Dalla crisi dei semiconduttori che ha rallentato l’industria automobilistica alla carenza di principi attivi farmaceutici durante la pandemia: diversi eventi recenti hanno reso evidente la vulnerabilità strutturale dell’economia europea e italiana.
Un’interruzione in una parte del mondo può generare effetti a cascata che si ripercuotono direttamente sulla capacità produttiva e sulla vita di tutti i giorni. Ma quali sono i punti deboli del sistema industriale? E dove si annidano le vulnerabilità più significative per l’Europa e per l’Italia? A offrire una risposta a questi quesiti, con una mappatura precisa di queste criticità, è la dettagliata analisi pubblicata a giugno 2025 dal Centro Studi Confindustria, il Working Paper “Cracks in the Chain: Mapping European Import Dependencies in Global Industrial Networks” a cura degli economisti Matteo Pignatti e Chiara Puccioni.
Gli autori analizzano le vulnerabilità delle catene globali del valore in un contesto di crescente frammentazione politica e continue crisi, con particolare attenzione ai settori strategici per le transizioni verde e digitale.
Le dipendenze critiche dell’industria nell’Unione Europea e nei singoli Stati membri sono identificate in base a molteplici fattori: la concentrazione delle importazioni, il saldo commerciale, i profili di rischio dei Paesi fornitori, la sostituibilità con prodotti domestici, europei o di altri grandi esportatori mondiali.
L’analisi, basata su dati di commercio bilaterale per oltre 5.000 prodotti, mette in evidenza la difficoltà strutturale nel diversificare le fonti di approvvigionamento e le implicazioni strategiche per l’Europa nel confronto con Cina e Stati Uniti.
L’indagine, tuttavia, non si limita a fotografare i rischi: come vedremo, si spinge fino a delineare una strategia concreta per rafforzare la resilienza dell’industria europea.
Il nodo della concentrazione delle forniture
Lo studio muove dall’assunto che il problema principale non è tanto il fatto in sé che un Paese importi dei beni dall’estero. La criticità è tale quando, per alcuni di questi beni, si dipende da un numero eccessivamente ristretto di fornitori.
Quando l’approvvigionamento di un componente o di una materia prima è legato magari solo a uno o due paesi, infatti, qualsiasi shock in quell’area, sia esso di natura politica, climatica o logistica, si trasforma in una minaccia diretta per le filiere a valle. Questo fenomeno, noto come concentrazione delle importazioni, è il fattore di rischio individuale più rilevante che emerge dall’indagine.
In questo scenario la Cina si conferma il partner da cui l’Europa e gli Stati Uniti dipendono in modo più accentuato per un’ampia gamma di prodotti. La sua posizione è dominante in settori ad alto contenuto tecnologico, come l’informatica e le comunicazioni (ICT).
Il dato più eloquente riguarda però un gruppo di prodotti industriali identificati come dipendenze critiche condivise da Italia, Francia e Germania: per questi beni, ben il 78% del valore delle importazioni proviene dalla Repubblica Popolare Cinese. È un’indicazione chiara di come la specializzazione produttiva globale abbia creato legami molto stretti, ma anche potenzialmente rischiosi, con l’economia di Pechino.
L’identikit delle dipendenze strategiche
Cosa include, nello specifico, questo nucleo di dipendenze comuni? L’analisi ne traccia un profilo preciso. Si tratta in larga parte di beni strumentali (68% del valore), ovvero macchinari e attrezzature essenziali per i processi industriali, e di beni intermedi specifici (il 46% dei prodotti), cioè componenti realizzati su misura e per questo difficilmente sostituibili nel breve termine.
Le filiere più esposte risultano quella dell’ICT, che da sola assorbe il 64% del valore di queste importazioni critiche, e quella delle commodities, che comprende materie prime e prodotti chimici.
La quasi totalità di questi beni (il 90% del valore) è classificata come strategica, con ben 43 prodotti su cui grava un alto rischio geopolitico. Sebbene la Cina sia il fornitore dominante, la lista dei paesi a rischio si estende a partner come India, Russia, Turchia e diverse nazioni africane, delineando una geografia della vulnerabilità ben più complessa.
