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le contraddizioni della reindustrializzazione Usa


Poche visioni appaiono tanto affascinanti quanto contradditorie come quella delle “dark factories” – fabbriche completamente automatizzate dove le luci si spengono perché non servono più occhi umani a guidare la produzione.

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Dark factories, paradossi e contraddizioni della reindustrializzazione Usa

Queste cattedrali dell’automazione totale rappresentano l’ultima frontiera della manifattura avanzata, dove intelligenza artificiale, robotica e machine learning si fondono in un ecosistema produttivo che funziona nell’oscurità, senza pause, senza sindacati, senza salari da pagare.

Eppure, dietro il fascino tecnologico di questa visione futuristica si nasconde un paradosso profondo che tocca il cuore delle promesse politiche contemporanee. Mentre leader come Donald Trump promettono di “riportare i posti di lavoro in America” cavalcando il malcontento della Rust Belt e delle comunità deindustrializzate, la realtà della reindustrializzazione moderna punta verso una direzione diametralmente opposta: fabbriche senza operai, produzione senza lavoratori, un ritorno dell’industria che esclude proprio coloro che dovrebbe salvare.

La contraddizione non è solo semantica, ma strutturale. Come si può promettere una rinascita manifatturiera a milioni di elettori disoccupati quando la tecnologia che dovrebbe renderla possibile elimina sistematicamente il bisogno di manodopera? Come si concilia la retorica populista del lavoro ritrovato con gli incentivi fiscali record – come quelli contenuti nella “big beautiful bill” – che spingono verso investimenti in automazione totale?

Ma c’è ancora un’altra dimensione del paradosso che merita attenzione: quella geopolitica. Mentre l’America combatte una guerra commerciale per ridurre la dipendenza dalla Cina, costruisce al contempo un sistema industriale che dipende criticamente da semiconduttori, terre rare e tecnologie avanzate – spesso controllate proprio da quella Cina che vorrebbe contenere. Le dark factories, simbolo di indipendenza produttiva, rischiano di diventare così le infrastrutture più vulnerabili in caso di conflitto tecnologico globale.

Ma andiamo per gradi, così da capire anche la ratio dei progetti legati alle dark factories.

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Volatilità estrema dei costi di spedizione container

I dazi imposti dall’amministrazione di Donald Trump a partire dal 2018 hanno inaugurato una nuova era di tensioni commerciali e ridefinito le dinamiche del commercio mondiale.

Figura 1: Andamento dei noli spot (USD per container da 40’) sulle principali rotte dalla Cina (Shanghai) verso Nord America ed Europa, luglio 2024 – aprile 2025. Si noti il picco del 2024 e il successivo crollo entro inizio 2025, più marcato sulle rotte transpacifiche (Cina-USA) rispetto alla transatlantica Europa-USA. Fonte: **Drewry World Container Index**.*

Negli ultimi sei mesi i costi di spedizione dei container hanno subito variazioni drastiche, soprattutto sulle rotte transpacifiche (tra l’Asia e gli Stati Uniti), mentre le rotte transatlantiche (Europa-Stati Uniti) hanno mostrato movimenti più contenuti. Alla fine del 2024, nonostante il periodo in genere di bassa stagione post-picco, le tariffe per il trasporto di un container da 40 piedi erano ancora insolitamente elevate, spinte da fattori straordinari come anticipazioni di acquisti e timori di nuovi dazi.

Ad esempio, a fine novembre 2024 le tariffe medie dall’Asia agli Stati Uniti si attestavano oltre i 5.000 dollari/FEU (per unità da 40 piedi). In particolare, la rotta Shanghai–Los Angeles (transpacifica) quotava circa 5.122 \$/FEU e la Shanghai–New York superava i 5.300 \$/FEU alla settimana del 22 novembre 2024. Sulla direttrice opposta, la rotta transatlantica dall’Europa (Rotterdam) verso la costa orientale USA presentava costi intorno ai 2.000 \$/FEU nello stesso periodo (poco variati rispetto ai \~1.945 \$ dell’estate 2024), indicando un divario notevole tra le due principali tratte commerciali.

