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Tra benessere aziendale e solitudine lavorativa


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Cresce il welfare aziendale – Eudaimon

Il welfare aziendale è in crescita, ma deve fare i conti con le richieste dei lavoratori alla ricerca continua di benessere e motivazioni. Oltre che con il rischio emergente della solitudine lavorativa. Il lavoro non è più solo un mezzo per accumulare ricchezza, ma un elemento centrale dell’equilibrio personale, da costruire su misura delle proprie esigenze. I dipendenti non cercano solo stipendi competitivi, ma un equilibrio tra vita professionale e privata, benessere olistico e tempo da dedicare a sé stessi e ai propri affetti. Un cambiamento che riflette un nuovo sentiment non solo italiano, ma addirittura globale: il benessere sul posto di lavoro conta più della semplice retribuzione. Il 62,8% dei consulenti del lavoro segnala una crescita del welfare aziendale tra 2023 e 2025, con il Nord Est in testa come area geografica. Il valore delle prestazioni è aumentato per il 48,2% degli intervistati. Commercio (46,6%) e industria manifatturiera (46,1%) sono i settori con maggiore diffusione di welfare tra le pmi. È quanto emerge dal III Rapporto della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, realizzato in collaborazione con Pluxee: Il welfare aziendale: diffusione e prospettive nelle pmi. Ma quali sono i driver principali della crescita? Essenzialmente tre: maggiore conoscenza degli strumenti (51,2%), necessità di compensare l’erosione del potere d’acquisto (40,2%) e inserimento nei contratti collettivi (38,5%). Nei prossimi tre anni, il 76,4% dei consulenti prevede un’ulteriore crescita del welfare, specie sul fronte del sostegno economico, conciliazione vita-lavoro e salute. Quali sono gli strumenti di sostegno al reddito in crescita? Secondo il 62,4% dei consulenti del Lavoro, crescerà l’utilizzo dei buoni pasto; per il 57%, aumenteranno i buoni multicategoriali, mentre per il 53,6% si amplierà il ricorso ai buoni benzina. In quest’ottica, la digitalizzazione è vista come chiave di svolta: secondo i consulenti, la digitalizzazione migliorerebbe varietà e flessibilità dei servizi (75,3%), crescita del welfare (70,4%), gestione amministrativa (70,2%) e soddisfazione lavoratori (69,1%). ​

A testimoniare questo cambio di rotta nell’individuazione delle priorità dei lavoratori, soprattutto i più giovani, è The Guardian, che evidenzia come il trend sia particolarmente marcato per gli appartenenti alla Gen Z. Il 74% di loro, infatti, mette al primo posto un sano equilibrio tra vita privata e lavorativa, mentre solo il 68% considera la retribuzione come una priorità. Un segnale chiaro di come, nonostante l’odierna incertezza economica, il benessere personale stia progressivamente superando il peso dello stipendio nelle scelte professionali. Volendo far riferimento a uno scenario tutto italiano, anche in questo caso la trasformazione delle esigenze della forza lavoro emerge con chiarezza dall’VIII Rapporto Eudaimon-Censis sul welfare aziendale, dove la ricchezza si posiziona ormai terzultima tra i valori considerati più attrattivi dai lavoratori. È il benessere fisico e mentale, invece, a raggiungere la vetta della classifica (63,3%), seguito dalla tranquillità (41,3%) e subito dopo dall’equilibrio (36,2%). La ricerca di un impiego appagante passa anche attraverso la consapevolezza di sé e il benessere psicologico, come dimostra il 30% degli intervistati. «Stiamo assistendo a un cambio di rotta profondo e irreversibile: il lavoro non è più visto solo una fonte di reddito, ma un fattore che concorre in maniera determinante al raggiungimento di un certo benessere olistico – spiega Alberto Perfumo, ceo di Eudaimon –. Cresce il bisogno di un equilibrio tra vita privata e vita professionale, di tempo per se stessi, soprattutto tra i giovani della Generazione Z. I dati lo confermano: il work-life balance ha superato la retribuzione tra le priorità. E non si tratta di una moda passeggera, ma di un chiaro sintomo di una ben più profonda trasformazione culturale, in cui il benessere diventa un criterio guida nelle scelte di carriera. Per le aziende, non è più un’opzione ma un impegno concreto. Il welfare aziendale, se ben progettato, è la risposta più efficace a queste nuove esigenze. Di fronte a questo scenario, le aziende devono adattarsi alle nuove esigenze dei lavoratori e ripensare il concetto stesso di welfare: non più pacchetti standardizzati, ma percorsi personalizzati, in grado di rispondere alle diverse necessità. Perché oggi, più che mai, il vero valore del lavoro non si misura solo in busta paga, ma dalla qualità della vita che è in grado di garantire».

