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Il paradosso delle pmi: sottovalutate a Piazza Affari ma premiate da private equity e investitori. Lo studio di Electa Group




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Ultim’ora news 12 luglio ore 14


Che Piazza Affari valorizzi poco le aziende quotate di piccole e medie dimensioni non è una novità. Ma vedere così chiaramente, mettendo in fila i numeri delle società, quanto valore intrinseco c’è apre alcuni interrogativi.

Non solo al fatto che una borsa così piccola deve trovare nuovi equilibri, ma anche al fatto che vada immaginato qualcosa di diverso e «disruptive» rispetto alle soluzioni studiate sinora per attrarre investitori sulle small e mid cap, compreso l’ultimo progetto nato, cioè quello del Fondo di Fondi governativo, per quanto benvenuto e assolutamente positivo per il mercato.

Forse ci vuole più private investment in public equity (Pipe), così come lo chiamano gli anglosassoni, cioè investimenti in società quotate che vengano condotti con una logica di private equity. Sembra un paradosso, ma nella realtà c’è chi lavora in questo modo da anni anche in Italia con risultati molto interessanti.

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Valutazioni e arbitraggi evidenti

Un caso emblematico è l’opa annunciata da Banca CF+ su Banca Sistema, con parte del corrispettivo rappresentato da azioni di Kruso Kapital. Al momento dell’annuncio (30 giugno), Kruso scambiava a un multiplo P/E di circa 6,6 volte, mentre la valutazione implicita dell’offerta si attestava appena sopra il prezzo di mercato (1,95 euro per azione). In confronto, operazioni recenti sul credito su pegno in Uk e Usa, come l’acquisizione di H&T Group da parte di FirstCash, si sono concluse a multipli ben superiori, fino a 12 volte, con premi del 70-80% sulle medie ponderate di borsa.

Ma queste enormi differenze non si vedono soltanto facendo un raffronto con titoli quotati su borse diverse da quella italiana. La differenza, a scapito delle quotate italiane, c’è anche quando le operazioni avvengono fuori dalla borsa, quando gli acquirenti sono investitori di private equity e ancora di più quando sono soggetti industriali.

Uno studio condotto da Electa Group (gruppo Azimut) evidenzia come attualmente le pmi di molti settori trainanti e solidi siano quotate a meno di 6 volte l’ebitda, contro una media di 8-10 volte per le non quotate degli stessi settori e dimensioni acquistate da fondi di private equity. E addirittura le oltre 12 volte per le operazioni condotte da investitori strategici industriali, come emerge anche dal database di BeBeez. A parità di fondamentali, il listino italiano penalizza quindi sistematicamente le imprese, sia in termini di pricing che di liquidità.La differenza tra valutazioni di mercato e private deals non si limita al tipico «premio di controllo».

Secondo Simone Strocchi, fondatore di Electa Group, «si tratta di una vera e propria catena alimentare dove la borsa rappresenta l’anello debole, spesso vivaio di caccia di take-private. Il fondo acquisisce il flottante dell’azienda, spesso in opa lanciate in accordo con l’imprenditore, con l’obiettivo di valorizzarla fuori mercato e successivamente rivenderla a un multiplo ben superiore». Il fenomeno è amplificato dalla leva finanziaria, che consente ritorni doppi o tripli sul capitale investito.

Strocchi porta due esempi di società quotate che a suo tempo aveva contribuito a portare a Piazza Affari a seguito di operazioni con veicoli strutturati da Electa: Sesa e Italian Wine Brands. La prima, attiva nel settore software & Ict, è quotata sul segmento Star con multipli inferiori a 5 volte l’ebitda, mentre asset comparabili in portafogli di fondi private equity internazionali superano le 10 volte. Engineering, valutata nel 2020 da Bain Capital tra 9,5 e 10 volte l’ebitda del 2019, è un precedente eloquente. Anche Lutech, ceduta nel 2021 ad Apax Partners per oltre 11 volte l’ebitda, potrebbe oggi valere 1,4 miliardi se si applicasse un multiplo simile agli ultimi dati disponibili.

«Lo stesso discorso vale per Italian Wine Brands, scambiata in borsa a circa 5,5 volte», sottolinea Strocchi, che si confrontano con un multiplo di 14,5 volte sulla base del quale nel 2020 Fantini Group (ex Farnese Vini) era passato sotto il controllo di Platinum Equity; ma anche Argea, la piattaforma di aggregazione di vino costruita da Clessidra Private Equity partendo dall’integrazione di Botter e Mondovino viaggia oggi su valutazioni attorno alle 10 volte. Le pmi quotate, quindi, seppur con fondamentali solidi, risultano sistematicamente scontate rispetto ai benchmark internazionali e ai prezzi che il mercato privato è disposto a riconoscere.

Fattori strutturali

Alla base della scarsa attrattività vi è anche un problema di liquidità e scalabilità. I fondi Ucits che sono i principali connettori di risparmio retail indirizzato sui listini di borsa e sono di grandi dimensioni e condizionati da regole di compliance orientate a ricerca di liquidità giornaliera raramente investono in società con capitalizzazione inferiore al miliardo, anche per questioni di flottante. «Se una società capitalizza 300 milioni con 100 di flottante, anche un investimento da 10-15 milioni può alterare significativamente il prezzo, compromettendo la possibilità di un’uscita efficiente.

Questo disincentiva l’ingresso di investitori istituzionali, contribuendo all’effetto trappola di illiquidità che blocca la rivalutazione», dice ancora Strocchi, che aggiunge: «Di fronte a questa distorsione sistemica, i fondi di private equity hanno buon gioco nel proporre delisting, spesso con premi apparentemente generosi, ma in realtà modesti rispetto al valore potenziale dell’azienda. E una volta cresciuta e valorizzata fuori listino, la società viene rivenduta, spesso a player esteri, chiudendo il ciclo. Con un paradosso finale: i compratori finali sono talvolta grandi gruppi esteri quotati finanziati dagli stessi risparmiatori italiani, attraverso i fondi Ucits che investono nei mercati internazionali, più efficienti e attraenti delle nostre pmi quotate».

 

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Pipe come possibile alternativa

Per interrompere questo circolo vizioso servono meccanismi che permettano agli azionisti di riferimento di non cedere prematuramente il controllo. Ed è qui che il modello Pipe può giocare un ruolo strategico, soprattutto se realizzato da operatori specializzati, in grado di coniugare logiche di private equity e visione industriale.

Tamburi Investment Partners è stato il pioniere in Italia, attraverso club deal diretti su società quotate o holding di controllo. Anche Azimut, con Electa, opera con logiche simili con la successione di fondi Ipo Club e anche con operazioni che la stessa Timone Fiduciaria, holding dei soci Azimut, ha sostenuto sullo stesso titolo Azimut. Lavorano su modelli misti Pipe/Pe, ancorché su scala inferiore, anche First Capital, Smart Capital e Abc Company, così come strutture non quotate come Hoop Club.

L’auspicio è che altri asset manager alternativi colgano l’opportunità di affiancare a strategie tradizionali una nuova linea di business focalizzata su investimenti Pipe strutturati. Potrebbe essere la chiave per ridare efficienza al mercato dei capitali italiano e valorizzare le pmi laddove ancora oggi restano sistematicamente sottovalutate. (riproduzione riservata)



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