Con l’arrivo del 2025, il mercato dei noli ha invertito bruscamente la rotta, specialmente sul Pacifico. Tra gennaio e marzo 2025, le tariffe spot transpacifiche si sono più che dimezzate. Un indice composito calcolato da Drewry mostra come il prezzo medio di spedizione sia sceso sotto i 2.200 \$/FEU a metà aprile, in calo di circa il 79% rispetto ai picchi pandemici del 2021 ma comunque ancora superiore del 54% rispetto alla media pre-pandemica del 2019.

Più concretamente, sulla rotta Shanghai–Los Angeles si è passati da circa 2.815 \$/FEU nella seconda settimana di aprile a un minimo di 2.683 \$/FEU attorno alla metà di aprile 2025. Questi valori rappresentano i livelli più bassi dal 2020, scendendo perfino al di sotto dei minimi del 2024.

A partire da maggio 2025 si è intravisto un rimbalzo dei noli, trainato in buona parte da sviluppi geopolitici. La prospettiva di un allentamento nelle tensioni USA-Cina – ad esempio voci di accordi tariffari o sospensione di nuovi dazi – ha indotto molti importatori a prenotare spedizioni aggiuntive, risollevando i prezzi dal fondo toccato in primavera. Alla fine di maggio 2025, il costo medio per un container Shanghai–Los Angeles era risalito a circa 3.197 \$/FEU (in aumento del 18% rispetto a un mese prima), mentre il Shanghai–New York toccava i 4.527 \$/FEU segnando un recupero di quasi \$1.000 in poche settimane.

Oscillazioni dei prezzi sulle rotte transpacifiche

Questo trend è attribuibile sia alla riduzione della capacità attiva sul Pacifico (diverse compagnie, di fronte ai noli in caduta, hanno tenuto navi ferme o spostate su altre rotte) sia a un certo front-loading delle spedizioni cinesi verso gli USA sulla scia di novità politiche. Secondo Drewry, l’annuncio di sviluppi positivi nei negoziati commerciali sino-americani ha stimolato un aumento di ordini dall’Asia, contribuendo a risollevare le tariffe di circa il 10% nel mese di maggio. Non a caso, si osserva che proprio su rotte come Shanghai–New York (più direttamente esposte ai dazi verso la Cina) i rincari di fine maggio sono stati più pronunciati (+42% in tre settimane).

In definitiva, l’ultimo semestre ha evidenziato la spiccata volatilità dei noli marittimi, le rotte transpacifiche sono passate da livelli storicamente alti a un crollo sotto i valori del 2024 in pochi mesi, per poi parzialmente risalire.

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Radici economiche della guerra commerciale Usa-Cina

L’inasprimento dei rapporti commerciali tra Stati Uniti e Cina, simboleggiato dai dazi di Trump, non è stato un fulmine a ciel sereno, bensì l’esito di forze economiche e pressioni politiche accumulate in anni di squilibri. Per comprenderne le radici, occorre distinguere tre piani intrecciati:

  • le motivazioni economiche e finanziarie, legate ai deficit commerciali cronici e al ruolo del dollaro;
  • le motivazioni strategico-industriali, connesse alla competizione tecnologica e alla sicurezza nazionale;
  • le motivazioni politiche interne, ovvero il consenso elettorale e le richieste di protezione da parte di settori colpiti dalla globalizzazione.

Analizziamo questi aspetti in dettaglio.

Squilibri strutturali del deficit commerciale americano

Dal punto di vista macroeconomico, uno dei principali motori della guerra dei dazi è stato l’enorme squilibrio commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina (nonché il resto del mondo). In realtà lo squilibrio con la Cina è abbastanza diffuso e riguarda circa 150 paesi nel mondo.

Gli Stati Uniti lamentano da tempo un forte deficit commerciale, in particolare verso la Cina, che le politiche tradizionali non sono riuscite a ridurre. Anzi, malgrado i dazi imposti da Trump a partire dal 2018 su centinaia di miliardi di beni cinesi, il deficit USA-Cina ha continuato a crescere, segno della persistenza delle dinamiche sottostanti. Secondo dati doganali cinesi, il disavanzo aggregato di beni della Cina verso il mondo è passato da 420 miliardi di dollari nel 2017 a ben 822 miliardi nel 2023, quasi raddoppiando nell’arco di sei anni. Di questo, una porzione significativa riguarda gli Stati Uniti, che restano il principale importatore di prodotti cinesi. In breve, la prima guerra commerciale non ha risolto il problema dei deficit USA, i quali si sono anzi ampliati su base globale, complice anche la robusta domanda americana nel periodo post-pandemico.

