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Dazi, il conto (salato) per il Made in Italy. A rischio 35 miliardi di export


di
Mario Sensini

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Il 43% dei prodotti venduti oltreoceano sono di alta qualità, difficilmente sostituibili. Il parmigiano reggiano arriverà a costare 50 dollari al chilo

ROMA – C’è chi già la definisce una stangata, chi parla di un colpo mortale, di un ko tecnico, di un atto di guerra, e altri che al momento vedono solo una seria minaccia, se non una pura provocazione negoziale. L’incertezza sull’esito della trattativa con gli Stati Uniti è ancora altissima, ma ad ogni buon conto, ieri, tutti i 44 mila imprenditori italiani che esportano le loro merci negli Stati Uniti, insieme a molti altri, hanno tirato fuori la calcolatrice e si sono messi a fare i conti con i dazi di Trump al 30%. E tutti quelli che hanno potuto si sono affrettati a concludere gli ultimi contratti con gli importatori americani prima che scatti una nuova tagliola. Nei mesi scorsi, nonostante il dollaro sempre più debole, l’aumento dei dazi e proprio per il timore di nuovi inasprimenti, il commercio tra Italia e Stati Uniti ha fatto segnare numeri record.
Per ora affari d’oro.

Il surplus commerciale

Solo a maggio l’Italia ha registrato un surplus commerciale di 3,1 miliardi, che nei primi cinque mesi dell’anno fanno un totale di 17,4: in pratica il 90% di tutto l’attivo commerciale italiano tra gennaio e maggio, 18,8 miliardi, è maturato grazie all’interscambio con gli Stati Uniti, dove le nostre esportazioni sono cresciute del 7,2% rispetto all’anno scorso. Con punte ancora più elevate per i farmaci, gli alimentari e le bevande, non a caso proprio quei prodotti sui quali Donald Trump ha minacciato più volte di voler imporre tariffe doganali specifiche particolarmente elevate (il 17% per i prodotti agroalimentari, fino al 200% per i farmaci). La paura di tutti, però, è che questi siano gli ultimi fuochi, che il negoziato volga al peggio. E così vale la pena fare due conti.
Chi rischia di più




















































A rischio l’export

Gli artigiani di Mestre, che hanno un ufficio studi molto efficiente, hanno calcolato ieri sui due piedi che i dazi Usa al 30% potrebbero ridurre l’export italiano di 35 miliardi (nel 2024 è stato pari a 623 miliardi). I settori più colpiti da questo livello di tariffe (ma non è chiaro se ad esempio valgano per alluminio e acciaio, per i quali oggi vige un dazio più elevato, del 50%), sarebbero la farmaceutica, la produzione di autoveicoli e dei loro componenti, quella di navi e barche, dei macchinari, dei prodotti petroliferi raffinati, il vino, l’abbigliamento, l’occhialeria, la gioielleria, l’arredamento, l’alimentare. Ci sono poi delle aree geografiche del nostro Paese che sono più esposte a una guerra commerciale con gli Usa, proprio perché una quota importante delle loro esportazioni finisce lì, e magari la produzione regionale non è troppo diversificata. Sardegna e Sicilia, che hanno una forte dipendenza dall’export di prodotti petroliferi raffinati, e il Molise, un po’ sbilanciato sull’industria automobilistica e l’alimentare, sono tra quelle che potenzialmente rischiano di più.
Meno crescita per tutti

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La svalutazione del dollaro

Con i dazi al 10% sommati alla svalutazione del dollaro, che pesa un altro 12-13%, la Confindustria poche settimane fa stimava una flessione delle esportazioni negli Usa di 20 miliardi e di altri 40 col resto del mondo, con un calo del prodotto interno lordo di quasi 0,3 punti nel ’25 e 0,5 nel ’26, con un effetto negativo sugli investimenti e ancora di più sull’occupazione. La Banca d’Italia non è meno pessimista. Proprio venerdì il governatore Fabio Panetta ipotizzava, senza ancora immaginare il contenuto della lettera arrivata ieri a Bruxelles da Washington, un calo di mezzo punto percentuale della crescita nell’area dell’euro, già bassa, tra qui e il 2027.
Italian taste

Esportazioni di qualità, cala il rischio

Alcuni sperano che il Made in Italy, o almeno una sua buona parte, possa anche resistere ai dazi americani. Secondo la stessa Banca d’Italia il 43% delle esportazioni italiane negli Stati Uniti riguarda prodotti di alta qualità, che sarebbero teoricamente difficili da sostituire, come l’abbigliamento, il lusso, gli alimentari.

Il caso parmigiano

Il parmigiano reggiano è tipicamente uno di questi prodotti, e i produttori italiani già scontavano negli Usa un superdazio del 15%, oggi arrivato al 25%. Salisse al 30%, per come funzionano le pratiche commerciali, il costo per i consumatori americani salirebbe da 40 a 50 euro al chilo. Da proibitivo a impossibile: «un atto di guerra», denunciano i produttori.

La preoccupazione dei produttori di vino

La Coldiretti stimava ieri che le tariffe commerciali minacciate da Trump possano ridurre l’export di prodotti alimentari italiani negli Usa, che l’anno scorso ha toccato una cifra record di 7,8 miliardi di euro e sta crescendo ancora di più quest’anno, di 2,3 miliardi di euro. E particolarmente preoccupati sono i produttori di vino, come gli imprenditori del settore del legno, dell’arredamento e della moda.
Ritorsione

Un altro grosso rischio, in ogni caso, che pesa questa volta su tutto il sistema produttivo italiano, è quello delle possibili contromisure europee, se le cose andassero proprio male. Non è un caso che la Confindustria, più che ritorsioni, suggerisca compensazioni. Anche Bankitalia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio pensano che un aumento delle tariffe Ue sulle importazioni Usa, portando inflazione, possa fare più danni che altro, e dello stesso avviso è il governo italiano.
Semplificazione

Spinta alla competitività

Meglio allora spingere la Ue a favorire la competitività, incentivare la politica industriale e soprattutto a semplificare, sfrondando i suoi regolamenti asfissianti. Che poi alla fine sono le stesse barriere «non tariffarie» al commercio di cui si lamenta Trump. Ma che in fondo sono le stesse che fanno male anche a molte imprese europee. Tema di cui, non a caso, hanno parlato a lungo ieri l’altro la premier Giorgia Meloni e il commissario agli affari economici della Ue, Valdis Dombrovskis.

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