«A partire dal 1º agosto 2025 applicheremo all’Unione Europea un dazio del 30 % su tutti i prodotti UE inviati negli Stati Uniti… Non vi sarà alcun dazio se l’Unione Europea, o le aziende al suo interno, sceglieranno di costruire o produrre negli Stati Uniti»: con una sola pagina, datata 11 luglio e firmata Donald J. Trump, la disputa commerciale Usa‑Ue ha cambiato categoria. Non è un invito a trattare, ma un vero ultimatum: o il vecchio continente delocalizza Oltreoceano, o pagherà dazio. Letteralmente.
Washington parla da sola.
Nel testo c’è tutto il repertorio trumpiano: il deficit bilaterale trasformato in “minaccia alla sicurezza nazionale”; la promessa di alzare o abbassare i balzelli “a discrezione”; la vecchia idea della “reciprocal tariff”, un algoritmo che pare più slogan che politica, tanto che gli economisti europei lo liquidano come “semplicistico e anacronistico”. Obiettivo vero? Costringere l’industria europea a spostare catene produttive negli Stati Uniti e portarsi a casa un successo da campagna elettorale.
Ventisette voci, un microfono solo.
Ufficialmente negozia Bruxelles, ma dietro le quinte il fronte è tutt’altro che compatto:
- Von der Leyen predica dialogo, prepara il piano B delle contromisure e giura di “evitare una spirale protezionista”;
- Emmanuel Macron scalpita: dazi di ritorsione subito, dice l’Eliseo, spinto da agricoltori e maison del lusso;
- Berlino (ministro Klingbeil) vorrebbe prima capire se si può salvare l’auto tedesca, poi, eventualmente, colpire duro;
- Roma gioca da colomba pragmatica: Giorgia Meloni chiede “niente polarizzazioni” per non bruciare l’asse con Washington, ma sa che il Made in Italy è il bersaglio grosso;
- Madrid, con Pedro Sánchez, vuole evitare lo scontro: giudica i dazi USA ingiustificati e penalizzanti per agro-alimentare e auto spagnoli. Se però Washington non arretrasse, Madrid sosterrebbe contromisure UE “di pari entità”, per difendere occupazione e competitività nazionale;
- i Paesi Bassi appoggiano in blocco Bruxelles: porti e logistica vivono del flusso transatlantico.
Tradotto: falchi (Parigi) e colombe (Roma, Berlino, L’Aia) dovranno trovare una sola linea entro il 1° agosto. Missione non scontata.
Il perché si capisce se guardiamo alla geografia del danno.
I fari si accendono anzitutto sulla Germania: prima esportatrice UE verso gli Stati Uniti, con auto, macchinari e chimica che valgono più di un quarto del suo giro d’affari oltreoceano. Berlino finirebbe quindi in prima linea: molti impianti restano in Europa e non dispongono di linee di montaggio già localizzate negli States.
Subito dietro c’è l’Irlanda, caso‐scuola di dipendenza: quasi un terzo delle sue vendite estere – soprattutto farmaci e dispositivi medicali prodotti da multinazionali americane – attraversa l’Atlantico. Un dazio pieno si tradurrebbe in un colpo diretto al PIL di Dublino.
L’Italia soffrirebbe per ragioni diverse: esporta beni ad alto valore aggiunto (food, moda, meccanica di precisione) ma spesso prodotti in stabilimenti di piccole e medie imprese difficili da trasferire.
Tra gli “insospettabili” spiccano poi Belgio e Danimarca: il primo è hub europeo della farmaceutica (Pfizer, GSK, Janssen) e spedisce negli USA un quarto dei suoi farmaci; il secondo vende insulina, health-tech e componenti eolici, tutti settori con quote di mercato americane a doppia cifra.
Chiude la lista dei sorvegliati speciali l’Olanda, che pur avendo solo il 5 % del proprio export diretto agli USA, vede minacciata la giugulare logistica di Rotterdam e Schiphol da cui transitano re-export high-tech e chimici.
In sintesi, più il portafoglio export dipende dal mercato statunitense e meno produzione è già “insediata” in loco, più alto è il rischio: ed è per questo che le capitali del Nord – dalla “locomotiva” tedesca alla piccola ma iper‐globalizzata Irlanda – oggi premono per un compromesso rapido, mentre Parigi agita la sciabola delle contromisure.
Il conto per l’Italia.
