Nel 2025, mentre Elon Musk si prepara a colonizzare Marte, l’Italia si affaccia timidamente all’orbita bassa con la sua prima, storica, Legge Spaziale Nazionale. Applausi bipartisan, conferenze stampa in diretta streaming, dichiarazioni solenni: «siamo i primi in Europa», dice il Ministro Adolfo Urso con orgoglio patriottico. Ma, come spesso accade da noi, tra l’entusiasmo cosmico e l’efficacia terrestre c’è di mezzo la burocrazia. E qui iniziano le perplessità.
Una legge che ci voleva almeno da vent’anni
L’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo con una flotta completa: lanciatori, satelliti, payload, centri di controllo. Eppure, fino a oggi, tutto questo si reggeva su norme generali, accordi internazionali e tanta buona volontà. Il settore privato, in crescita vertiginosa, navigava a vista tra cavilli e zone grigie. Non sorprende dunque che imprese, investitori e tecnici abbiano salutato con sollievo la nuova legge. Finalmente, si è detto, un quadro normativo organico. Ma basta leggere con attenzione (e con una lente d’ingrandimento per le note a pié di pagina) per cogliere una serie di criticità, talvolta più terrene che orbitali.
Autorizzazioni e procedure: chi vuol partire, si metta in fila
Il cuore della norma è il nuovo regime autorizzativo: ogni attività spaziale italiana o condotta da operatori italiani, dovrà essere approvata e vigilata. A occuparsene sarà un mosaico istituzionale: l’ASI istruisce, i ministeri (Impresa, Difesa, Esteri) esprimono pareri, il Presidente del Consiglio firma l’autorizzazione. Un assetto solido, sulla carta. Ma in pratica? Il timore è che si crei un collo di bottiglia normativo, in cui ogni richiesta – per quanto semplice – rischia l’incaglio in passaggi multipli e iter ridondanti.
Chiunque abbia mai tentato di ottenere una VIA ambientale per un impianto fotovoltaico in provincia di Viterbo sa bene cosa significhi il rischio “fermo procedura”. Ora immaginate lanciare un satellite. Un piccolo operatore come Argotec, che costruisce microsatelliti ad alta efficienza per missioni spaziali, dovrà sottoporsi agli stessi meccanismi di controllo di un grande gruppo con supporto ministeriale. Il rischio è una sovra-regolamentazione che penalizza proprio le eccellenze che ci si propone di incentivare.
Startup spaziali: tra sogno e polizza assicurativa
La legge introduce anche un regime di responsabilità oggettiva: in caso di incidenti spaziali (detriti, malfunzionamenti, collisioni), il soggetto autorizzato risponde per i danni. Per proteggere tutti (inclusi gli ignari terrestri), si impone un’assicurazione fino a 100 milioni di euro. Per le startup è previsto un tetto ridotto, ma l’ammontare e i parametri verranno definiti successivamente. Quando? Con quali criteri? Nessuno lo sa. Nell’attesa, un’azienda come chi sviluppa ad esempio sviluppa banchi di test fluidodinamici per razzi, rischia di fluttuare in una terra di nessuno. Né sanzionabile né pienamente operativa.
ASI: arbitro, giocatore, e anche organizzatore del torneo?
Altro elemento di perplessità è l’attribuzione di nuovi poteri all’Agenzia Spaziale Italiana, che diventa un po’ tutto: ente tecnico, regolatore, esecutore e controllore. Ma l’ASI è anche coinvolta in molti progetti industriali, partecipa a bandi, promuove startup, funge da co-progettista in missioni europee. Non è lecito intravedere un potenziale problema di conflitto di ruoli? Chi autorizza e al contempo partecipa, non potrebbe rischiare, anche solo di fatto e non intenzionalmente, di “indirizzare” il mercato più di quanto sarebbe auspicabile in un regime aperto e competitivo?
Come si sentirà, per esempio, un’azienda specializzata in sicurezza GNSS per la difesa e l’esplorazione lunare, a dover chiedere permessi e validazioni a un ente che finanzia anche i suoi concorrenti? Una situazione che, agli occhi di alcuni osservatori, potrebbe mostrare caratteristiche quasi grottesche, che richiederà quanto meno regole di trasparenza solide, indipendenza procedurale e, si potrebbe quasi audacemente affermare, un certo senso di pudore istituzionale.
