Il Rapporto annuale Istat mostra da quanto lontano proviene la stagnazione economica italiana, col concorso della demografia. La politica vive su orizzonti temporali troppo brevi per dare risposte diverse dagli slogan
Il Rapporto annuale Istat, presentato ieri, è tutto da leggere ed è certamente una lettura molto interessante. In esso vengono evidenziate alcune dinamiche del mercato del lavoro e demografiche che offrono spunti di riflessione. Ne ho identificate alcune ma, proprio perché il documento è denso di temi, non ho pretesa di esaustività e quindi raccomando la lettura integrale per comprendere chi siamo, da dove proveniamo e dove stiamo andando.
Ad esempio, allungando a ritroso l’orizzonte per racchiudere l’ultimo quarto di secolo, Istat osserva:
Tra il 2000 e il 2024 il numero degli occupati è aumentato del 16 per cento, in linea con Francia e Germania. Tuttavia, questa crescita è stata sostenuta soprattutto dalle attività dei servizi a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro, e non compensata dall’espansione delle attività a produttività elevata. Come conseguenza, il Pil per occupato in Italia si è ridotto del 5,8 per cento (mentre in Francia, Germania e Spagna è cresciuto di circa l’11-12 per cento) e il Pil per ora lavorata è aumentato di appena lo 0,7 per cento, condizionando negativamente la dinamica salariale.
Non è stato l’euro
Segnatevi questo concetto. Un paese a basso contenuto tecnologico è un paese che non cresce e si impoverisce. Poi, è sempre possibile incolpare l’entrata nell’euro ma forse sarebbe meglio prendere atto che siamo arrivati a questo appuntamento con un tessuto economico arretrato rispetto ai paesi europei con cui dovremmo confrontarci.
Il problema è che queste condizioni non cambiano in una notte di luna piena, semmai si accentuano. Soprattutto in presenza di flussi emigratori che sono effetto dell’insufficiente sviluppo del reddito e che a loro volta contribuiscono a frenarlo. Nel corso dello stesso ampio periodo, segnala Istat,
L’occupazione in professioni qualificate è passata da un quarto a un terzo del totale. Si tratta di un progresso notevole (+45 per cento in termini di occupati) e più accentuato per i giovani, ma inferiore rispetto alle altre maggiori economie Ue.
Si è spesso detto che l’affanno italiano ha una rilevante concausa nella scarsa dotazione tecnologica media delle sue imprese. A questo riguardo,
Negli anni più recenti sono aumentati gli occupati in professioni ICT: dal 3,5 per cento del totale nel 2019 al 4,1 per cento nel 2023. Tali professioni sono considerate strategiche per la competitività e l’innovazione del sistema produttivo. In Germania, il paese con l’incidenza più elevata, nello stesso periodo sono salite dal 4,0 al 4,9 per cento.
Quindi, il progresso c’è stato ma, comparativamente agli altri paesi, il gap resta. Arriviamo a oggi, guardiamo quello che è accaduto lo scorso anno. Segnalo questa osservazione: nel 2024
La produttività del lavoro per occupato si è ridotta: dello 0,9 per cento, e dell’1,4 per cento per ora lavorata, come risultato dell’espansione dell’occupazione maggiore rispetto a quella del valore aggiunto.
Questa è lapidaria, e c’è poco da aggiungere. Un singolo anno non fa tendenza ma una somma di anni sì e temo che, di dati del genere, questo paese continui a collezionarne. In altri termini, siamo su una traiettoria di impoverimento. Ma, a questo riguardo, occorre distinguere tra condizioni degli individui e delle famiglie.
Redditi familiari e riduzione del danno
Nel 2024 il reddito reale da lavoro per occupato è più elevato rispetto al 2014, l’anno di minimo dopo la Grande recessione degli anni precedenti, ma più basso del 7,3 per cento rispetto al 2004 (-5,8 per cento per i dipendenti), per la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione, con riduzioni in tutte le classi d’età. […]
Per le retribuzioni lorde di fatto per dipendente stimate dalla Contabilità nazionale, che includono gli effetti degli accordi decentrati e dei cambiamenti nella composizione dell’occupazione, dal 2019 al 2024 la perdita di potere di acquisto è stata più contenuta e pari al 4,4 per cento in Italia, al 2,6 per cento in Francia e all’1,3 per cento in Germania, mentre in Spagna si registra un guadagno del 3,9 per cento.
Questo è il prodotto di quello che si diceva sopra, cioè di un’economia bloccata su attività a basso valore aggiunto, che a loro volta causano impoverimento di lungo termine. La reazione adattiva a questa situazione la si legge nel dato relativo ai redditi familiari:
Nella prospettiva familiare, i cambiamenti demografici (in particolare, la riduzione della quota di famiglie con figli) e l’aumento dei tassi di occupazione e della diffusione della proprietà della casa di abitazione (dal 71 al 76 per cento delle persone) hanno permesso di compensare pienamente la riduzione dei redditi individuali (da lavoro e non), con una crescita del 6,3 per cento del reddito familiare equivalente (reddito familiare netto corretto per il numero di componenti) in termini reali.
Quindi, per semplificare: la reazione “difensiva” e necessaria all’impoverimento dei redditi individuali è stata la ricomposizione delle famiglie, dove all’aumento della quota di secondi percettori di reddito (ancora largamente insufficiente nella componente femminile) si contrappone il “sacrificio” della riduzione del numero di figli o della loro mancanza. Anche per assenza di un welfare orientato alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. I redditi familiari hanno sofferto meno di quelli individuali, puntellati anche dalle “economie di scala” della convivenza.
