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Economia stagnante, essenziale il rilancio della domanda interna


Un’economia quella italiana che, seppure non crolla, stagna. Con una crescita che va a ritmo contenuto e una stima del pil dello 0,6% nel 2025 e dello  0,8% nel 2026. Segnata da fragilità e incertezza acuite dai problemi del mondo, ovvero dalle attuali politiche protezionistiche alle costanti tensioni geopolitiche, mentre si prevede che il quadro in mutamento delle relazioni internazionali avrà una ricaduta certa sul Pil mondiale del meno 3%. Responsabili della decelerazione, diversi fattori, tra cui “il deterioramento del commercio internazionale, il riemergere di tensioni protezionistiche e una crescente difficoltà ad allineare le politiche monetarie e fiscali alla nuova fase post- pandemica”.

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Queste perlomeno sono le informazioni che ci arrivano dal rapporto annuale dell’Irpet (Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana) che non solo analizza in modo ampio e con grande precisione la situazione economica della regione di cui ha competenza ma la pone dentro il quadro più complessivo di quella italiana. Il titolo del rapporto è già eloquente: “Dalla globalizzazione al protezionismo, i riflessi economici e sociali”, ed è appena stato presentato, nella sede della Regione Toscana, dal direttore  Irpet, Nicola Sciclone, e dal vicedirettore Leonardo Ghezzi. Seguito da una tavola rotonda dedicata al tema:  “Dipendenza economica e compressione salariale, come uscirne?”,  con Federico Fubini, editorialista e vicedirettore del Corriere della Sera, Andrea Garnero della direzione per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’OCSE e Guglielmo Meardi, preside della Classe di Scienze politico-sociali della Scuola Normale Superiore di Pisa.

 Con una prima e fondamentale considerazione, ovvero che nel momento in cui, viste le tensioni dei mercati internazionali da cui dipendono l’economia italiana e quella toscana in particolare che pur dimostra una buona tenuta nonostante le difficoltà, sarebbe assolutamente necessario aumentare i sempre vagheggiati ma mai rilanciati consumi interni. Operazione non ovvia, visto il grande problema dei salari italiani che a questi consumi dovrebbero provvedere. I quali salari,  invece di crescere, “sono diminuiti del 9% in trent’anni con il risultato che oggi circa il 19,8 dei lavoratori – uno su cinque – è povero, ovvero non guadagna più di 8.000 euro l’anno che è la corrente definizione di povertà assoluta”, come avverte Sciclone,  convinto che “occorra sicuramente affrontare la stagnazione salariale”. Considerando non solo l’enormità che chi lavora può essere comunque povero in assoluto, ma anche restare tale a lungo, visto che circa un terzo di chi cade in povertà vi rimane per almeno cinque anni, come avverte il direttore Irpet. Il rischio della persistenza in una condizione di povertà è crescente per le donne, per gli stranieri, per la popolazione adulta e i lavoratori flessibili. Allegria.

Sebbene termini come “incertezza”, “precarietà” e “preoccupazione” siano stati ormai ricorrenti nei documenti previsionali degli ultimi quindici anni, il contesto attuale si distingue per profondità e natura, avverte l’Irpet: “Non si tratta solo dell’inevitabile margine di errore insito in ogni simulazione economica: ad essere messo in discussione è l’equilibrio stesso delle relazioni internazionali su cui si è basata, per decenni, la crescita globale. È in corso un cambiamento di paradigma, che modifica progressivamente le regole del gioco e ridefinisce i fattori di competitività”.

 In particolare, in Italia, dove la povertà e la pochezza dei consumi interni determinata dai bassi redditi pesano su un’economia sostanzialmente condizionata dall’export su cui adesso si abbattono i dazi. È vero che finora, riflette il rapporto Irpet,  più della realtà hanno fatto il danno gli annunci, gli avanti e indietro, i timori, le discussioni di una misura che potrebbe – lo sapremo dagli USA forse il 9 luglio – arrestarsi alla soglia del 10%,  una misura che tuttavia minaccia di  essere destabilizzante. Soprattutto considerando che la filiera dell’economia, come ricorda il rapporto, ha un suo a valle e un suo a monte:  dove si va a vendere il prodotto e da dove si acquista il necessario per produrlo cosicché “nella catena delle filiere conta quello che accade da te ma anche altrove. Soprattutto in termini di prodotti energetici e della raffinazione petrolifera. Quando, guardando ai prodotti dell’industria estrattiva e della raffinazione petrolifera il peso della UE a 27 non raggiunge mai il 20%. Molto alta, invece, la nostra dipendenza dalle produzioni della Russia, del Nordamerica, dell’Arabia Saudita, della Cina e del resto del mondo”.

Certamente non tutto è perduto, rassicura l’Irpet: “Le imprese possono mitigare l’impatto negativo dei dazi tramite strategie di rilocalizzazione produttiva o di diversificazione dei mercati”. Resta il fatto che “ nel breve termine l’introduzione dei medesimi rischia di tradursi in una contrazione dell’export, in un calo della redditività e dell’occupazione, con ricadute potenzialmente rilevanti su alcuni comparti chiave del sistema economico”. Tale perlomeno da scompensare “ i benefici della globalizzazione, in particolare l’accesso alle tecnologie avanzate ”. Guai però arrestarsi di fronte alla minaccia di quanto viene da fuori perché alcuni problemi possono essere in alcuni casi anche nostrani e fisiologici, come “gli squilibri territoriali, le assenze infrastrutturali, le carenze nella formazione o le scelte aziendali consolidate nel tempo. Comprendere l’origine di queste vulnerabilità è essenziale per poterle affrontare con strumenti mirati e non generici”.