Norme europee? Arriveranno. Forse. Intanto ognuno fa da sé
La legge è pionieristica – su questo non v’è dubbio. L’Italia è il primo Stato europeo a darsi una legge quadro completa sullo spazio. Ma l’Unione Europea? Thierry Breton, commissario europeo al Mercato Interno, ha promesso uno Space Law europeo. Lo ha fatto, però, in tipico stile comunitario: “Non prima della prossima legislatura”. Tradotto: ne riparliamo tra due o tre anni, sempre che la nuova Commissione non abbia priorità terrestri più pressanti.
Nel frattempo, ogni Stato membro fa da sé. Francia e Germania si appoggiano ancora a regolamenti aeronautici adattati. L’Italia, con la nuova legge, si candida a fare scuola. Ma se poi Bruxelles imporrà una direttiva quadro divergente? Rischiamo di dover riscrivere tutto, creando ulteriore confusione per chi deve operare. Ricordiamo la gerarchia delle fonti, ed il ruolo precipuo delle norme comunitarie.
Gli incentivi: pochi soldi, molte promesse
Per far decollare la Space Economy non bastano le autorizzazioni: servono soldi, strumenti, leve fiscali. Il nuovo Fondo Spazio è un passo nella giusta direzione, ma ha una dotazione che – per ora – non supera i 300 milioni di euro su più anni. Una cifra simbolica, considerando che il budget della sola costellazione Starlink supera i 10 miliardi di dollari.
Va detto che alcune aziende italiane sono già presenti nelle grandi commesse ESA. Ma il salto vero, quello verso un ecosistema capace di attrarre private equity startup, venture capitalist e tecnologie dual-use, sino a puntare all’ampliamento dei capitali e della base azionaria tramite l’approdo alla cassa di risonanza rappresenta dalla Borsa, richiederebbe misure più coraggiose: crediti d’imposta, prestiti agevolati, incentivi per aggregazioni e export. Per ora si vede solo un quadro cornice, ma i colori ancora mancano.
Il rischio Starlink: Musk batte IRIS² 3 a 0
Tra le pieghe della legge c’è anche una norma che ha fatto discutere: la possibilità per lo Stato italiano di riservarsi capacità satellitare privata, anche da soggetti esteri. Possibile interpretazione: in caso di emergenza o necessità strategica, il governo potrà appaltare la connettività a sistemi non-italiani. Indovinate a chi si pensa? Esatto: Starlink.
La Commissione difende la scelta come realistica: IRIS², la futura costellazione europea, arriverà (forse) nel 2030. Ma nel frattempo, affidarsi a Elon Musk per la sicurezza nazionale digitale non è una mossa esattamente sovrana. Forse, più che affittare satelliti americani, sarebbe utile aiutare a crescere una costellazione made in Italy. Oppure almeno dare un’occhiata a chi in Italia – come Leaf Space, Apogeo Space, Tyvak International – lavora già nel settore con competenze riconosciute anche all’estero.
Conclusione: un buon inizio, ma il cielo non è ancora sereno
La Legge Spaziale Italiana è un punto di svolta. Era necessaria. Va applaudita. Ma va anche migliorata, testata sul campo, applicata con criterio. Il rischio che diventi l’ennesima legge bella ma inapplicabile, o peggio un ostacolo travestito da stimolo, è reale. Servirà una governance pragmatica, aperta al dialogo con le imprese, pronta a correggere eventuali storture e a rendere la macchina leggera.
Se davvero vogliamo fare della Space Economy un pilastro del nostro sviluppo industriale, serve una politica che non solo legifera, ma ascolta, finanzia, coordina. E, magari, ogni tanto, osa.
Nel frattempo, i più scettici osservano che mentre noi discutiamo di decreti attuativi e registri satellitari, la Cina testa un reattore nucleare orbitale, e la SpaceX lancia 60 satelliti alla settimana. Ma noi abbiamo la legge. Che, comunque, non è poco, in un Paese dove i vincoli di bilancio sono molto stringenti e in un ambito di frontiera come lo Spazio, dove spesso si parte senza neppure quella.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link