Alla base di questo squilibrio ci sono fattori strutturali:

  • differenziali di costo del lavoro e specializzazione produttiva hanno reso la Cina la “fabbrica del mondo.
  • Fortissima spinta pubblica sul manifatturiero cinese, il vero motore dell’abbattimento della povertà a livello globale, da 770 milioni di cinesi poveri della fine del 1978 siamo scesi a circa una trentina odierni. Questo vuol dire che ogni 3 poveri in meno a livello globale negli ultimi 40 anni 2 sono stati cinesi.
  • Esasperata competizione interna tra aziende cinesi, che si tramuta in una fortissima pressione sui prezzi dei beni ed in competitività verso l’estero.
  • Scala industriale costruita sulla domanda interna monstre, specie nelle infrastrutture. Che di conseguenza è diventata scala monstre verso l’estero. Se prendiamo le varie materie prime, cemento, acciaio, vetro, alluminio etc. LA sola domanda domestica cinese mediamente rappresenta più del 70% della domanda globale. Quando questa potenza di fuoco si rivolge verso l’esterno è tale da annichilire qualsiasi competitor.

Nel mentre gli Stati Uniti hanno visto diminuire la propria base manifatturiera a favore delle importazioni a basso costo.

Tuttavia, esiste anche una lettura finanziaria del problema e che la schizofrenia delle dichiarazioni nell’attuale Casa Bianca sembra voler attaccare in modo scientifico. Che chiama in causa il ruolo del dollaro USA come principale safe asset globale.

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Il paradosso del dollaro come valuta di riserva

In un sistema in cui il dollaro funge da valuta di riserva mondiale (circa il 58% delle riserve valutarie globali è in dollari) e i Treasury americani sono considerati l’investimento sicuro per eccellenza, si crea una sorta di paradosso noto come dilemma di Triffin. Gli Stati Uniti, per fornire al mondo gli asset sicuri (liquidità in dollari e titoli di Stato) di cui c’è crescente bisogno, devono necessariamente registrare deflussi di capitali e dunque disavanzi con l’estero. In altre parole, i paesi esteri accumulano dollari e titoli USA vendendo più beni di quanti ne comprino: ciò genera il doppio effetto di far affluire capitali negli USA, apprezzare il dollaro e alimentare il deficit commerciale americano.

Come sintetizzato in un’analisi del CEPR, la domanda mondiale di riserve in dollari cresce con l’economia globale, mentre la quota USA nell’economia mondiale diminuisce; ne consegue che “il deficit corrente USA deve aumentare costantemente in rapporto al PIL per mantenere l’equilibrio” secondo questa narrativa. Il risultato è una cronica sopravvalutazione del dollaro e deindustrializzazione degli Stati Uniti, poiché un dollaro forte rende relativamente meno competitivo esportare e più facile importare.

Questa interpretazione aiuta a spiegare perché gli Stati Uniti possano essere tentati di ricorrere a misure protezionistiche: se il libero gioco dei mercati porta a un circolo vizioso di deficit crescenti e perdita di capacità industriale (col rischio di dipendere da rivali per beni essenziali), allora i dazi e le restrizioni vengono visti come strumenti per rompere il ciclo.

Instabilità del sistema finanziario globale

Un altro aspetto finanziario riguarda la stabilità del sistema basato sui Treasury USA come unico collaterale di elevata qualità. La crescita esponenziale del debito pubblico americano (acquistato volentieri dagli investitori di tutto il mondo in assenza di alternative paragonabili per profondità e sicurezza) ha contribuito negli ultimi anni a mantenere bassi i tassi d’interesse e quindi a gonfiare le valutazioni degli asset finanziari. Azioni, immobili e altri asset hanno beneficiato di un lungo periodo di liquidità abbondante e rendimenti obbligazionari contenuti.

Il protezionismo commerciale può essere letto, in parte, come una reazione a questo trade-off: riducendo le importazioni e riequilibrando la bilancia (almeno nelle intenzioni), gli Stati Uniti proverebbero a contenere l’indebitamento estero e la dipendenza dal finanziamento cinese.

