L’inclusione viene spesso evocata più come ideale che come pratica quotidiana, e i luoghi di lavoro continuano a essere teatro di disuguaglianze e pregiudizi. È questo il dato che emerge con forza dalla ricerca intitolata “Oltre le diversità: percezioni, esperienze e bisogni”, realizzata da Tack TMI Italy, la divisione italiana di Gi Group Holding specializzata in formazione e sviluppo professionale. Lo studio ha coinvolto un campione rappresentativo di 1.500 lavoratori italiani attivi in diversi settori, con l’obiettivo di fotografare lo stato attuale della discriminazione sul lavoro.
L’indagine non si limita a confermare la persistenza di discriminazioni: mette anche in luce un altro elemento critico, ovvero l’inadeguatezza delle risposte messe in campo dalle imprese italiane per contrastare un fenomeno tanto radicato quanto dannoso. Sebbene la retorica della valorizzazione della diversità sia ormai entrata nel vocabolario aziendale, sono ancora poche le realtà che traducono le parole in strategie concrete e strutturate.
Il silenzio delle imprese di fronte alla discriminazione
La maggior parte dei lavoratori intervistati ha riferito di non aver mai assistito ad azioni sistematiche da parte delle aziende volte a prevenire o correggere episodi di discriminazione. Nella pratica quotidiana, la valorizzazione delle differenze resta un obiettivo teorico, mentre prevalgono politiche di gestione delle risorse umane ancora ancorate a modelli tradizionali. Solo una minoranza significativa delle imprese analizzate ha investito in programmi formativi dedicati alla sensibilizzazione su diversità e inclusione, e ancor meno sono quelle che dispongono di strumenti concreti per identificare e affrontare i bias inconsci.
Discriminazioni vissute e osservate
Il dato più inquietante riguarda però la frequenza con cui i lavoratori dichiarano di essere testimoni — o vittime — di discriminazioni. Nove italiani su dieci, secondo l’indagine, affermano di aver osservato almeno una volta comportamenti discriminatori nei confronti di colleghi, mentre più di uno su quattro (il 28%) ammette di averne fatto esperienza diretta.
Le forme di discriminazione più comuni sono legate al genere, all’età, all’origine etnica e allo status socioeconomico. Non mancano poi gli episodi legati all’orientamento sessuale o alla disabilità, sebbene su questi fronti la consapevolezza stia lentamente crescendo. Tuttavia, il fatto che la grande maggioranza degli intervistati abbia dichiarato di aver assistito a tali episodi, senza che vi siano stati reali interventi da parte dell’organizzazione, suggerisce un problema sistemico: la cultura aziendale italiana tende ancora a minimizzare o ignorare il problema, piuttosto che affrontarlo in modo proattivo.
Gli stereotipi che plasmano i ruoli
Al centro del fenomeno discriminatorio vi sono stereotipi culturali che, sebbene spesso inconsci, influenzano in modo decisivo la percezione dei ruoli lavorativi. I test effettuati nel corso dello studio confermano che molte figure professionali vengono ancora immaginate in modo standardizzato e stereotipato: il top manager è visto come un uomo caucasico di mezza età, il magazziniere come un giovane, italiano o straniero, mentre le mansioni di segreteria sono associate quasi esclusivamente a giovani donne. I ruoli amministrativi, invece, evocano l’immagine della “signora matura”, perpetuando un’idea statica delle professioni e delle competenze.
Questi schemi mentali, anche se raramente esplicitati, si traducono in scelte operative che finiscono per penalizzare i candidati che si discostano da tali rappresentazioni. Il risultato è un mercato del lavoro in cui la mobilità verticale è ostacolata da pregiudizi impliciti, e in cui la diversità viene spesso vissuta come un’anomalia da gestire, piuttosto che come una risorsa da valorizzare.
Una sfida culturale aperta
Se la presenza di pregiudizi nei processi di selezione e di valutazione del personale è un fatto assodato, ciò che emerge con maggior forza dalla ricerca è l’urgenza di un cambiamento culturale profondo. Il problema, infatti, non si risolve con interventi estemporanei o con la semplice adozione di un linguaggio “politicamente corretto”: servono percorsi strutturati di formazione, accompagnati da una revisione dei processi aziendali e delle politiche di gestione del capitale umano.
Il passaggio da un approccio passivo a uno attivo nella gestione della diversità richiede leadership consapevole, strumenti di monitoraggio e obiettivi misurabili.
L’urgenza di strumenti di prevenzione e monitoraggio
Molte imprese non dispongono nemmeno di meccanismi di segnalazione interna sicuri e accessibili, né di indicatori chiari per monitorare l’impatto delle loro iniziative in tema di diversità. In assenza di dati, qualunque politica inclusiva rischia di ridursi a un’operazione di facciata.
Inoltre, gli stessi lavoratori denunciano una scarsa fiducia nei confronti delle strutture preposte a tutelarli. Anche quando le aziende dispongono formalmente di policy contro le discriminazioni, spesso manca l’effettiva capacità (o la volontà) di applicarle in modo rigoroso. Le vittime di comportamenti discriminatori preferiscono quindi non denunciare, per timore di ritorsioni o per sfiducia nella possibilità di ottenere giustizia.
Leva per un cambiamento reale?
Tack TMI Italy insiste, nei risultati della ricerca, sull’importanza della formazione come leva per superare stereotipi e discriminazioni. I percorsi di training orientati allo sviluppo dell’intelligenza culturale e alla consapevolezza dei bias cognitivi possono svolgere un ruolo fondamentale nel modificare i comportamenti organizzativi. Ma è fondamentale che tali percorsi non siano occasionali o isolati: devono diventare parte integrante della strategia aziendale, coinvolgendo in primo luogo i livelli apicali.
Il management ha un ruolo chiave nella creazione di ambienti di lavoro più equi e inclusivi. Solo attraverso il suo impegno concreto — fatto di ascolto, trasparenza e responsabilità — si può imprimere un cambiamento duraturo. È necessario che i dirigenti comprendano che promuovere la diversità non è solo un atto etico, ma anche un fattore strategico: le organizzazioni più inclusive sono infatti anche le più innovative e performanti.
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