Gianfranco Pacchioni, docente di Chimica all’Università Milano-Bicocca, membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, è autore del volume Scienza chiara, scienza oscura. Ricerca pura, ricercamilitare, Big Tech (il Mulino 2025). Risponde alle nostre domande sui rischi del monopolio della ricerca scientifica e del sapere.
– Professor Pacchioni, cosa c’è di autobiografico in questo suo libro?
Lavoro da sempre per la ricerca in ambito pubblico, ma ho avuto esperienze anche in aziende private. Nel libro racconto di aver lavorato, negli anni Novanta, alla IBM, grande azienda statunitense di produzione di computer e software, dotata di centri di ricerca pura: ma anche allora, il mio lavoro è stato orientato a capire ciò che è fondamentale, piuttosto che a sfornare nuovi prodotti per il mercato.
Attraverso queste esperienze e in un arco di tempo di qualche decina d’anni ho notato profonde e preoccupanti trasformazioni, di cui ho voluto rendere conto con questo libro.
– Cercheremo di scendere nel dettaglio. Ci può già dire qual è l’asse della trasformazione?
Chi, come me, vive da tempo nel mondo della ricerca scientifica, ha notato un netto spostamento di asse: da una ricerca libera o quanto meno svincolata dal raggiungimento di determinati obiettivi ad una ricerca sempre più indirizzata a specifici obiettivi e interessi.
L’effetto, evidente, che abbiamo sotto gli occhi è che i finanziamenti per la ricerca sono dedicati a certi e pochi temi, e che la maggior parte dei ricercatori è concentrata su di questi. Ciò determina una spinta notevole della ricerca verso applicazioni per il mercato, e restrizioni della ricerca fondamentale intesa in senso lato.
Questo avviene di pari passo con lo sviluppo delle Big Tech, aziende che hanno dimensioni, risorse e potenzialità inimmaginabili per le sorti del mondo.
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– Ci può spiegare meglio la differenza tra ricerca pura e ricerca applicata? Perché è importante che ci sia una ricerca fondamentale libera da ogni vincolo di interesse privato?
La ricerca pura è orientata alla pura conoscenza. La ricerca applicata è orientata alla soluzione di problemi. Ma una linea di confine netta, chiaramente, non esiste. Ogni ricerca può essere più o meno libera, più o meno finalizzata.
Tuttavia, la ricerca è quanto più libera e pura quanto più è condivisa, ossia quanto più le potenzialità di applicazione vanno a beneficio di tutti, diciamo di tutta l’umanità. E questa è – o dovrebbe essere – la caratteristica della ricerca pubblica, finanziata con pubblico denaro, ad esempio, nelle università. Mentre – ed è facilmente comprensibile – le aziende private hanno interesse a tradurre i risultati della loro ricerca in prodotti per i clienti, che poi siamo noi tutti, almeno quelli di noi che se lo possono permettere.
Come ho anticipato e come ho scritto nel mio libro, stiamo osservando da tempo un costante aumento degli investimenti privati in ricerca, rispetto agli investimenti pubblici. Le aziende investono sempre di più per l’innovazione dei loro prodotti, e sin qui niente di male. Ma la ricerca privata è tutto il contrario di una ricerca pubblica, aperta, trasparente e condivisa e a beneficio di tutti.
– È “solo” una questione di proporzioni o anche di indirizzi?
È l’una e l’altra cosa, ove le dimensioni delle aziende determinano una sorta di monopolio del sapere. Non si tratta più solo, ad esempio, di aziende che producono farmaci coperti da brevetti e quindi di prodotti esclusivi, bensì di poche aziende di grandissime dimensioni che posseggono tutte le informazioni che servono per costruire il futuro tecnologico e quindi economico e sociale del mondo.
– Ci può fare degli esempi?
Nel libro racconto, ad esempio, la “scoperta” di fisica fondamentale avvenuta nel 1937 riguardo alla risonanza magnetica nucleare, quella che oggi è normalmente usata negli ospedali. Oggi sono circa 50.000 gli strumenti diagnostici installati e funzionanti nel mondo. All’epoca, non si aveva alcuna idea di quale potesse essere l’applicazione positiva di quella scoperta. Solo dopo oltre 50 anni di sforzi e diversi premi Nobel, si è riusciti a passare da un nuovo fenomeno fisico rilevato a una potente tecnologia.