È una strategia non convenzionale e controversa – alcuni la definiscono “sindrome di Mar-a-Lago” alludendo a tentativi di accordi fuori dagli schemi – che però risponde alla preoccupazione di fondo che il sistema attuale non sia sostenibile all’infinito.

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Competizione tecnologica e sicurezza nazionale

Oltre agli aspetti macroeconomici, la spinta verso una postura più aggressiva nei confronti della Cina nasce da motivi strategici e di politica industriale. Negli ultimi decenni la Cina ha non solo conquistato quote enormi in settori manifatturieri tradizionali, ma sta rapidamente avanzando in industrie ad alta tecnologia e alto valore aggiunto. Pechino esplicitamente punta a leadership tecnologiche tramite programmi come “Made in China 2025”. Per gli Stati Uniti, questo rappresenta un duplice problema: economico (perdita di leadership industriale in settori chiave) e di sicurezza nazionale.

Trump e, più in generale, la classe politica americana hanno accusato la Cina di pratiche commerciali scorrette: furto di proprietà intellettuale, trasferimenti forzati di tecnologia, sussidi statali massicci alle imprese nazionali. I dazi del 2018-2019 vennero giustificati proprio come risposta a queste pratiche, oltre che al deficit. Sebbene l’analisi di tali misure in termini di efficacia economica sia discutibile, da un punto di vista strategico hanno segnalato una volontà di contenimento della Cina.

Dipendenza strategica dalle forniture cinesi

Un altro fronte strategico è la dipendenza americana (e occidentale) da forniture cinesi in settori critici. La pandemia di COVID-19 ha evidenziato i rischi di affidarsi a un’unica fonte per beni essenziali, dai dispositivi di protezione individuale ai principi farmaceutici attivi. Allo stesso modo, tensioni future potrebbero vedere la Cina sfruttare la leva di materie prime o componenti vitali. Un caso emblematico è quello delle terre rare: elementi indispensabili per prodotti high-tech e difesa (dai magneti per i motori elettrici alle leghe per aerei). La Cina detiene un quasi-monopolio nell’estrazione e soprattutto nella raffinazione delle terre rare, controllando circa il 61% della produzione mondiale e addirittura il 92% della capacità di lavorazione di questi minerali.

Nel 2023, in piena escalation di sanzioni reciproche, Pechino ha imposto restrizioni all’export di magneti al neodimio (prodotto di punta a base di terre rare) colpendo industrie americane, a riprova del suo potere di rappresaglia. Washington ha reagito ordinando studi per riavviare la produzione domestica di minerali critici, ma colmare un gap di decenni richiede tempo e investimenti ingenti. Questo episodio evidenzia la dimensione di sicurezza nazionale della dipendenza economica: gli Stati Uniti vedono con crescente allarme il controllo cinese di snodi della supply chain globale che potrebbero essere utilizzati come arma geopolitica.

Supremazia tecnologica americana in declino

In sostanza, la guerra commerciale è alimentata dall’idea che la supremazia tecnologico-industriale americana sia in gioco. Gli USA temono di ritrovarsi non solo con più debiti, ma anche tecnologicamente subordinati in settori chiave del futuro (auto elettriche, energie rinnovabili, telecomunicazioni 5G/6G, intelligenza artificiale).

Già oggi la Cina è all’avanguardia e leader quasi monopolistico in diverse filiere verdi.

Di fronte a ciò, gli Stati Uniti stanno affiancando misure difensive e offensive: dazi e restrizioni per frenare le importazioni cinesi (difensive), incentivi e piani industriali per rilanciare la produzione domestica (offensive). Il CHIPS Act e l’Inflation Reduction Act varati nel 2022-23 ne sono esempi: prevedono decine di miliardi di investimenti in impianti di chip sul suolo americano e sostegni all’industria delle rinnovabili e auto elettriche “made in USA”, con l’implicita finalità di ridurre la dipendenza da fornitori cinesi. Queste strategie, un tempo considerate eccezioni, stanno diventando bipartisan a Washington, segno che la competizione sistemica con la Cina è destinata a perdurare anche oltre l’amministrazione Trump.