Europa e Italia: un quadro a due velocità
Pur condividendo le problematiche di fondo, la situazione specifica varia notevolmente tra i singoli Stati membri e l’Unione Europea nel suo complesso. Lo studio evidenzia, per esempio, che l’Italia presenta un numero elevato di dipendenze industriali, pari a 378 prodotti. Ma quasi la metà di queste vulnerabilità è una peculiarità della filiera produttiva nazionale e non viene considerata critica a livello comunitario.
La ragione di questa apparente contraddizione risiede nel ruolo del Mercato Unico. L’Unione Europea, agendo come un blocco economico integrato, possiede una capacità molto maggiore di diversificare le fonti di approvvigionamento e di sostituire eventuali carenze con la produzione interna o con il commercio tra i suoi stessi membri. Molti prodotti che per l’Italia costituiscono una dipendenza da fornitori extra-UE, a livello aggregato europeo vengono compensati da flussi commerciali interni, che agiscono come un importante fattore di resilienza.
Emergono anche strategie nazionali divergenti. Nel settore energetico, ad esempio, l’analisi del periodo 2019-2022 mostra come l’Italia sia riuscita a diversificare i propri fornitori di gas, riducendo la concentrazione del rischio, mentre la Germania ha percorso la strada opposta, diminuendo il numero di partner commerciali e aumentando il peso delle forniture da un singolo paese.
Oltre la diagnosi: le strategie di diversificazione
Lo studio di Confindustria non si limita a fotografare le vulnerabilità, ma si spinge a proporre percorsi concreti per mitigarle.
L’elemento più innovativo è un algoritmo sviluppato per simulare il potenziale di diversificazione per ciascun prodotto critico. In pratica lo strumento calcola come le importazioni potrebbero essere riallocate tra tutti i possibili fornitori mondiali, e non solo tra quelli attuali, al fine di minimizzare la concentrazione del rischio.
I risultati di questa simulazione sono significativi. Analizziamo a titolo di esempio due materie prime strategiche, la quarzite (la fonte primaria per ottenere il silicio ad alta purezza utilizzato nell’industria elettronica e in quella del vetro e della ceramica) e l’antimonio (usato per creare numerose leghe dure e per rendere ingnifughi plastiche, gomme e tessuti).
Per quanto riguarda la quarzite l’Unione Europea importa l’86,6% di questo minerale dal Brasile. L’algoritmo dimostra che, sfruttando la capacità produttiva di altri paesi, la quota brasiliana potrebbe scendere al 24%, riducendo drasticamente l’indice di concentrazione da un livello di allerta a uno di sicurezza.
Quanto all’antimonio le importazioni UE sono concentrate per il 68% in Turchia. La simulazione indica che la quota turca potrebbe essere ridotta al 14,4%, redistribuendo gli acquisti verso nuovi potenziali fornitori come l’Australia.
Applicando questo metodo all’intero gruppo di prodotti industriali critici, si stima che la concentrazione media delle importazioni potrebbe diminuire di circa 20 punti percentuali. Non si tratta di scenari ipotetici, ma di una riorganizzazione basata sulla capacità produttiva globale già esistente.
Come costruire un’autonomia strategica ponderata
L’analisi conferma che le attuali dipendenze sono il risultato di decenni di scelte economiche e industriali, orientate alla massima efficienza. Un disaccoppiamento completo dalle economie globali non appare né realistico né auspicabile. È tuttavia possibile e necessario ridurre le vulnerabilità più acute.
La direzione da seguire si fonda su tre pilastri. Primo, investimenti mirati per rafforzare la capacità produttiva europea su filiere e tecnologie strategiche. Secondo, una politica commerciale attiva che incentivi la diversificazione dei partner, guardando ad aree del mondo oggi meno sfruttate ma con un potenziale produttivo reale. Terzo, il rafforzamento di accordi commerciali che garantiscano stabilità e sicurezza delle forniture. Costruire una maggiore autonomia strategica non significa isolarsi dal commercio globale, ma navigarvi con una piena consapevolezza dei rischi e una mappa chiara per governarli.
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