Un altro esempio clamoroso – che si trova nel libro – è quello di Alessandro Volta che ha mostrato la sua pila per generare corrente elettrica a Napoleone: questi avrebbe detto «a cosa serve questa roba?»; oggi, naturalmente, non sapremmo più vivere senza corrente elettrica e batterie.
A volte corrono anni e anni tra la scoperta scientifica pura e una sua positiva applicazione, mentre a volte il tempo è più breve: occorrono comunque sempre tempi per lo studio, la ricerca, i tentativi, e tutto questo costa. Ed è ben per questo che la ricerca libera e pura ha bisogno del finanziamento pubblico dei governi e delle istituzioni. Le aziende private cercano invece ricadute applicative in tempi brevi, sempre più brevi; normalmente non sono interessate ai tempi lunghi.
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– Ma anche le aziende private risolvono problemi del mondo?
Le aziende si pongono obiettivi che hanno evidentemente a che fare con la vita della gente: producono qualsiasi cosa interessante che possa essere commercializzata, dal dentifricio al farmaco, alla app che ci consente di risolvere un problema logistico che incontriamo quotidianamente nella nostra vita.
Ma ciò che le Big Tech stanno operando va al di là di una soluzione commerciale dei problemi, perché stanno introducendo tecnologie trasformative dell’umano: faccio riferimento all’Intelligenza Artificiale, ma non solo; parlo di computer quantistico e di velocità di calcolo e di trasferimento delle informazioni, di decodificazione delle criptografie che dovrebbero proteggere i nostri dati personali e le nostre idee, di impianti di “macchine” nel corpo umano… di controllo della salute (un business enorme).
Diventa sempre più chiaro che chi possiede le tecnologie e i “dati” ha sempre più potere: un potere che si estende sulle stesse esistenze umane.
– La minaccia che sta descrivendo sta nel sistema ed è, dunque, inevitabile?
Esprimo una forte preoccupazione: la concentrazione in poche mani delle potenzialità a cui ho accennato, è pericolosa. Finché sono stati presenti sulla scena mondiale tanti attori in un regime di vasta concorrenza e di larga diversificazione di ricerche e prodotti, questo pericolo non c’era o era molto meno attuale.
– Ritiene, in questo quadro, che sia in discussione la democrazia così come noi la conosciamo in Occidente?
È indubbio che la presenza di attori iper-potenti generi un problema di controllo politico e quindi di democrazia.
– Chi determina, allora, il nostro futuro: la politica o il mercato?
Nel libro descrivo un fenomeno che risponde, almeno in parte, a questa difficile domanda. Il libero mercato fa nascere e crescere, continuamente, le cosiddette start-up, ossia piccole società private – all’inizio di pochi soci e dipendenti – che sviluppano un’idea innovativa.
Ma cosa è successo e succede ancora? Queste piccole società di successo divengono ad un certo punto, per forza di cose, satelliti delle grandi aziende, ovvero vengono assorbite dalle stesse aziende di cui ho parlato. I Big Tech hanno applicato questa strategia su larga scala, arrivando ad accrescere enormemente il patrimonio della propria conoscenza e della propria capacità di sviluppo, in tutti i campi.
Perciò rispondo alla domanda così: è, in primo luogo, il mercato a determinare le sorti dell’economia, con ciò che ne consegue. Con questo non voglio dire che i governi e la politica non contino più niente.
– Quanto pesano i governi sulla ricerca scientifica?
I governi possono ancora indirizzare la ricerca e le sue applicazioni individuando priorità pubbliche. Il P.N.R.R. in Italia sta riversando una quantità di risorse apprezzabile sulla spesa pubblica e quindi sulla società italiana: in fatto di digitalizzazione delle reti, di transizione e di clima, di agricoltura ecc., ossia su materie di pubblico e collettivo interesse.
Il limite sta nella residualità della ricerca pura e creativa, anche in ambito pubblico, oltre che nella asimmetria per cui l’attività privata può beneficiare dei risultati della ricerca pubblica aperta e condivisa e quindi facilmente accessibile, mentre l’attività di ricerca pubblica non beneficia, in genere, della ricerca privata, perché questa è chiusa per definizione.
