No, non l’Italia è un paese per giovani e non solo per il crollo delle nascite ma anche perché dei pochi ragazzi che abbiamo, i migliori del gruppo se ne sono già andati all’estero e quelli che sono restati non vedono l’ora di farlo quanto prima.
Se si mettono insieme gli ultimi studi sul tema lo scenario che emerge è, infatti, impietoso. Aveva iniziato l’Istat con il suo ultimo rapporto nazionale (2024) a tracciare un quadro sconfortante: nel solo 2023 oltre 21.000 giovani laureati tra i 25 e i 34 anni hanno lasciato il Paese, con un aumento del 21,2% rispetto all’anno precedente. I rimpatri, invece, sono stati circa 6.000, segnando un saldo negativo netto di 16.000 unità qualificate. Se poi allarghiamo lo sguardo a un orizzonte decennale scopriamo che dal 2013 al 2022, oltre 132.000 laureati hanno trasferito la residenza all’estero, contro soli 45.000 rientri: una perdita secca di 87.000 menti formate nel nostro sistema universitario.
Allargando ulteriormente l’analisi oltre lo stretto ambito di chi ha completato l’istruzione universitaria si scopre (dati 2024 forniti dalla fondazione Nord Est) che tra il 2011 e il 2023 sono stati circa 550.000 i giovani italiani (tra i 18 e i 34 anni) che hanno lasciato il Paese. Il saldo netto – tenendo conto dei pochi rientri – si attesta intorno a 377.000 giovani persi definitivamente.
La Fondazione Nord Est, però si è spinta anche oltre, quantificando il danno economico in termini di capitale umano qualificato e la cifra fa impallidire: 134 miliardi di euro, corrispondenti a una media di oltre 8 miliardi l’anno solo negli ultimi due anni. Un esborso che include il costo dell’istruzione, della sanità, dei sussidi e del mancato contributo fiscale di questi giovani una volta espatriati. E si tratta quasi sempre dei migliori tra i nostri talenti giovanili, tanto è vero che la quota di laureati tra i giovani emigrati è salita dal 17,4% del 2011 al 43,1% nel 2022.
Non bastassero tutte queste cifre, a rendere ancora più inquietante il tutto è arrivata un’indagine dell’istituto Ipsos, realizzata su un campione di 800 giovani tra i 18 e i 30 anni, da cui risulta che uno di loro su tre (il 35%) è disposto a cercare lavoro all’estero, se poi si allarga lo spettro anche alle occasioni di studio e formazione passiamo a due giovani su tre, il 61% del campione, infatti, ha detto che sarebbe pronto a fare le valigie di fronte a un’opportunità concreta.
Se questo, dunque, è lo scenario, l’unica conclusione che possiamo trarre è che l’Italia sta pagando un prezzo altissimo all’incapacità di valorizzare i suoi giovani. In un paese che invecchia a un ritmo molto più alto di tutti gli altri dell’Unione Europea perdere la fetta migliore della sempre più ridotta gioventù nazionale è una forma di suicidio collettivo. Sì, perché, come si capisce da tutte queste indagini, la fuga dei talenti non è una scelta individuale, ma un sintomo profondo di un Paese che non sa più offrire speranza ai suoi figli migliori.
Invertire questa tendenza richiede, però, coraggio politico, riforme strutturali e visione di lungo periodo. Guarda caso proprio le stesse condizioni che, continuo testardamente a ribadire da mesi, servirebbero per realizzare qualsiasi ipotesi di riforma e rilancio della Pubblica Amministrazione.
Non credo sia un caso che la perdita d’interesse dei giovani italiani per le prospettive lavorative nazionali sia cresciuta di pari passo con l’appannamento dell’immagine e la scarsa attrattività che il lavoro pubblico, dall’Insegnante al medico, dal poliziotto all’impiegato, ha ormai per la maggioranza degli italiani.
Una volta il posto pubblico, o se vogliamo essere un po’ veniali “il posto fisso”, era un’aspirazione sia per i ragazzi che per i loro genitori. Non né più così e le ragioni sono sovrapponibili a quelle che gli esperti che hanno redatto tutte queste indagini, mettono alla base della voglia di fuga all’estero dei giovani. In sintesi, i ragazzi italiani di oggi pensano che all’estero potrebbero ottenere stipendi più alti, contratti meno precari, migliori opportunità di carriera e percorsi di crescita più chiari, maggior riconoscimento delle proprie competenze e avanzamenti basati su risultati, non su conoscenze personali. E queste sono solo le motivazioni economiche.
I giovani, però, cercano anche altro e sono convinti che all’estero potrebbero trovare anche: ambienti di lavoro più dinamici e innovativi, con maggiore apertura al cambiamento e all’iniziativa personale; strutture che godono dei maggiori investimenti in ricerca e sviluppo; una formazione continua; oltre che minore burocrazia e più digitalizzazione .
Tutte queste, però, sono anche le motivazioni che gli istituti demoscopici si sono sentiti dire quando hanno indagato in questi anni sul perché il posto pubblico non risulta più attraente come in passato. E queste considerazioni mi portano a chiedere a quanti oggi s’interrogano sulle strategie per frenare la fuga dei cervelli e riportare in patria la meglio gioventù, se fra le ipotesi da prendere in esame non ci sia anche una seria e profonda riforma della Pubblica Amministrazione.
Non è una boutade, io sono veramente convinto che una profonda trasformazione delle amministrazioni pubbliche possa essere uno degli strumenti per far apprezzare di più ai giovani le opportunità che l’Italia può offrire. Faccio un solo esempio: come mai i concorsi per l’Agenzia delle Entrate non vanno deserti? Certo, tra le motivazioni ci sono, sicuramente, gli stipendi più altri, ma c’è anche una dinamica diversa del lavoro e delle progressioni di carriera, strumenti tecnologici più avanzati, maggiore formazione e potrei continuare.
Lo Stato, quindi, quando si è focalizzato sul recupero delle risorse fiscali, tanto per dirla tutta, sul far pagare le tasse (obiettivo giustamente fondamentale) ha investito non solo economicamente ma anche in progettualità e la conseguenza è che in strutture del genere i giovani vogliono andare a lavorare. Perché allora su sanità, sicurezza, giustizia e su tutte le altre funzioni vitali dello Stato non si fa lo stesso? Uno stato efficiente e moderno non respinge, ma attira.
Questa, ne sono convinto, è la strada giusta se vogliamo interrompere l’esodo dei giovani, anche perché l’altra via, quella degli incentivi fiscali che avrebbero dovuto far rientrare i “cervelli”, l’abbiamo imboccata già dal 2012, ma come si è visto è servita a poco. Anzi a nulla.
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