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Populismo e consenso interno: protezionismo come agenda politica

La terza dimensione, imprescindibile per comprendere i dazi di Trump, è quella politica interna. L’elezione di Donald Trump nel 2016 – sostenuta in parte dalla cosiddetta Rust Belt, ha portato al potere una piattaforma apertamente protezionista e nazionalista in economia. Trump ha saputo cavalcare il malcontento di lavoratori e comunità colpite dalle delocalizzazioni e dalle importazioni a basso costo, promettendo di “riportare i posti di lavoro in patria”.

Effetti simbolici della politica America first

Dal punto di vista elettorale, i dazi e la retorica dura verso Pechino hanno avuto un forte richiamo. Anche settori tradizionalmente liberisti del Partito Repubblicano hanno abbracciato, sotto Trump, una linea più interventista, convinti che l’elettorato volesse protezione. Questa spinta populista ha travalicato le divisioni di partito: attualmente esiste un inedito consenso trasversale negli USA sul fatto che la Cina vada contenuta e che il libero commercio senza regole chiare possa danneggiare l’interesse nazionale. In tal senso, le politiche di Trump hanno plasmato il dibattito: anche con l’amministrazione Biden, i dazi su beni cinesi sono rimasti largamente in vigore, e lo stesso presidente democratico – tradizionalmente più favorevole al multilateralismo – ha adottato misure protezionistiche (ad esempio il *Buy American* e gli incentivi green riservati a prodotti nordamericani, che l’Europa ha criticato).

Si può quindi affermare che la stagione dei dazi non sia stata solo una parentesi trumpiana, ma rifletta una domanda politica profonda da parte di una fascia dell’elettorato.

Tale domanda sorge da decenni di stagnazione dei salari industriali, perdita di posti ben pagati nel manifatturiero e percezione (spesso corretta) che la Cina non abbia aperto il suo mercato con la stessa trasparenza chiesta all’Occidente.

La guerra commerciale gode dunque di un certo sostegno popolare perché viene narrata come difesa dei lavoratori americani dalla “concorrenza sleale”. In concreto, tuttavia, i risultati finora sono stati misti: alcuni settori protetti (come l’acciaio) hanno visto risalire i prezzi interni e recuperare margini, ma altri (ad esempio l’agricoltura, colpita dalle ritorsioni cinesi) hanno sofferto.

Da non sottovalutare, poi, è l’effetto simbolico: i dazi di Trump sono stati un segnale al mondo che gli Stati Uniti non avrebbero più garantito incondizionatamente il sistema di libero scambio globale se questo avesse indebolito il paese. In altre parole, il protezionismo è diventato parte del linguaggio politico con cui l’America ridefinisce la propria leadership: non più il “garante” liberista dell’ordine economico, ma un attore che mette esplicitamente “America First”. Questo mutamento ha implicazioni anche per gli alleati (si pensi alle tensioni commerciali sorte persino con l’Unione Europea e con partner storici a causa dei dazi sull’acciaio o delle misure contenute nell’IRA).

Monopolio cinese nelle filiere produttive globali

Uno dei paradossi della globalizzazione degli ultimi decenni è che l’apertura dei mercati – teorizzata per generare concorrenza e diffusione efficiente della produzione – ha finito in molti settori per concentrare la produzione mondiale in un solo paese: la Cina. Grazie a costi di produzione inferiori, a investimenti massicci in capacità industriale e a una pianificazione strategica di lungo termine, la Cina ha conquistato quote di mercato dominanti in numerose categorie merceologiche, al punto che in alcuni casi si parla esplicitamente di monopolio o quasi-monopolio cinese a livello globale.

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La resilienza della Cina come fornitore globale, nonostante i dazi

Diversi studi hanno evidenziato come la Cina abbia incrementato la propria quota sia di export che di manifattura in settori chiave nell’ultimo decennio a spese di altri produttori avanzati.