Da questa costatazione o considerazione viene il titolo del mio libro, Scienza chiara, scienza oscura, ove la scienza chiara è quella pubblica, aperta e condivisa; quella oscura è quella privata, in mano a poche grandi aziende mondiali.
– Esiste una scienza oscura, ma pubblica?
Nel libro tratto anche di scienza al servizio del settore militare. La ricerca militare sta anche nel sottotitolo. Nel settore militare – da sempre – alberga una scienza oscura, ovvero non certo trasparente, per ovvi motivi.
Ho cercato di dare una dimensione quantitativa della ricerca scientifica in ambito militare, benché sia molto difficile recuperare dati al riguardo. Il Paese che investe maggiormente al mondo in ricerca applicata al militare sono gli Stati Uniti: su 130-140 miliardi di dollari all’anno in spesa pubblica in ricerca, la metà almeno va al settore militare; i Paesi europei investono un po’ meno della metà, complessivamente; Israele quasi il 100%.
Sull’Italia è difficile trovare dati leggibili. Sì, perché è sempre meno chiaro – ma questo è vero ovunque – quale sia la ricerca finalizzata al militare e quale non lo sia. La ricerca aerospaziale, ad esempio, è militare o non lo è? Sappiamo bene che, a suo tempo, nel clima del confronto Est/Ovest, “l’uomo è andato sulla luna”, non certo a farsi una passeggiata, quanto per ragioni di supremazia militare. Le due cose, anche oggi, dunque, stanno spesso assieme.
La ricerca militare oggi non ha “semplicemente” a che fare con aerei, carri armati, missili… fucili e munizioni. Ha che fare con molto altro. Pensiamo alla cosiddetta cybersicurezza. Si è saputo che in Cina si sta valutando l’eventualità di una guerra che non fa morti, almeno da armi “tradizionali”, ma bensì dalle conseguenze non meno o ancor più devastanti, riuscendo a privare, ad esempio, di corrente elettrica interi paesi e popolazioni: terribile! Se lo pensano in Cina, sicuramente lo pensano anche da altre parti.
Molto o moltissimo va dunque alla ricerca militare, anche se non è facile sapere, per più ragioni, con precisione, quanto vada a finire in questa direzione: è scienza oscura anche questa.
– Evidentemente la scienza militare la preoccupa. Ci dobbiamo molto preoccupare, anche noi?
Se guardo al passato, alle guerre combattute con le pietre, poi col rame e poi col bronzo sino all’acciaio e oltre, trovo poche ragioni per pensare che avvenga qualcosa di diverso – ora e in futuro – nel settore militare. Insieme a tanti della mia o della nostra generazione ho sognato un’inversione di tendenza.
Purtroppo, stiamo riaprendo gli occhi su una realtà funesta. Il settore militare, anche convenzionale, si avvale delle ricerche più “avanzate” e delle “migliori” tecnologie (aggettivi tra virgolette in questo caso).
– Il settore militare è uno dei campi dell’uso duale della ricerca scientifica?
Nel libro faccio più di un esempio di uso duale. Le nuove tecnologie possono essere usate in un modo o nell’altro opposto: per la vita oppure per la morte.
Una scossa elettrica di 3.000 volt applicata ad una persona infartuata – col defibrillatore – può salvare la vita a quella persona. La stessa scarica elettrica di 3.000 volt prolungata e applicata ad una persona legata alla sedia elettrica, le dà la morte.
Non è certamente l’energia elettrica ad alta tensione il “male”, ma l’uso che se ne può fare. La stessa cosa si può dire oggi di tutte le nuove tecnologie, dalla I.A. alle Neuroscienze: possono lenire le sofferenze del genere umano oppure accrescerle.
Facciamo il caso delle neuroscienze: oggi già è possibile impiantare elettrodi nel cervello. La Neuro-link di Elon Musk sta velocemente procedendo con esperimenti di questo tipo. Ed è indubbio, secondo me, che l’umano del futuro arriverà normalmente ad avere dispositivi elettronici integrati nel proprio organismo: questo potrà essere molto importante per recuperare funzioni perdute in condizioni di disabilità, ma potrà anche aumentare le normali funzioni e potenziarle. Si aprono qui dilemmi etici a non finire.
