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La pensione ce la pagherà l’AI, gemello digitale che lavora per noi


In una recente trasmissione televisiva di RAI1 (Codice, puntata del 4/07/25) la direttrice generale dell’INPS, Valeria Vittimberga, ha illustrato alcune ipotesi avveniristiche sulla previdenza sociale. In sintesi: a rimpolpare i flussi contributivi ci penserà un esercito crescente di gemelli digitali che proseguiranno il nostro lavoro quando andremo in quiescenza.

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Il gemello digitale come estensione lavorativa

In effetti la contribuzione calcolata sul totale delle retribuzioni è destinata a ridursi in ragione della minore popolazione attiva, mentre quella inattiva, a cui va pagata la pensione, è in costante crescita. Tra non molto, infatti, saranno andati in pensione tutti i babyboomer – i nati tra il 1945 e il 1964 – e li vi resteranno per una media stimata intorno ai 24 anni e più. L’idea, solo abbozzata e non del tutto nuova, è che si debba versare all’INPS anche una porzione del Valore Aggiunto frutto delle nuove tecnologie. Il presupposto è che in un futuro non lontano la nostra carriera lavorativa sarà accompagnata, di passo in passo, da un avatar.

Grazie all’AI generativa, nonché di quella agentiva, capace di eseguire compiti in vista di uno scopo, il nostro gemello digitale imparerà con noi i compiti specifici della nostra professione, o della nostra mansione, facendo tesoro delle nostre esperienze, magari suggerendoci gli errori da non ripetere, o le correzioni da apportare, aumentando così la nostra efficienza. Come sostenuto dal premio Nobel per l’economia Michael Spence (Sole 24 Ore del 5/7/25), sarà proprio da questa collaborazione uomo-macchina che potranno venire importanti miglioramenti.

Anche se non si può escludere, aggiunge Spence, che “i benefici legati alla produttività siano accompagnati da un impatto distributivo negativo”. Lo vedremo più avanti. Tornando all’interessante ipotesi avanzata dalla direttrice dell’INPS è opportuno svolgere qualche considerazione preliminare.

Proprietà e utilità del gemello digitale

Innanzitutto, parlando di gemello digitale è utile distinguere il contenitore tecnologico dal contenuto che ci possiamo aggiungere. Oggi l’AI è proposta in Open Source, ma non è detto che sarà sempre gratuita. In ogni caso il contenitore tecnologico si compone di un accesso alla rete, un software di base e un hardware. È probabile che potremo acquistarne il diritto all’uso, ma senza diventarne completamente proprietari, quindi senza poter esercitare un diritto di privativa. Si dirà che questo sarà possibile solo per il contenuto, ovvero per ciò che vi metteremo dentro (formazione, condivisione di esperienze, ecc.).

Tuttavia, qualora fossimo lavoratori dipendenti, il gemello digitale da noi sviluppato durante l’orario di lavoro sarà parte di ciò per cui siamo retribuiti. Soprattutto se sarà l’azienda ad essere proprietaria del contenitore tecnologico. Quindi, i benefici della sua utilità ripetuta spetteranno all’azienda per cui lavoreremo. Fin qui per quanto riguarda il lavoro di concetto, ma c’è anche quello fisico: prendere, sollevare, spostare, manipolare.

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Mettiamo che il nostro gemello digitale sia caricato su un umanoide; un contenitore che per l’alto costo non potrà che essere dell’azienda. Esso mi segue, impara da me e mi aiuta, sostituendomi nei compiti più pesanti, o quando vado in vacanza. Poi arriva la pensione, come immagina la direttrice dell’INPS; l’umanoide continua a trasferire la sua utilità ripetuta all’azienda, che però non sopporta più il costo del lavoratore. Proprio per questo si forma un maggior valore aggiunto. Per inciso, ha il sapore del plusvalore di marxiana memoria.

Contributi futuri e valore aggiunto

Ovviamente si potrà misurare solo quello complessivo dell’intera azienda, non quello del singolo umanoide, e qui l’ipotesi è sibillina: vuol dire che s’immagina un prelievo calcolato sul Valore Aggiunto prodotto dalle imprese, a favore dell’INPS, in aggiunta alla contribuzione calcolata sulle retribuzioni.

Un’idea, per altro, affatto nuova perché c’è chi fece una proposta simile già negli anni Ottanta. Dietro a una giustificazione tecnologica, non priva di fondamento, si nasconde il tentativo di risolvere il problema di fondo della ripartizione, per cui le pensioni di un periodo vengono pagate grazie ai contributi del medesimo periodo (pay-as-you-go). Nell’alternarsi e sovrapporsi delle generazioni, da quelle attive a quelle inattive, infatti, come si spiega in tutti i manuali, si parte con una di lavoratori che vanno in quiescenza, percependo la pensione senza avere versato contributi, e si arriva alla fine con una generazione di lavoratori che paga i contributi senza avere chi finanzierà la loro pensione. Giusto in tal momento servirebbe l’intervento di un fondo aggiuntivo, magari alimentato dal Valore Aggiunto.