I figli sono stati il “costo” tagliato, un po’ come accade nelle aziende o negli stati in difficoltà, quando si tagliano gli investimenti ponendo le basi per l’impoverimento, che viene solo rimandato. E scusate la brutalità del paragone. Spesso (vedi casa di abitazione) si è attinto al welfare familiare, cioè ai soldi di mamma e papà, almeno chi ne ha avuto la possibilità. È il Grande Decumulo, l’integrazione di redditi in decrescita secolare con il patrimonio familiare accumulato in generazioni.
Quello che dovrebbe essere chiaro, dai pochi ma pesanti punti evidenziati, è che le tendenze economiche e demografiche evolvono lentamente, con grande inerzia. Un’inerzia che schiaccia le polemiche politiche di legislatura e i tentativi piuttosto patetici di invertire tendenze strutturali mediante pannicelli caldi ma spesso molto costosi e pregiudizievoli del futuro, come i vari bonus bebè, i tentativi di “aumentare gli stipendi” con decontribuzioni e defiscalizzazioni a carico della fiscalità generale, oppure credendo che il salario minimo, che magari finisce applicato su un numero ridotto di ore lavorate, sia il proiettile d’argento. Non lo è, non lo sono.
Aziende invecchiate
E anche perdere giovani, che portano fuori confine le loro competenze e la loro acutezza mentale, crea circoli viziosi che si autoalimentano. Leggete questa sequenza e deprimetevi:
- Tra il 2011 e il 2022 è quasi raddoppiata l’incidenza dei lavoratori di 55 anni e più in rapporto a quelli con meno di 35 anni, da uno su due (il 53 per cento per il complesso degli addetti, il 29 per cento per i soli dipendenti) a un rapporto quasi paritario (il 98,6 per cento, e il 65,5 per cento per i soli dipendenti).
- L’età degli imprenditori è spesso associata a quella dei dipendenti: nelle imprese con imprenditori di 65 anni e oltre i dipendenti di almeno 55 anni si equivalgono con quelli di meno di 35 anni, mentre in quelle con imprenditori fino ai 45 anni il rapporto scende sotto il 40 per cento.
- Le imprese a rischio di mancato ricambio generazionale (dove il rapporto tra addetti over 55 e under 35 è superiore a 1,5) sono il 30,2 per cento. Tuttavia, questa condizione di criticità è fortemente concentrata nelle imprese con meno di tre addetti (caratteristiche di molte attività dei servizi e in cui l’occupazione coincide in gran parte con l’autoimpiego), dove tocca il 35,1 per cento delle unità economiche, scendendo al 17,4 per cento in quelle tra 3 e 9 addetti, al 3,7 per cento nelle piccole imprese tra 10 e 49 addetti, e ad appena lo 0,8 per cento in quelle di medie e grandi dimensioni.
- Le imprese giovani assumono più giovani, soprattutto nelle attività intense in conoscenza: nel 2022 gli occupati sotto i 35 anni di età – in media pari al 24 per cento del totale – raggiungevano il 36 per cento nelle imprese di meno di 5 anni e fino a quasi il 40 per cento nelle attività dei servizi ad alta tecnologia. In queste ultime, gli imprenditori sotto i 35 anni rappresentano il 26,6 per cento, rispetto all’11,8 per cento in totale.
- Il capitale umano giovane risulta un fattore chiave per la digitalizzazione e la crescita: l’aumento di un punto nella quota di giovani (sotto i 35 anni) sul totale degli addetti laureati ha migliorato di oltre un punto percentuale la probabilità di successo nell’adozione delle tecnologie prima della crisi pandemica e il livello dell’occupazione e del fatturato nel periodo 2018-2022.
Mi auguro che nessuno si stupisca, per queste “banalità”: talmente evidenti che magari sfuggono a molti di noi e ai nostri eletti, durante convegni e comparsate televisive. Questi punti spiegano l’inerzia maligna della decrescita demografica. Tentare di invertirla è cosa che eccede grandemente l’orizzonte temporale della politica. Soprattutto in un paese che per decenni ha fatto della “scorciatoia” un culto quasi religioso. E oggi viene seguito su questa strada da molti altri, nell’era delle soluzioni semplici a problemi complessi.
P.S. Visto che stiamo parlando di quotidianità e slogan, il rapporto evidenzia che nel 2024 il numero dei dipendenti a tempo indeterminato (67,2 per cento del totale) aumenta del 3,3 per cento, mentre il numero dei dipendenti a tempo determinato (11,6 per cento del totale) cala del 6,8 per cento. Nel 2024, l’82,9 per cento degli occupati lavora a tempo pieno (+0,9 punti rispetto al 2023). Il lavoro a tempo parziale interessa il 17,1 per cento del totale (-0,9 punti). Infine, i lavoratori “standard” (cioè dipendenti a tempo indeterminato e pieno) nel 2024 sono il 63 per cento (+2,1 punti sul 2023, +4,8 per cento sul 2019). C’è cioè un miglioramento. Qualcosa per cui esaltarsi? No. Dati che suffragano gli slogan referendari sull’esplosione della precarietà? Neppure.
(Immagine creata con WordPress AI)
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