Un rapporto del Rhodium Group, ad esempio, analizzando quattro settori – abbigliamento, elettronica di consumo, fotovoltaico e automotive – mostra che la quota cinese è aumentata in tutti, mentre paesi manifatturieri tradizionali hanno subito cali sistematici di presenza. Persino laddove i dazi statunitensi hanno stimolato qualche ricollocazione produttiva fuori dalla Cina (per esempio nel tessile verso il Vietnam o nell’elettronica di base verso altri paesi asiatici), la resilienza della Cina come fornitore resta formidabile: l’ecosistema produttivo cinese è talmente efficiente e integrato che poche imprese trovano conveniente abbandonarlo del tutto. Spesso la “diversificazione” dal made in China si traduce in delocalizzazioni effettuate da aziende cinesi stesse – in Vietnam, in Indonesia, in Messico – il che significa che anche spostando geograficamente la fabbricazione, il controllo cinese sulle filiere permane. Ciò rende molto complesso per Occidente e altri emergenti ridurre la dipendenza: la definizione stessa di “prodotto cinese” si fa sfumata quando componenti cinesi sono incorporate in beni assemblati altrove.

Rischi strategici della dipendenza dalla cina

Per l’Occidente, il monopolio cinese sul “libero mercato” globale comporta almeno tre rischi principali:

  • Rischio di approvvigionamento e ricatto – come visto con terre rare e potenzialmente altri beni (farmaceutici, elettronica), la Cina può usare il controllo su filiere per esercitare pressione geopolitica. Questo costringe i paesi importatori a rivalutare le proprie dipendenze in chiave di sicurezza nazionale. L’UE, ad esempio, ha incluso materie prime come litio e terre rare nella lista delle “Critical Raw Materials” da assicurarsi anche tramite partenariati strategici o estrazione interna.
  • Perdita di capacità industriale e occupazionale – interi segmenti produttivi scompaiono o si riducono in Occidente, portando con sé competenze, posti di lavoro qualificati e capacità d’innovazione. Nel lungo termine, questo potrebbe erodere il tessuto economico e la coesione sociale (si pensi alle regioni deindustrializzate)
  • Influenza politica globale – la posizione dominante sul piano economico dà alla Cina anche un certo soft power e leva diplomatica. Paesi emergenti che dipendono fortemente dal mercato cinese (sia per vendere materie prime che per acquistare beni a basso costo) potrebbero allinearsi politicamente con Pechino o quantomeno evitare di criticarla apertamente, temendo

Va peraltro riconosciuto che tale configurazione di mercato è stata, almeno in parte, il risultato di scelte delle stesse imprese occidentali che hanno delocalizzato in Cina per ridurre i costi, aumentando i propri margini e offrendo prodotti a prezzi minori ai consumatori occidentali. In un certo senso, il “libero mercato” ha funzionato offrendo benefici di breve termine (costo ridotto, inflazione bassa) a fronte però di costi nascosti di lungo termine (dipendenza strategica, declino industriale locale).

La strategia di reindustrializzazione di Donald Trump rappresenta un punto centrale della politica economica che ha segnato la sua amministrazione e che continua a influenzare il dibattito politico americano. Tuttavia, analizzando più da vicino questa visione, emergono limiti strutturali e contraddizioni difficilmente ignorabili.

Limiti strutturali della reindustrializzazione tradizionale

Prima di tutto, è fondamentale comprendere che tipo di industria Trump abbia in mente. Nelle dichiarazioni ufficiali e nei discorsi pubblici, l’ex presidente parla spesso di riportare posti di lavoro manifatturieri negli Stati Uniti, evocando un’immagine nostalgica di grandi fabbriche, simili a quelle degli anni ’50 e ’60. Settori come l’acciaio, l’automotive tradizionale, e la manifattura pesante vengono frequentemente citati come esempi simbolici di una prosperità americana perduta. Tuttavia, la domanda cruciale è se questo tipo di reindustrializzazione sia realmente praticabile nell’attuale contesto economico e demografico.

Uno dei principali ostacoli risiede nella forza lavoro necessaria per alimentare una simile reindustrializzazione. Per realizzare una rinascita industriale su larga scala, occorrerebbero decine di milioni di lavoratori, un numero che semplicemente non esiste nelle attuali condizioni socio-demografiche americane. Da un lato, la popolazione statunitense sta rapidamente invecchiando, con un tasso di natalità in diminuzione, dall’altro, la politica anti-immigrazione della stessa amministrazione Trump ha drasticamente limitato il flusso di lavoratori stranieri, tradizionalmente una risorsa chiave per il settore manifatturiero.