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Ecco quali sono oggi le dieci priorità dei lavoratori:

  1. Per il 63% dei dipendenti la salute occupa il primo posto: in misura equivalente sia fisica, sia mentale. Il benessere psicofisico, infatti, rappresenta un valore fondamentale per coloro che desiderano adottare uno stile di vita sano.
  2. Il 42% delle persone coinvolte nell’indagine associa il benessere lavorativo alla tranquillità, intesa come un ambiente collaborativo e privo di stress, che favorirebbe una maggiore concentrazione e una gestione più serena delle sfide quotidiane, professionali e non.
  3. Il 34% delle persone sceglie l’equilibrio come emblema di benessere individuale. Quest’ultimo, visto come la capacità di bilanciare in modo armonioso gli aspetti della vita privata e lavorativa, è considerato cruciale per evitare il sovraccarico emotivo.
  4. Il 30% delle persone coinvolte nell’indagine associa il benessere al tempo dedicato a prendersi cura di sé, ovvero la capacità di ritagliare del tempo all’interno della routine per dedicarsi alla cura del proprio corpo e della propria mente.
  5. La famiglia viene associata al benessere dal 26,5% delle persone coinvolte nell’indagine ed è considerata una fonte fondamentale di supporto emotivo e stabilità. Il legame familiare è visto come essenziale per creare un ambiente di sicurezza e affetto, che contribuisce al benessere individuale e alla serenità generale.
  6. La sicurezza sul lavoro, invece, viene scelta dal 20% dei dipendenti, considerata da questi un elemento chiave. Questo riflette quanto sia fondamentale per le aziende garantire un ambiente lavorativo stabile e protetto, che contribuisce all’equilibrio psicofisico e alla tranquillità individuale.
  7. Per l’11% delle persone intervistate, il benessere è legato alla consapevolezza di sé, o mindfulness. Questa pratica non solo favorisce una maggiore sicurezza nelle proprie scelte quotidiane, ma aiuta anche a gestire meglio le sfide lavorative. Essere consapevoli di sé permette di creare opportunità, intrattenere rapporti più sani e vivere ogni momento con una visione più chiara della vita.
  8. Ed ecco che arriviamo al sorprendente dato sulla ricchezza, scelta come simbolo del benessere solamente dal 9% delle persone intervistate. Questo risultato dimostra come, pur riconoscendo l’importanza della stabilità economica, la ricchezza non sia più considerata un valore centrale la qualità della vita individuale, lasciando spazio ad altri fattori legati alla sfera personale e relazionale.
  9. Per l’8% delle persone intervistate, il benessere è strettamente legato alla percezione del futuro. Avere una visione chiara e positiva del domani conferisce sicurezza, motiva ad affrontare le sfide quotidiane e permette di orientarsi verso opportunità, creando una base solida per una vita soddisfacente e realizzata.
  10. Arriviamo infine al divertimento, prediletto solo dal 4,5% degli intervistati. Questo evidenzia come, seppur apprezzato, il divertimento non venga percepito come un valore fondamentale per il benessere, rispetto ad altri aspetti più significativi della vita quotidiana dei lavoratori odierni.