In realtà, tale fondo, se ci fosse, entrerebbe in funzione molto prima, ovvero non appena i contributi dei pochi attivi risultassero insufficienti a pagare le pensioni dei tanti in quiescenza. Quindi, tutto il ragionamento sul gemello digitale potrebbe essere un espediente per lanciare un salvagente all’INPS. Che si debbano trovare delle risorse aggiuntive per fronteggiare i problemi posti dalla ripartizione è altresì inevitabile. Che sia questo il sistema, se ne può discutere. Se è vero, infatti che il nostro debito implicito, ovvero l’attualizzazione ad oggi delle promesse pensionistiche, ammonta a quattro volte il PIL, come attestato da una recente analisi svolta da Eurostat sui dati del 2021 (vedi istogramma), è anche vero che concentrare tutti gli sforzi sul pilastro pubblico potrebbe essere rischioso.

Gemello digitale e distorsioni del sistema pubblico

Innanzitutto, l’afflusso di nuove e copiose risorse, visto che tutte le imprese producono Valore Aggiunto, potrebbe offrire il pretesto per abbandonare il principio di corrispettività, per cui ognuno riceve quanto ha versato in termini di contributi. Dietro al pilastro pubblico, infatti, ci sta la politica, poco propensa a rispettare l’equità attuariale, indipendentemente che sia di destra, sinistra o centro.

Basti ricordare quota 100 che nel 2020 ha fatto impennare la spesa pubblica per le pensioni al 17% del PIL, o la riduzione in deficit (cioè a debito) del cuneo contributivo nel 2023 e nel 2024. Occorre poi considerare il ruolo distorsivo che l’INPS potrebbe assumere nella veste di winner takes it all. Certo, si tratta del pubblico garante del nostro welfare state. Tuttavia, ha già beneficiato di apporti indebiti, come il TFR maturando inoptato che le imprese con più di 50 dipendenti devono versare al suo fondo di tesoreria. Fu pensato da Tremonti e realizzato nel 2006 per dare copertura a parte della spesa pubblica corrente. Doveva servire per un anno, ma continua da allora. L’effetto distorsivo lo si vede all’opera se si considera che oggi l’INPS (e l’erario) non ne può più fare a meno.

Per questo il Governo e le sue espressioni, come il neopresidente COVIP, hanno messo presto a tacere l’iniziale ipotesi di riavviare una fase di silenzio assenso per l’adesione alla previdenza complementare. Aumentando quest’ultima, infatti, si ridurrebbe l’apporto al fondo di tesoreria presso l’INPS. Viene spontanea una domanda: non è che immaginando un futuro tecnologico di “magnifiche sorti e progressive” non si finisca per sparigliare le carte e far saltare anche l’unico pilastro aggiuntivo che rimpolperà il tasso di sostituzione delle future pensioni?

Occupazione e previdenza nell’era dell’AI

Certo, la tecnologia ci offrirà i suoi frutti e proprio l’INPS ne sta già beneficiando. Come dichiara la Vittimberga grazie all’AI l’organico complessivo dell’Istituto è sceso a 26 mila addetti circa, mentre nel 2012, quando venne accorpato l’INPDAP, esso assommava a circa 10 mila addetti in più. Sempre grazie all’AI oggi i controlli vengono selezionati sulla base di precisi indici di rischio, ovviando alle onerose e antipatiche indagini a tappetto.

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Sembra, perciò, che l’INPS abbia buoni motivi per immaginare un futuro sostenuto dalla tecnologia. Tuttavia, questa storia del gemello digitale che prosegue a lavorare al posto nostro va inquadrato anche in un contesto di equilibrio generale. Recuperando la vecchia tesi per cui la tecnologia sostituisce parte del lavoro umano Michael Spence ci ricorda il rischio “di un aumento transitorio dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda”; una cosa che metterebbe sotto pressione le retribuzioni, quindi le contribuzioni, così come i consumi.

La considerazione di fondo è quasi banale: se quando andrà in pensione Tizio resterà al lavoro il suo gemello digitale è ben possibile che non ci sarà bisogno di assumere Caio. L’effetto netto, tra più tecnologia e meno lavoratori, sarà quindi davvero positivo, o ne soffrirà la crescita del PIL? Una crescita che è comunque già compromessa dalla diminuzione della popolazione attiva. Sono tutte questioni a cui dovremmo prestare maggiore attenzione. Forse, anche per ragionare su questi temi con più oggettività e lungimiranza, un gemello digitale potrebbe tornarci utile.



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