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L’analisi di Francesco Giorgino: «Una narrazione diversa sul Sud è necessaria: basta con gli stereotipi»


Parafrasando il proverbio di origini bibliche, si può dire che «chi di stereotipi ferisce, di stereotipi perisce». Eh sì, perché di stereotipi negativi si può anche morire. Facilitatori dei processi di significazione della realtà, ma anche gabbie dentro le quali imprigionare il senso delle cose da comunicare, gli stereotipi sono opinioni e giudizi precostituiti e generalizzati. Per decenni se n’è fatto ampio uso nel discorso pubblico sull’Italia e sul Mezzogiorno.

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Tra omissioni e sottovalutazioni, il cambio di narrazione sull’economia italiana e su quella meridionale in particolare fatica a prendere il largo. Non è una novità il gap di rappresentazione tra il valore reale e il valore percepito dalle agenzie di rating, spesso restie a considerare i punti di forza del sistema italiano: stabilità politica, affidabilità creditizia, riduzione dell’evasione fiscale, competitività del settore manifatturiero, attrattività e retention di capitali stranieri (come dimostra il buon lavoro fatto da ABIE, l’Advisor Board degli Investitori Esteri), sostenibilità ed esportazioni. Su quest’ultimo punto peserà certamente l’esito finale della trattativa tra Stati Uniti ed Europa in materia di dazi. Trump ha annunciato ieri pomeriggio dazi al 30% per la Ue e la presidente della Commissione europea Von der Leyen ha annunciato che sono già pronte le contromisure. Auspichiamo un ripensamento da parte americana. Speriamo sia solo tattica negoziale, perché davvero non avrebbe senso una guerra commerciale: oltretutto indebolirebbe l’Occidente. Il Governatore di Bankitalia Fabio Panetta, a fronte del complesso scenario geoeconomico, venerdì aveva chiesto giustamente alla BCE di essere flessibile con i tassi di interesse. Parimenti, non si dimentiche che pesa il costo troppo alto per imprese e famiglie dell’energia e l’impatto negativo della burocrazia. Impatto che induce il Presidente di Confindustria Emanuele Orsini a rinnovare periodicamente l’appello alla semplificazione, considerando la principale connotazione del nostro tessuto produttivo fatto in gran parte di piccole e medie imprese. Lo stesso Orsini evidenzia spesso il rischio che alcune aziende, se costrette ad aumentare i prezzi a causa dei dazi, perdano quote di mercato e che, con la complicità della svalutazione del dollaro, si annullino o si affievoliscano gli effetti positivi prodotti fino ad oggi. Orsini aveva segnalato grossi pericoli con dazi al 10 %, figuriamoci se la percentuale sale al 30%.

Fin qui i fattori esogeni. I segnali che arrivano dall’analisi dei fattori endogeni, specie nelle regioni meridionali, restituiscono invece un dinamismo degno di nota. I tassi di crescita economica ed occupazionale sono superiori alla media nazionale. Il governo Meloni ha creato un ambiente favorevole alle imprese, che non vengono più viste come una criticità, ma come un’opportunità di sviluppo. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla Zes unica, che -come ricordato dalla stessa premier- è diventato il paradigma di un Sud che non chiede assistenzialismo, ma investimenti sulla libertà d’impresa. Il valore comunicativo, anche a livello metodologico, di questa linea di politica economica impartita da Giorgia Meloni è che finalmente si ragiona in termini di interconnessione tra Nord, Centro e Sud e non più di contrapposizione, soprattutto se è vero (come è vero) che il Mezzogiorno può essere un vero volano dell’economia nazionale e una fonte di coesione nazionale.

Secondo il Centro Studi di Confindustria, negli ultimi anni il Pil è cresciuto al Sud più che altrove: 7,1% contro la media italiana del 4,8%. Senza il dato relativo al Mezzogiorno, la media nazionale avrebbe raggiunto al massimo il 4,3%. Tra le regioni del Sud che sono cresciute di più troviamo la Sicilia con un +9,3%, la Puglia con un +7,7% e l’Abruzzo con un +6,8%. Seguono la Sardegna e la Campania. Un dato positivo è anche quello relativo all’implementazione del tasso di occupazione: è stato registrato un +2,2%, mentre la media nazionale è stata pari all’1,5%. Prendendo in riferimento il periodo pre-pandemico, il dato del Sud arriva addirittura al 5,8% contro il 3,6% dell’intero territorio nazionale. Oltre il 40% dei posti di lavoro è stato creato, dunque, nel meridione.

Il Sud ha intrapreso una strada diversa dal passato anche grazie a quegli imprenditori che hanno saputo innovare e fare internazionalizzazione e che hanno dimostrato resilienza e lungimiranza. La sinergia tra pubblico e privato genera vantaggi reciproci, come dimostrano il PNRR e il piano di investimenti pubblici da un lato e la maggiore propensione ad essere competitivi dall’altro. Tra i problemi che vanno risolti per puntare ad un equilibrio duraturo tra Nord e Sud c’è, tuttavia, la questione dell’allineamento dei consumi: questi ultimi non sono simili a causa della permanente differenza di stipendi e salari.

Gli stereotipi negativi che hanno accompagnato la rappresentazione del Mezzogiorno vanno, perciò, accantonati. È uno dei primi passi da compiere per consolidare i punti di forza delle aziende meridionali. Punti di forza che incoraggiano una differente narrazione «sul» Sud e «da parte del» Sud. I primi a crederci, però, devono essere i meridionali, specie quelli appartenenti alle nuove generazioni. Occorre lasciar cadere i luoghi comuni e guardare alla realtà, con pragmatismo e senza pregiudizi.

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Mi è capitato di rileggere qualche giorno fa il discorso che Luigi Sturzo tenne nel 1923 in occasione del quarto anniversario della fondazione del Partito popolare italiano a proposito di quello che egli definiva il programma del «risorgimento meridionale». Il senso di quel discorso era più o meno il seguente: «Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno». Per fortuna qualcuno, grazie anche ad una politica nazionale differente, ha dato seguito al suo monito, mettendo in movimento energie positive e generando nuove consapevolezze e nuove visioni. Per buona pace di chi voleva che il Sud dovesse morire di stereotipi negativi.



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