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La contraddizione appare evidente: da un lato, si intende rilanciare massivamente la produzione manifatturiera, dall’altro, si reprime ferocemente l’immigrazione, rendendo difficile reperire la manodopera necessaria per queste fabbriche tradizionali. Il risultato rischia di essere un gigantesco gap tra ambizioni economiche e realtà operativa.

Contraddizioni tra immigrazione e rilancio manifatturiero

Ma se la tradizionale forza lavoro umana non è disponibile, cosa rimane? È qui che emerge una possibile visione alternativa, forse più vicina al reale obiettivo dei consiglieri economici e tecnologici che circondano Trump: quella delle cosiddette “dark factories”, fabbriche altamente automatizzate dove l’intervento umano è minimo o addirittura inesistente.

Evoluzione verso le dark factories automatizzate

Negli ultimi anni, la manifattura avanzata si è progressivamente spostata verso soluzioni che integrano sempre più intelligenza artificiale, robotica avanzata, machine learning e automazione totale dei processi. Aziende come Tesla, Amazon, e diversi giganti tecnologici cinesi ed europei stanno già sperimentando o implementando fabbriche totalmente automatizzate dove gli operai umani, quando presenti, svolgono principalmente ruoli di supervisione o manutenzione.

Questa visione di reindustrializzazione, in cui AI e robotica prendono completamente il controllo della produzione, risolverebbe teoricamente il problema della scarsità di manodopera.

Conseguenze sociali dell’automazione industriale

Tuttavia, apre la porta a nuove problematiche socio-economiche che potrebbero essere altrettanto gravi.

Innanzitutto, l’eliminazione massiva di posti di lavoro tradizionali comporta una transizione molto più complicata e costosa, sia economicamente che politicamente. Milioni di lavoratori che avevano creduto nella promessa di tornare al lavoro manifatturiero si troverebbero esclusi da un mercato che non offre più opportunità di impiego. Ciò potrebbe portare a un’esacerbazione delle disuguaglianze sociali e a tensioni politiche ancora più acute.

Incentivi fiscali per l’automazione avanzata

Inoltre, una strategia basata sulla piena automazione e sulle “dark factories” richiede investimenti enormi in infrastrutture tecnologiche, formazione avanzata e ricerca e sviluppo. Nonostante l’impegno dichiarato, il sistema formativo americano non appare al momento attrezzato per sostenere una transizione così radicale in tempi rapidi, rischiando di creare una frattura insanabile tra la domanda di competenze altamente specializzate e l’offerta di lavoratori adeguatamente preparati.

Un altro limite intrinseco delle “dark factories” riguarda la loro vulnerabilità agli shock tecnologici e geopolitici. Sistemi altamente automatizzati, dipendenti dalla continua disponibilità di microchip avanzati, semiconduttori e terre rare, potrebbero subire gravi interruzioni in caso di conflitti geopolitici o di guerre commerciali. Questo renderebbe il tessuto industriale americano estremamente vulnerabile, contraddicendo l’obiettivo dichiarato di una maggiore sicurezza nazionale attraverso l’autosufficienza produttiva.

Infine, rimane il dubbio se questa strategia altamente automatizzata rifletta davvero le aspettative politiche e sociali degli elettori che hanno sostenuto Trump. Molti lavoratori americani, soprattutto nelle regioni industriali tradizionali, hanno supportato la reindustrializzazione con la speranza di tornare a occupazioni stabili e ben retribuite. Una fabbrica totalmente automatizzata difficilmente potrebbe soddisfare queste aspettative, rischiando anzi di alimentare ulteriormente la delusione e la frustrazione di quella parte della popolazione che si sente già esclusa dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione.

Qualche indizio di questa strategia emerge nella recente approvazione della cosiddetta “big beautiful bill”, dove, forse per la prima volta nella storia americana, forse anche mondiale, viene introdotta la possibilità di ammortizzare al 100% in un solo anno i nuovi investimenti, inclusa la parte immobiliare. Questo provvedimento rappresenta una grossa fiches sul tavolo, chiaramente indirizzata a favorire investimenti rapidi e ingenti nell’automazione avanzata. Un incentivo a tutto capex senza precedenti.



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