leva su un mix di riallocazioni di bilancio, spese classificate in ambito sicurezza e valorizzazioni di fondi già stanziati. L’approccio include il contributo di voci non tradizionalmente considerate militari – come cybersicurezza, Guardia di Finanza e infrastrutture dual-use – che l’Italia intende contabilizzare secondo il principio di sicurezza integrata promosso dalla NATO.
Tuttavia, il raggiungimento del 2% rappresenta solo una condizione minima per restare rilevanti all’interno dell’Alleanza. L’obiettivo reale deve essere quello di colmare il divario tra risorse e capacità, assicurando che la spesa si riduca in strumenti operativi realmente impiegabili. Senza una riforma strutturale della governance della difesa, una programmazione pluriennale vincolante e un coordinamento più efficace tra industria, politica estera e Forze Armate, l’Italia rischia di rimanere un attore a bassa intensità strategica, pur a fronte di investimenti formalmente in crescita.
In sintesi, l’ambizione di esercitare una leadership nel Mediterraneo si scontra ancora con una realtà operativa fragile. Per colmare il divario tra retorica e capacità effettive, Roma deve consolidare la propria postura con risorse coerenti, riforme durature e un chiaro orientamento strategico. Il vertice NATO di Washington e l’avvio operativo di RearmEU saranno i primi veri banchi di prova per misurare se l’Italia saprà tradurre ambizioni in risultati.
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