Oltre otto lavoratori su dieci si sentono soli

I lavoratori soffrono sempre più spesso di solitudine. Secondo un’indagine ripresa anche da Nature, sono più di otto su dieci i dipendenti di Brasile, Cina, Germania, Regno Unito e Stati Uniti che dichiarano di sentirsi soli nei luoghi di lavoro (82%). A livello globale, il report State of the Global Workplace di Gallup ha rilevato inoltre come un dipendente su cinque si senta solo al lavoro mentre, tra i lavoratori italiani, uno su 4 (25%) dichiara di provare tristezza e isolamento ogni giorno. Tra le generazioni, secondo quanto riportato anche da Fortune, sono gli appartenenti alla Gen Z a sentirsi maggiormente isolati sul luogo di lavoro (30%), rispetto al 22% registrato nelle altre fasce d’età. In Giappone uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Tokyo ripreso dal Japan Times ha scoperto che una persona su 10 si sente “sempre sola” al lavoro, con la percentuale che aumenta tra coloro che lavorano per molte ore. L’impatto negativo della solitudine sul lavoro si estende ben oltre il benessere individuale, mentale e fisico, influendo anche su produttività, grado di coinvolgimento dei collaboratori e prestazioni dell’organizzazione. Uno studio della Campaign to End Loneliness promosso dalla Sheffield Hallam University ha rilevato che le persone che si sentono spesso sole hanno maggiori probabilità di dichiarare una minore soddisfazione lavorativa e un minore coinvolgimento sul luogo di lavoro. Un’altra ricerca pubblicata sull’Harvard Business Review ha rilevato che i dipendenti solitari sono meno produttivi e dimostrano un minore impegno nei confronti della propria organizzazione. Un trend negativo che ha effetti devastanti anche sull’intera economia globale. Nel Regno Unito si stima ad esempio che la solitudine dei lavoratori costi agli imprenditori, in termini di calo della produttività e aumento dei tassi di assenteismo e turnover, fino a 2,5 miliardi di sterline all’anno. Negli Stati Uniti, invece, come riportato da Harvard Business Review, l’assenteismo correlato allo stress attribuito alla solitudine costa ai datori di lavoro circa 154 miliardi di dollari all’anno. La solitudine lavorativa, come da monito lanciato anche dall’Oms, nel corso degli anni è diventata sempre di più una vera e propria epidemia ma una nuova cura è a portata di mano ed arriva direttamente dall’Italia. Nel Bel Paese infatti, con l’intenzione d’invertire la rotta e far finalmente comprendere a tutti il valore inestimabile delle relazioni, nel business come nella vita quotidiana, è nato il Manifesto per far entrare la società in una nuova era, quella del Relazionésimo”: un progetto sostenuto da un pool di esperti sociologi, psicologi ed economisti, che lavorano a stretto contatto con imprese e istituzioni. La Fondazione Relazionésimo intende valorizzare e promuovere il capitale relazionale, umano e narrativo delle persone, delle imprese e delle istituzioni, attraverso il dialogo tra le generazioni. Per riuscire a portare tutta la forza della “era del Relazionésimo” nelle dinamiche di sviluppo dei territori, la Fondazione Relazionésimo ne ha sviluppato il Manifesto, sintetizzato in questi dieci punti e consultabile integralmente a questo link (relazionesimo.com/il-manifesto):

