Negli anni Sessanta il presidente Kennedy istituì i Peace Corps, un esercito di giovani volontari americani impegnati in ogni parte del mondo a consolidare il soft power statunitense. È notizia di pochi giorni fa che il Presidente Trump ha formato gli Executive Innovation Corps, un’élite di dirigenti delle principali aziende tech statunitensi che al diretto riporto del capo di stato maggiore dell’esercito americano dovrebbero contribuire ad aumentare l’hard power USA. Anche da episodi come questo è chiaro come i rapporti tra la Silicon Valley e la presidenza Trump non si misurino a colpi di tweet tra l’uomo più ricco e quello più potente del mondo.
Nei giorni successivi alla rottura plateale in mondovisione tra Musk e Trump, Michael Moritz, nume tutelare della Silicon Valley dall’alto dei suoi 70 anni ma soprattutto degli investimenti di venture capital che hanno dato vita ad alcune delle imprese tecnologiche di maggior successo della storia, aveva scritto sul Financial Times che i due non erano fatti per intendersi, uno vorrebbe che il governo funzionasse come un’impresa, l’altro lo ritiene la sua impresa. Di fatto il management moderno contro la regola medievale. Di fronte a questo clash culturale prima ancora che politico, l’inevitabile conclusione di Moritz è che l’unica strategia possibile per i tanti rappresentanti della Silicon Valley che si sono trasferiti negli ultimi mesi a Washington sarebbe quella di fare le valigie e lasciare Trump alla sua concezione personalistica e retriva del potere. In realtà, è difficile se non impossibile che il consiglio sia accolto e, qualora lo fosse, si tratterebbe al più di qualche scelta isolata. E non c’entra neppure la parziale riappacificazione tra Musk e Trump, d’altronde inevitabile e scontata dato il ruolo di ciascuno dei due. In un articolo su The Free Press, il neo-tenente colonnello della riserva dell’esercito americano, Shyam Sankar, Chief Technology Officer di Palantir, ricordava che “negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di interesse e finanziamenti per le start-up attive nella difesa e nella tecnologia avanzata, che ha portato alla nascita di aziende in grado di unire software all’avanguardia con produzione industriale su larga scala. In secondo luogo, vi è stata un’ondata di riforme all’interno del governo; i nuovi Corpi Esecutivi per l’Innovazione dell’Esercito sono solo una parte di questa storia. Il presidente Trump ha ordinato al Pentagono di cancellare i programmi di sviluppo di armamenti fuori budget o in ritardo, accelerare il processo di approvvigionamento notoriamente lento e fornire ai nostri militari la migliore tecnologia commerciale disponibile…..per la prima volta in una generazione, gruppi profondamente diversi sono uniti al servizio dell’interesse nazionale. Il divario tra la Silicon Valley e Washington sta—finalmente—iniziando a colmarsi.”
Dunque, le forze centripete che spingono verso una maggiore integrazione tra Silicon Valley e Amministrazione Trump sembrano decisamente più forti e strutturate di quelle centrifughe dipendenti dagli ego personali, che effettivamente sia nella prima che nella seconda appaiono abbondare. A questo si aggiungano due fattori ulteriori che spiegano come questa alleanza sia del tutto naturale. Con i repubblicani al potere, e con un Presidente imprenditore (anche se di alterni successi), l’alleanza tra governo e business è del tutto congeniale e difficilmente ripetibile nelle attuali forme. Inoltre, l’amministrazione Trump, avendo alienato molti potenziali candidati indipendenti e anche repubblicani moderati, ha avuto e ha ancora problemi a riempire ruoli di governo con personale altamente qualificato. Ecco dunque l’opportunità per chi, dopo aver guadagnato tanto nel settore privato e in attesa di poterlo continuare a fare, può applicare le sue capacità innovative al governo del proprio Paese. E, attenzione, non stiamo parlando solo di Palantir, società specializzata nell’analisi dei big data nella difesa e sicurezza, legata a doppio filo al Pentagono. Tra i tenenti colonnelli del Distaccamento 201, nel quale sono inquadrati gli Executive Innovation Corps, ci sono pesi massimi della Silicon Valley non direttamente connessi al settore militare come Andrew “Boz” Bosworth, chief technology officer di Meta, e Kevin Weil, chief product officer di OpenAI, oltre a Bob McGrew, che dopo aver lavorato a Paypal e Palantir, è diventato dall’agosto 2018 il capo della ricerca di OpenAI, responsabile del successo di ChatGPT e altri prodotti sviluppati nei laboratori dell’impresa guidata da Sam Altman.
Secondo Sankar, la cui storia personale è una dimostrazione di quanto sia vivo ancora oggi il sogno americano per chi come lui ha lasciato i sobborghi di Lagos in Nigeria quando aveva appena due anni, dopo che cinque uomini armati avevano fatto irruzione nella sua casa uccidendo il cane e terrorizzando il padre, quanto sta accadendo sarebbe stato inimmaginabile solo dieci anni fa. D’altronde sembra passato un secolo da quando nel 2018 una protesta di massa da parte dei propri dipendenti costrinse Google ad abbandonare il progetto Maven del Pentagono. Ma, in effetti, i tempi sono decisamente cambiati. Non solo perché la guerra si fa con strategie e strumenti estremamente diversi che in passato e spendere molto non è una garanzia di successo, come dimostrano i bombardieri russi costati miliardi messi fuori gioco da droni ucraini dal valore complessivo di qualche decina di migliaia di euro.
Dopo trent’anni abbondanti di primato mondiale economico e militare incontrastato, gli Usa si sentono oggi sotto minaccia. E se negli anni Ottanta le minacce avvertite si dividevano tra due Paesi, l’Unione Sovietica sul piano militare e l’alleato Giappone su quello economico, oggi si riuniscono in un solo Paese, la Cina. Pochi giorni fa sul sito di Foreign Affairs, la Bibbia dell’establishment della sicurezza e diplomatico statunitense, è uscito un articolo di Sebastian Elbaum e Adam Segal, professori di informatica e politiche cyber, con il titolo anch’esso impensabile pochi anni fa, “What If China Wins the AI Race?”. La tesi principale è che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a puntare alla leadership ma allo stesso tempo incominciare a concepire una strategia nel caso la sfida fosse destinata ad essere persa. A vantaggio della Cina, i due esperti citano la superiore capacità di integrare le tecnologie dell’IA nel sistema produttivo. Ad esempio, già oggi Xiaomi con i suoi oltre 700 robot guidati dall’IA è in grado di produrre nel suo stabilimento di Pechino una macchina elettrica ogni 76 secondi. Un articolo apparso quasi contemporaneamente sul Wall Street Journal scrive che la strategia che Musk proverà ad attuare a Tesla, dopo il suo ritorno da Washington, sarà basata proprio sull’integrazione dell’IA nei processi industriali.
Da capo del Doge a chief engineer di un pezzo importante e altamente simbolico del sistema manifatturiero americano, il passo potrebbe essere meno lungo di quanto si creda. E se non sembra credibile ritenere che una rottura così rumorosa sia stata un gioco delle parti, non c’è dubbio che il nuovo assetto dei rapporti tra Musk e Trump possa essere più congeniale ad entrambi. Di fronte alla minaccia cinese, meglio concentrarsi sulle cose che contano di più e si sanno fare meglio. A partire dalla corsa al primato tecnologico.
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