Il ministero dell’Economia ha fatto i calcoli: con un dazio “light” al 10 % sarebbero a rischio 20 miliardi di esportazioni. Se passasse il 30 %, la cifra volerebbe oltre i 60 miliardi.
In altri termini, 0,5 – 0,7 % di Pil bruciato secondo l’Istat e, cosa ancor più sensibile in un anno pre‑elettorale, fino a 200 mila posti di lavoro perduti.
A scontare di più sarebbero agro‑alimentare, moda, farmaceutica e meccanica di precisione: tutte filiere di Pmi non facili da ricollocare in fretta.
Carota o bastone? Il dilemma di Bruxelles.
L’appeasement darebbe respiro all’industria tedesca, ma lascerebbe all’America il coltello dalla parte del manico, col rischio di legittimare il ricatto e fare a pezzi l’Organizzazione mondiale del commercio.
La hard‑line – dazi di ritorsione, ricorso al Wto, magari paletti negli appalti pubblici – restituirebbe simmetria negoziale ma potrebbe innescare una guerra commerciale a colpi di percentuali e tweet, con inflazione importata e occupazione europea in stand‑by.
Per ora la Commissione ha congelato contromisure da 21 miliardi di euro: se non cambierà nulla, scatteranno in automatico dopo il 1° agosto.
Il piano B: guardare altrove.
Mentre si litiga con Washington, Bruxelles potrebbe riallacciare velocemente vecchie e nuove alleanze;
- con l’India l’accordo di libero scambio potrebbe arrivare già a fine 2025, aprendo a un mercato da un miliardo e mezzo di consumatori;
- con l’Indonesia si è chiuso in luglio un accordo politico sulle materie prime critiche;
- il CETA con il Canada, sonnecchiante dal 2017, torna utile per le filiere clean‑tech;
- il Mercosur aspetta solo la ratifica, probabile nel 2026;
- in Africa, focus su Sudafrica e sull’AfCFTA[1] per ridurre la dipendenza da materie prime Usa.
Obiettivo dichiarato: diversificare l’export senza finire nelle braccia di Pechino.
I mercati scommettono sull’Europa delle regole.
La vera sorpresa è nei numeri di Borsa: mentre Wall Street sbatte contro l’incertezza del “Big Beautiful Bill” – la manovra che aggiunge 3,4 trilioni di deficit in dieci anni – lo Stoxx 600 guadagna oltre l’8 % da inizio anno e sovraperforma l’S&P 500[2].
Non solo: i fondi azionari europei hanno raccolto 82,5 miliardi di dollari nel semestre, massimo dal 2017, a fronte di deflussi per 24 miliardi dai fondi Usa.
Perfino lo spread Btp‑Bund è sceso sotto quota 100 punti base, minimo da quindici anni.
Messaggio degli investitori: fra maxi‑debito americano, dazi a sorpresa e tagli Fed all’orizzonte, il vecchio continente delle “regole” risulta, paradossalmente, più prevedibile.
- Morale (per ora).
Se i 27 troveranno una voce sola – combinando fermezza negoziale, contromisure calibrate e un “pivot” verso Asia, Africa e Americhe non Usa – l’Europa potrà ribaltare l’immagine di mercato passivo e imporsi come power‑player globale.
Altrimenti resterà un ricco bersaglio, costretto a subire regole scritte altrove.
Il countdown verso il 1° agosto deciderà se Bruxelles saprà trasformare un ultimatum in leva di potere o se dovrà incassare l’ennesima lezione di realpolitik transatlantica.
[1] Zona di libero scambio continentale africana: accordo in vigore (gen. 2021) tra 54 su 55 Paesi dell’Unione Africana (tutti tranne l’Eritrea) per creare un mercato unico di 1,3 mld di persone e 3,4 tn $ di PIL, con eliminazione progressiva dei dazi sul 90 % delle merci e protocolli comuni su servizi, investimenti e standard doganali.
[2] STOXX 600: indice azionario paneuropeo composto da 600 società a grande, media e piccola capitalizzazione di 17 Paesi dell’Europa occidentale; è ponderato per la capitalizzazione flottante e fornisce un termometro ampio del mercato azionario europeo.
S&P 500: indice di riferimento della borsa statunitense che raggruppa 500 società a larga capitalizzazione quotate su NYSE e Nasdaq; ponderato per la capitalizzazione flottante, copre circa l’80 % del valore totale dell’equity USA.
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