  1. La persona è il centro dell’agire: l’individuo, unico e insostituibile, si rapporta all’altro non come mezzo ma come fine, soggetto di una tensione relazionale per la sua crescita spirituale, culturale e civile.
  2. Le relazioni devono rappresentare la bussola della vita: le relazioni sono un bene primario ed essenziale per misurare la qualità di vita. I comportamenti umani producono un “effetto relazionale” che a sua volta genera valore che può essere tangibile o intangibile, materiale o immateriale.
  3. La responsabilità deve diventare un bene comune: un legame sociale e di relazione di cura delle persone, della comunità e del pianeta in un circuito di reciprocità, interminabile e sempre aperto.
  4. Misurare il valore delle relazioni: le relazioni sono un bene primario ed essenziale per misurare la qualità del vivere e il loro valore, materiale o immateriale, va sempre misurato e rendicontato per monitorare il ritorno economico, personale, sociale e civile.
  5. Valorizzare il “prendersi cura”: le imprese, le organizzazioni e le istituzioni sono chiamate a introdurre nella loro rendicontazione economica, una quota di valore destinata al “prendersi cura” delle persone, delle comunità di appartenenza e dell’ambiente.
  6. Annullare le distanze per produrre valore: i servizi e le dinamiche sociali all’interno delle città devono basarsi sulla prossimità, fattore chiave per alimentare nuove soluzioni di cura e assistenza e uno sviluppo sostenibile, capace di ridurre i costi sociali e produrre valore condiviso.
  7. Tramandare un’eredità alle future generazioni: l’eredità, ricevuta o lasciata, è data dalla ricchezza integrale che è composta dalla somma di beni materiali e immateriali, di valori tangibili e intangibili. Un’eredità che le persone hanno il dovere di conservare, far crescere, tramandandola responsabilmente alle future generazioni.
  8. Dare lucea all’Impresa-Comunità: l’impresa, intesa come organizzazione sia a profitto privato, sociale e pubblico, assume la postura della C-Corp (Impresa-Comunità) per attivare relazioni di reciprocità, collaborazione e cooperazione con i livelli istituzionali e con le forme di cittadinanza attiva, creando valore condiviso.
  9. Stop a pregiudizi e discriminazioni: L’attività di Relazionésimo ha solide radici nel rispetto, nella reciprocità, nella giustizia, nella solidarietà e nell’assenza di pregiudizi e discriminazioni, fonti di disuguaglianza economica.
  10. Superare la dicotomia pubblico vs privato: praticando innovazione sociale e adottando nuove soluzioni generative sarà possibile attuare dei cambiamenti profondi, caratterizzati da una cultura delle relazioni pervasiva che sarà in grado di strutturare e riorientare lo sviluppo dell’economia dei territori.

Il 57,4% favorevole all’ascolto digitale

Tra la ricerca del benessere mentale, stress lavorativo, contrasti intergenerazionali e ricerca di ambienti più flessibili e inclusivi, cresce tra i lavoratori il desiderio di ascolto tramite servizi aziendali di counseling digitale: il 57,4% dei lavoratori mostra interesse verso l’adozione in azienda di servizi di ascolto a distanza per discutere difficoltà personali e professionali. Il bisogno di momenti di confronto tramite colloqui è particolarmente sentito tra i più giovani, dove la disparità generazionale pesa maggiormente: il 56,6% ritiene di ricevere un trattamento meno favorevole rispetto ai colleghi più anziani. È quanto emerge dalla ricerca Scenari Welfare di Issim, associazione apolitica e senza fini di lucro che opera nel settore del welfare aziendale, realizzata in collaborazione con AstraRicerche. L’indagine, effettuata su un campione di oltre 800 lavoratori di azienda di età compresa tra i 18 e i 65 anni, fotografa lo status attuale del welfare in Italia.

L’ascolto digitale è un tema fortemente attuale, la cui necessità è esplosa durante la pandemia da Covid-19. Il servizio di ascolto, nato come risposta a un’emergenza, si è rivelato utile anche nel contesto post-pandemico, soprattutto in un mondo del lavoro sempre più orientato verso il “full remote”. Il benessere mentale è la priorità più sentita tra i lavoratori (32,1%), seguito dai temi organizzativi (22%) e familiari (18,5%). Un altro dato rilevante riguarda la volontà espressa dal 42,9% dei lavoratori di poter partecipare a incontri online periodici — ad esempio ogni tre mesi — per confrontarsi e «fare il punto» sul proprio stato emotivo e lavorativo. Questo bisogno diffuso conferma quanto il counseling digitale non sia più solo un’opzione emergenziale, ma una risorsa concreta da integrare stabilmente nelle politiche aziendali di benessere.