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Due i fronti, disegnati dall’Irpet, su cui impegnarsi: “La sostenibilità dello sviluppo economico nel medio-lungo periodo impone al paese una sfida da giocare su due fronti. Il primo è quello di una diversificazione della proiezione internazionale delle nostre esportazioni a favore di mercati meno esposti a rischi commerciali o geopolitici, associandovi contemporaneamente l’obiettivo di una minore dipendenza esterna nell’approvvigionamento di materie prime e prodotti intermedi, per contenere i colli di bottiglia che ostacolano il potenziale di  crescita”.

Il secondo fronte strategico, forse quello oggi determinante, è invece il fai da te. Il che significa rilanciare il mercato di casa propria che piange invece che funzionare, come depreca l’Irpet , “da fattore di stabilizzazione e di compensazione di eventuali e negative fluttuazioni della domanda estera, specie in un quadro come quello attuale segnato dall’inasprimento protezionistico”.

Fondamentale dunque, ancora prima di pensare a differenziare i mercati esteri, diventa il rilancio della domanda interna. Il che riavvolge il filo del ragionamento, per tornare da dove eravamo partiti: alla questione salariale. “Ciò implica in via prioritaria – avverte il report – un intervento deciso sulla questione salariale, prerequisito indispensabile per rafforzare il potere d’acquisto delle famiglie e sostenere strutturalmente la dinamica dei consumi”. Su cui pesano in negativo  i bassi salari e il loro scarso potere di acquisto. Un fenomeno determinato, dice Irpet, anche dalla diminuzione delle ore lavorate a causa della prepotente diffusione del part time non scelto ma imposto, o dei lavori a termine che un giorno li hai e l’altro no e dunque non assicurano un reddito continuativo e tanto meno progressivo verso l’alto. Un’organizzazione che “determina anche una crescente polarizzazione del mercato del lavoro fra stabile ed instabile oltre che fra tempo pieno e parziale, e dunque un aumento della disuguaglianza nelle retribuzioni con un incremento della quota di lavoratori nelle fasce di reddito più basse”.

 Un mercato del lavoro, quello italiano, sempre più frammentato, flessibile e diseguale che rappresenta, oltre alla riduzione delle ore complessive di attività, una delle principali cause della stagnazione salariale. Nonostante pesino anche altri fattori, dalla piccola dimensione delle imprese alla propensione delle medesime a accomodarsi in basso nella catena del valore produttivo invece di mirare allo scalino più alto e più redditizio. Oltre al fatto che  “in alcuni settori sono intervenute dinamiche redistributive a vantaggio del capitale e penalizzanti per il lavoro: nella manifattura nel suo insieme, ad esempio, e più specificamente nella moda e nella meccanica come anche nelle costruzioni e negli alloggi e ristorazione” .

Sarà poi Fubini ad aggiungere un altro elemento come causa di stagnazione dei consumi interni: non solo pochi soldi ma anche pochi figli. “Il problema della carenza di consumi interni è soprattutto democratico: in un paese non si rilanciano i consumi interni se non vi risiedono sufficienti persone per consumare. Da dieci anni noi perdiamo ogni anno 200 persone e il fenomeno andrà avanti. Ne basterà aggredire il problema degli asili o quello del penalizzato lavoro femminile. La denatalità dipende soprattutto dall’altra crisi di denatalità sofferta dall’Italia tra il 1975 e il 1992 per cui oggi le donne in età feconda sono la metà che negli anni ‘90.  Mentre i giovani sotto i 35 anni emigrano abbondantemente in altri paesi. La vera soluzione sarà la capacità  di attrarre persone in gamba e capacità di consumo da fuori, come sta avvenendo in Spagna”. 

Irpet, da parte sua, si concentra comunque sul fatto che, per rilanciare la nostra economia sotto la veste di aumento dei consumi interni in tempi di turbolenze esterne, sono urgenti politiche di sostegno al reddito come “salario minimo, riforme e riduzione del drenaggio fiscale che spesso si mangia gli eventuali aumenti salariali”. A proposito di salario minimo, il rapporto sottolinea “che il nostro paese è uno dei pochi in Europa a non averlo mentre adesso l’accentuarsi del fenomeno del lavoro povero ha alimentato una crescente pressione in favore dell’introduzione di un salario minimo legale, che, ad oggi, non si è ancora tradotta in provvedimenti concreti”.

Tanto più grave la questione salariale italiana, suggerisce il professor Meardi in quanto “non riguarda solo il lavoro povero, ma tutte le fasce di reddito, anche il lavoro medio e ricco se paragoniamo i nostri redditi a quelli degli altri paesi. Il difetto è aver puntato su servizi a basso valore aggiunto e essersi inebriati di frasi fatte e non corrispondenti al vero come, per esempio, che il turismo sia il petrolio dell’Italia o le costruzioni siano il motore dell’economia” .

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