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Ghostworking, perché sempre più persone fingono di lavorare


C’è chi il lavoro lo cerca, insistentemente e senza trovarlo, e chi – invece – l’occupazione ce l’ha ma non si impegna al meglio per meritarsi lo stipendio. Un vecchio luogo comune recentemente rispolverato da un report citato nel New York Post, tornando in auge quasi come specchio dei tempi odierni: è il fenomeno del “ghostworking“, quella situazione d’ufficio in cui i dipendenti fingono di lavorare in un misto di stress e incertezza per il futuro. Così, qualità e quantità della performance complessiva si rivelano non sufficienti e non proporzionate alla busta paga.

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Una tendenza che ha preso piede negli States ma che, a ben vedere, si presta anche a qualche riflessione in riferimento al mondo del lavoro italiano. Vediamo più da vicino e cogliamo anche l’occasione per chiarire in che modo e con quali strumenti, aziende e datori di lavoro possono contrastarla.

Dalle finte chiamate alle parole digitate senza senso, il ghostworking aguzza l’ingegno

I ritmi di lavoro non sono ritenuti all’altezza delle proprie aspettative e compatibili con il proprio equilibrio psico-fisico e il ghostworking non sarebbe altro che la conseguenza logica di questo disallineamento. Lo studio di Resume Now, centro online specializzato nella consulenza e ricerca di lavoro, inquadra una società statunitense affaticata, quasi logorata, da meccanismi lavorativi rigidi e poco vicini al benessere della persona. L’equilibrio tra vita privata e carriera, dopo essere stato messo a dura prova nella pandemia, sembra oggi più che mai instabile.

Il New York Post – quotidiano americano di taglio tabloid tra i più letti negli Usa – considera il citato report per descrivere una realtà occupazionale caratterizzata da un crescente trend di persone che simulano di essere impegnate per dare l’impressione – all’esterno – di essere produttive e, anzi, di essere addirittura le persone giuste per lo specifico ruolo in azienda.

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Oltre alla constatazione per cui il ghostworking è praticato non soltanto dai giovani o giovanissimi ma è un fenomeno intergenerazionale, la cosa davvero interessante della ricerca Resume Now è che – nel campione analizzato per raccogliere i dati – è emerso che quasi 6 dipendenti su 10 dipendenti ammette di adottare “tecniche” di ghostworking in modo regolare. E la pigrizia, o il timore di essere vittima di burnout –  talvolta – aguzza l’ingegno in modo davvero originale.

Tra le persone coinvolte per la realizzazione del report, è emerso ad esempio che circa il 23% – quasi uno su quattro – passeggia per l’ufficio con un quaderno sotto braccio per sembrare impegnato, il 22% digita parole senza senso alla tastiera, il 15% fa finte chiamate (con se stesso o con colleghi consenzienti) e il 15% tiene aperti file e fogli di calcolo, mentre visita siti web che nulla hanno a che fare con le attività aziendali. Invece, una minoranza non troppo piccola – il 12% – finge di partecipare a inesistenti call o riunioni, per scansare le mansioni giornaliere e risparmiare energie. La ricerca sottolinea anche che questi comportamenti sono tendenzialmente più diffusi in chi lavora da remoto. Senza dimenticare chi usa software per simulare il movimento del mouse e chi programma messaggi automatici per rispondere ai colleghi quando si allontana dall’ufficio, in orario di lavoro.

Cercare lavoro per non lavorare, il ghostworking è anche questo

Non solo. La ricerca si rivela interessante anche perché fuga ogni dubbio su un’abitudine.. poco consona all’ufficio. Un gran numero di ghostworker – infatti – usa l’orario contrattuale per cercare un’altra occupazione, magari più aderente alle proprie aspirazioni e attitudini, meglio retribuita oppure più vicina a casa. Resume Now spiega che il 24% dei partecipanti all’analisi ha modificato il proprio CV direttamente in ufficio, e una percentuale molto vicina – il 23% – invia candidature usando bellamente il pc dell’azienda.

C’è di più: uno su cinque risponde alle chiamate dei selezionatori direttamente dalla scrivania – alla totale insaputa del capo – mentre il 19% abbandona di nascosto la propria postazione per fare colloqui altrove. Ebbene sì. Quando si tratta di ingannare per risparmiare tempo ed energie – ma guadagnare denaro – le risorse si trovano eccome.

Le cause psicologiche di un fenomeno in espansione

Ma perché il ghostworking è così diffuso? Resume Now suggerisce che la risposta va cercata in un ambiente lavorativo in cui conta sempre di più la performance percepita, e non solo quella effettiva. Come si appare a colleghi e superiori e non come si è o cosa si fa. In sostanza, in uffici in cui la performance è spesso misurata sulla scorta della visibilità web – come lo status online, la partecipazione continua alle call o la rapidità nel rispondere a email e messaggi – il ghostworking è un meccanismo di difesa sia psicologica che lavorativa.

In altre parole, il clima di pressione costante genera la reazione del ghostworking, una soluzione temporanea, una scappatoia che permette al lavoratore – giovane o con esperienza – di fare una pausa mentale, senza fare brutta figura innanzi all’azienda.

E se il ghostworking è così diffuso è forse il sintomo – suggerisce la ricerca citata – di una cultura aziendale che necessita di essere rivista del tutto. Beccare chi finge può servire nel breve periodo per inserire al suo posto una persona produttiva, ma nel lungo termine è preferibile allestire un ambiente di lavoro sano e realmente collaborativo, in cui le persone vogliano davvero contribuire e non solo sopravvivere.

Come scoprire i dipendenti che fingono di lavorare

Vediamo ora in un elenco sintetico, con quali modalità e strumenti, è possibile individuare chi bara sul lavoro, violando il contratto e adottando tecniche di ghostworking:

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  • software di monitoraggio, i quali di tracciare dettagliatamente le attività svolte sui computer aziendali e di registrare quanto tempo un dipendente trascorre su specifici programmi o task. Ci sono strumenti digitali che analizzano l’uso delle applicazioni, le modifiche a file condivisi, la digitazione sulla tastiera, i clic del mouse e il tempo di inattività;
  • analisi della frequenza e della durata delle riunioni, con il confronto tra tempo speso in meeting e quanto prodotto individualmente, insieme al controllo dell’effettiva partecipazione (audio, video, interazioni) durante le call;
  • analisi dei flussi di comunicazione interna, perché un’azienda può individuare anomalie anche osservando l’uso eccessivo di chat non lavorative durante l’orario d’ufficio o l’invio di email di facciata, spesso ridondanti o senza scopo;
  • controlli sulle uscite e sugli accessi, alcuni ghostworker che lavorano in presenza, escono di nascosto per sostenere colloqui o sbrigare attività personali. Badge elettronici, sistemi di accesso controllato e videosorveglianza nelle aree comuni – ove consentito dalla normativa sulla privacy (GDPR) – sono strumenti utili a evitare questi comportamenti.

A ben vedere, la soluzione vera è però alla fonte del problema: non più il controllo esasperato o micro-management o l’ossessiva ricerca della performance, ma i valori della fiducia, della leale autonomia e della meritocrazia, gli ingredienti più adatti a evitare che il lavoratore cada nel ghostworking, rischiando di subire una sanzione disciplinare.





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