La disparità generazionale è un tema fortemente avvertito nel mondo del lavoro, e i dati lo confermano: il 56,6% dei lavoratori ritiene che i giovani siano spesso trattati in modo meno favorevole rispetto ai colleghi più anziani, una percezione particolarmente diffusa nella fascia tra i 18 e i 34 anni. Nonostante questa criticità, la presenza dei giovani in azienda è generalmente vista come una risorsa preziosa. Il 47,6% dei lavoratori riconosce nei più giovani una maggiore confidenza con l’uso della tecnologia, mentre il 29,7% apprezza il contributo che portano in termini di energia e clima positivo all’interno dell’azienda. Per rafforzare il legame tra aziende e nuove generazioni, uno degli strumenti ritenuti più efficaci è rappresentato dai momenti di ascolto, come i colloqui individuali e il supporto digitale. Il 59,3% dei lavoratori, infatti, indica proprio queste attività come fondamentali per costruire un dialogo più costruttivo e migliorare il rapporto con i colleghi.

La conciliazione tra lavoro e vita privata resta una sfida per molti lavoratori italiani: solo il 13,1% dichiara di riuscirci senza difficoltà, mentre oltre la metà (54,9%) afferma di cavarsela abbastanza bene. Tuttavia, il sostegno delle aziende su questo fronte è percepito come insufficiente: solo il 40,7% dei lavoratori ritiene che ci sia un reale ascolto da parte delle direzioni aziendali, e appena l’8,4% lo definisce “molto presente”. Le principali fonti di disagio sono lo stress e la pressione legata alla gestione del tempo, con il 51,3% che lamenta difficoltà nel bilanciare lavoro e vita personale, aggravate da timori economici e incertezze sul futuro lavorativo. Inoltre, il 43,8% segnala una forte mancanza di tempo per sé e per la gestione familiare, e oltre un quarto accusa rigidità aziendali, difficoltà logistiche e reperibilità costante.

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La cultura dell’empowerment femminile risulta particolarmente radicata all’interno delle aziende multinazionali (47,6%) e delle grandi imprese (45,2%), mentre tende a essere meno diffusa nelle realtà di piccole e medie dimensioni.
Dall’indagine emerge tra le lavoratrici una chiara consapevolezza sull’importanza di affrontare le disuguaglianze di genere, un tema che molte organizzazioni riconoscono come prioritario. Contrastare queste disparità è possibile anche attraverso azioni quotidiane e concrete, come favorire la flessibilità per le donne con carichi familiari, offrire percorsi strutturati di crescita e sviluppo professionale, incentivare un dialogo aperto all’interno dei team e attivare strumenti di ascolto continuo all’interno dell’organizzazione.

Negli ultimi tempi, i programmi di Diversità, Equità e Inclusione (DE&I) sembrano essere passati in secondo piano nelle aziende italiane, complice anche l’influenza di alcune realtà internazionali — in particolare negli Stati Uniti — che hanno annunciato l’intenzione di ridurre o addirittura eliminare queste iniziative. Tuttavia, la percezione dei lavoratori è in gran parte divisiva: il 36,2% considera un errore abbandonare completamente i programmi DE&I, mentre un altro 36,1% auspica un approccio più bilanciato, che eviti eccessi ma non ne cancelli l’importanza. Sebbene una parte della popolazione lavorativa (27,7%) ritenga che queste iniziative possano andare contro il principio del merito o che non siano realmente essenziali, la maggioranza (72,3%) continua a riconoscerne il valore. Questo dato evidenzia come il tema della diversità e dell’inclusione resti centrale per molti, anche in un contesto di crescente dibattito sul loro ruolo nelle organizzazioni.