Ed è chiaro che il settore militare è tra i primi, se non il primo, ad essere interessato a queste ricerche.
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– Ritorna il tema della politica e della democrazia: chi può controllare e garantire l’uso buono della ricerca?
Bisogna contare sull’effettiva democraticità dei governi. Là dove ci sono grossi investimenti in Paesi non democratici, la preoccupazione è grande. Questi tendono ad usarli in maniera aggressiva. La questione della democrazia, perciò, è centrale per il nostro futuro.
Quando, negli anni Novanta, ero alla IBM – colosso delle telecomunicazioni insieme, allora, alla AT&T – l’agenzia antitrust americana è intervenuta per spezzare il suo monopolio dando luogo a diverse compagnie di settore, più piccole, per garantire la giusta concorrenza.
Ciò non è avvenuto in seguito con le Big Tech: negli anni 2000, sia l’amministrazione di George Bush sia quella di Barak Obama, non sono intervenute quando sarebbe stato ancora possibile limitarne lo strapotere; ora ritengo che sia assai improbabile che ciò avvenga: anzi ora vediamo un Presidente come Donald Trump che si adira con l’Europa perché cerca di mettere vincoli alle aziende Big Tech.
Il fatto che siano 5, al massimo 10, gli attori in grado di esercitare un enorme potere sul mondo, ci dovrebbe molto preoccupare. È compito nostro – è compito di tutti – saperlo e cercare di arginare questa tendenza con la partecipazione democratica e la buona politica.
– La ricerca scientifica, il possesso delle tecnologie e dei dati, quanta parte hanno o avranno nella geopolitica?
È indubbio il confronto/scontro in atto tra Occidente e Oriente su questo terreno, soprattutto su questo terreno. Ma voglio essere ottimista: penso che la nostra Europa possa giocare un ruolo importante nel quadro geopolitico mondiale, perché possiede la capacità di coniugare cultura e sviluppo, valori umani ed economia, regole sociali e sviluppo tecnologico.
Solo l’Europa sta attualmente cercando di regolamentare l’uso della I.A. e l’uso dei social gestiti dalle aziende Big Tech. Ciò non sta avvenendo negli Stati non-democratici. Quanto agli Stati Uniti, oggi, non so in che modo classificarli.
La nostra vecchia Europa è l’unica àncora di salvezza in mezzo alle derive che ho descritto. Chiaramente non so come andrà a finire. Ma io voglio contare su un fine positivo. Per questo ho scritto questo libro: per dare un contributo alla crescita della nostra facoltà di conoscenza, di consapevolezza e di controllo, come ho scritto, quali cittadini europei e del mondo.
– Vuole lasciarci una nota “chiara” in un quadro piuttosto “oscuro”?
Nei dibattiti a cui partecipo per la presentazione di questo libro e non solo, affiora, quasi sempre, la “contraddizione” finale. Ci sono tante ragioni di pessimismo, è vero. Ma io dico, specie ai giovani, che bisogna sempre battersi per rendere le cose che vogliamo possibili. Sono mosso da un mix di allarme e di fiducia.
– Possiamo confidare nella scienza e nelle persone di scienza?
Non si tratta di avere una fiducia cieca, evidentemente. Va promossa, anzi, la conoscenza di un metodo scientifico che procede per tentativi, con possibili errori, con cambiamenti di rotta, ma sempre guidato dal rigore e sulla base delle conoscenze raccolte sino al momento.
D’altro canto, vanno contrastate tutte le derive antiscientifiche, di cui abbiamo peraltro noti campioni: si pensi ai politici no-vax. Vanno autorevolmente contrastate poi tutte le fake-news profuse nella rete, spacciate da gente che non ne sa nulla e che incontra, purtroppo, molta credibilità o, meglio, credulità.
Mi è caro il ricordo di papa Francesco e del suo magistero sull’ambiente, molto ben curato anche dal punto di vista dell’informazione scientifica. La Laudato si’ e la Laudate Deum restano due documenti molto importanti – per autorevolezza della fonte – anche per noi docenti, persone di scienza.
Possiamo solo confidare di riuscire a coniugare scienza ed etica per il bene dell’umanità.
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