La sicurezza psicologica per la salute dei sistemi sociali

Secondo il report annuale Salary Guide 2025 realizzato dalla società di recruiting Hays Italia, infatti, per ben il 93% dei professionisti il benessere mentale sul posto di lavoro è un argomento prioritario e più di otto su dieci sono convinti che questo abbia un impatto positivo diretto sulle loro performance. Nonostante questo, quasi due terzi dei lavoratori (63%) si sentono poco supportati dagli imprenditori e dai manager, e per il 70% l’attenzione al benessere mentale non è una pratica integrata nella cultura aziendale. Inoltre, solo tre aziende su dieci offrono attualmente iniziative o programmi in questo ambito, e chi lo fa punta su flessibilità oraria (55%), sulla consulenza psicologica (46%), su sessioni di mindfulness o meditazione (28%) e sull’organizzazione di workshop dedicati al benessere e alla salute mentale (28%). Risultato? Secondo i lavoratori molto positivo: ben il 70% di chi usufruito di questi programmi ha riscontrato benefici, soprattutto in termini di migliore ambiente di lavoro (48%), di riduzione dello stress (42%) e di un migliore equilibrio tra vita lavorativa e privata (42%). Quali sono le iniziative che i lavoratori considerano di maggiore impatto sul loro benessere mentale? Sul podio troviamo più flessibilità oraria (54%), la consulenza psicologica (45%), i programmi di gestione dello stress (41%) e attività fisiche o sportive (29%).

In famiglia, a scuola e nell’ambiente di lavoro ci possiamo sentire psicologicamente sicuri, oppure no. Se percepiamo sicurezza psicologica, ci esponiamo per condividere idee, dubbi, paure, desideri, errori. Altrimenti tacciamo. Non diciamo “non sono d’accordo”, non facciamo proposte diverse, non chiediamo aiuto e ci teniamo per noi timori e fallimenti. Perché? Perché temiamo che esponendoci saremo giudicati negativamente (per esempio presuntuosi, stupidi, incompetenti, deboli) e non vogliamo correre il rischio di essere umiliati, puniti e marginalizzati. E così, in bilico tra “lo dico o non lo dico?”, se non percepiamo sufficiente sicurezza psicologica, scegliamo il silenzio. «Questi piccoli gesti di rinuncia quotidiana hanno un impatto gigantesco sulla qualità degli ambienti sociali in cui spendiamo la nostra vita – sottolinea Marina Capizzi, autrice di Non morire di gerarchia, Franco Angeli –. La scelta di tacere per il timore di assumerci un rischio relazionale troppo grande, infatti, limita la capacità di apprendere, di collaborare per trovare soluzioni, coltiva il malessere e insane zone di confort riducendo drasticamente il nostro potenziale di crescita individuale e collettivo. Purtroppo, l’“epidemia del silenzio” è una malattia sociale diffusa e invisibile. La sicurezza psicologica è l’antidoto. In famiglia, ad esempio, la percezione di un ambiente sicuro consente un dialogo trasparente tra tutti i componenti, aiuta ad affrontare argomenti difficili con minore fatica e a superare l’isolamento e la solitudine quando si vivono situazioni critiche o rischiose. Anche in classe, se c’è sicurezza psicologica, gli studenti sono stimolati a non tenere per sé le proprie difficoltà di apprendimento e di relazione, e questo supporta la loro evoluzione cognitiva e relazionale evitando che la scuola diventi un vivaio di futuri cittadini guidati dalla paura. Per quanto riguarda l’ambiente di lavoro, le ricerche di Amy Edmondson, docente di Harvard che ha reso famoso in tutto il mondo il concept della sicurezza psicologica, mostrano come la sua presenza o assenza contribuisca al successo o al fallimento dell’impresa. Nelle aziende in cui non c’è sicurezza psicologica, infatti, le persone non prendono iniziativa, non amano assumersi responsabilità, non si adoperano per cogliere opportunità, tacciono di fronte alle criticità e tendono a fare le cose come le si è sempre fatte, con il rischio di prendere decisioni sbagliate per assenza di contraddittorio. Le aziende che investono sulla sicurezza psicologica, invece, creano un ambiente di lavoro stimolante dove le persone possono esprimersi per contribuire ai risultati comuni, condividere gli errori per imparare e innovare. La possibilità di dare il proprio contributo, inoltre, attrae e trattiene i giovani e favorisce la motivazione e la crescita di tutti. Tante famiglie, scuole e imprese fanno molti sforzi per migliorare la comunicazione e la collaborazione, spesso con risultati non soddisfacenti. Investire sulla sicurezza psicologica significa investire sul terreno per fare attecchire questi sforzi».





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