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un’analisi della Banca d’Italia • Neodemos


Il 15 Aprile scorso, la “Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto” ha audito il Dottor Andrea Brandolini, Vice Capo del Dipartimento di Economia e Statistica della Banca d’Italia. Pubblichiamo uno stralcio della testimonianza, corredata da un documento, esemplare per chiarezza e serietà di analisi, nella parte relativa al lavoro. Una conclusione è chiara: senza un forte aumento dell’offerta di lavoro, l’economia del paese, e il benessere della sua popolazione, è destinato a restringersi sensibilmente. Ciò significa che oltre ad una sostenibile ma numerosa immigrazione, sono necessari un allungamento della vita lavorativa, e una partecipazione al lavoro più intensa di giovani, donne e anziani, oggi sensibilmente inferiore alla media europea.  

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La partecipazione al mercato del lavoro

L’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro può contribuire in modo sostanziale ad accrescere l’input di lavoro, contrastando gli effetti del declino demografico. Ciò è avvenuto dall’inizio degli anni duemila a oggi; potrà continuare a farlo nei prossimi venticinque anni solo se ci saranno cambiamenti significativi nella domanda e nell’offerta di lavoro. Se i tassi di partecipazione per genere e classi di età continuassero a crescere allo stesso ritmo dell’ultimo decennio, a parità di tutte le altre condizioni, il PIL calerebbe di quasi il 9 per cento da qui al 2050, dell’1,6 per cento in termini pro capite (Fig. 1). Vi sono ampi margini su cui si può intervenire. Nonostante i progressi degli ultimi quindici anni, il tasso di partecipazione italiano nel 2024 era ancora il più basso nell’UE: pari al 66,6 per cento, era di circa 9 punti percentuali inferiore alla media europea. Il divario era particolarmente ampio tra le donne e i più giovani. 

La partecipazione femminile 

Nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, nel 2024 era attivo il 57,6 per cento delle donne, oltre 13 punti percentuali in meno della media europea; nel Mezzogiorno tale quota era appena il 43,1 per cento (Fig. 2). Le donne rappresentano circa due terzi di chi non cerca né è disponibile a lavorare. Escludendo le studentesse, i carichi di cura familiari sono il principale ostacolo al lavoro per oltre metà di queste donne. Vi è ampia evidenza che la nascita di un figlio abbia un impatto negativo sia sulla probabilità che le donne rimangano nel mercato del lavoro dopo la maternità sia sui redditi di quelle che invece continuano a lavorare (Fig. 3). Queste penalizzazioni subite dalle donne con figli rispetto alle donne senza figli, e in misura ancora più forte rispetto agli uomini, sono particolarmente persistenti. Se in Italia si rimuovessero gli ostacoli che impediscono alla donna di continuare a lavorare dopo la maternità, nei prossimi vent’anni si riuscirebbe a colmare più di un terzo del divario di genere nell’occupazione. Per progredire verso questo obiettivo sono necessarie politiche pubbliche mirate. Tra le misure più efficaci rientrano l’ampliamento dell’offerta di servizi per l’infanzia accessibili e di qualità, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno dove la copertura è particolarmente bassa, e la previsione che alcuni trasferimenti monetari siano condizionati all’acquisto di servizi di cura, riservando un trattamento preferenziale ai nuclei in cui entrambi i genitori lavorano. È inoltre fondamentale promuovere un’equa distribuzione dei compiti domestici e di cura, ad esempio incentivando un maggiore utilizzo del congedo parentale da parte dei padri. Una politica incentrata solo sulle “neo-madri” avrebbe però un effetto contenuto. Se si riuscisse a coinvolgere tutte le donne, anche quelle che hanno avuto figli in passato e sono attualmente non occupate, si riuscirebbe a chiudere gran parte del divario occupazionale di genere in Italia: andrebbero disegnati incentivi alle imprese mirati, oltre a specifiche forme di politiche attive, come programmi di formazione e assistenza nella ricerca di lavoro. 

L’allungamento della vita lavorativa

Le riforme pensionistiche introdotte dagli anni novanta hanno sospinto la partecipazione al mercato del lavoro nelle fasce di età più avanzate. Questa tendenza si è riflessa in un aumento dell’età media effettiva di pensionamento per vecchiaia da 62,1 anni nel 2012 a 64,6 nel 202319. Tra il 2004 e il 2024, il tasso di partecipazione tra i 55 e i 64 anni è aumentato dal 31,7 al 61,3 per cento, pur rimanendo di quasi otto punti percentuali inferiore alla media dell’area dell’euro (Fig. 4a). Quello nella fascia di età tra 65 e 74 anni è cresciuto dal 5,0 al 10,7 per cento (Fig. 4b), ma è ancora inferiore a quello di paesi come la Germania (15,9 per cento). Il prolungamento della vita lavorativa non discende solo dalle regole previdenziali, ma anche dal miglioramento delle condizioni di salute. Nel 2024, la speranza di vita a 65 anni era pari a 21,2 anni, quasi due in più rispetto a vent’anni prima. Ancora più marcato è stato l’incremento della speranza di vita in buona salute alla stessa età, passata da 7,5 anni nel 2013 a 10,1 nel 2022 (ultimo dato disponibile), un valore superiore di un anno rispetto alla media dell’UE. Questi dati suggeriscono che l’analisi della partecipazione al lavoro delle classi anziane dovrebbe tenere conto del miglioramento delle capacità cognitive e fisiche delle coorti di popolazione più recenti rispetto a quelle precedenti, una volta che sia raggiunta l’età avanzata. Per esempio, stime recenti per l’Inghilterra suggeriscono come le capacità di una persona di 68 anni nata nel 1950 fossero in media superiori a quelle di una persona di 62 anni nata nel 1940. Secondo uno studio recente, l’età cronologica è un’approssimazione inaffidabile del funzionamento fisiologico delle persone a causa delle notevoli differenze nel modo in cui le persone invecchiano e può quindi fornire risultati imprecisi sugli effetti economici dell’invecchiamento. L’allungamento ulteriore della vita lavorativa appare più facilmente perseguibile per i lavoratori impiegati in professioni a medio-alto contenuto cognitivo, per le quali la produttività tende a ridursi più lentamente con l’età e non dipende dalla forza fisica. In Italia, tuttavia, persiste un’elevata quota di occupazioni ad alta intensità manuale.

La partecipazione dei giovani 

In Italia la partecipazione è particolarmente bassa anche tra i giovani. Il divario rispetto agli altri principali paesi europei dipende da vari fattori. Gli studenti universitari impiegano più tempo per conseguire la laurea (in media all’età di 25,7 anni nel 2023) e, una volta laureati, incontrano maggiori difficoltà nell’inserimento nel mondo del lavoro. Inoltre, in Italia solo l’8,7 per cento degli studenti tra i 15 e i 29 anni lavora o è in cerca di un lavoro durante gli studi, a fronte del 28,6 per cento nella media dell’UE (dati riferiti al 2023). In Italia, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni che si dichiarano studenti nella Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat è aumentata dal 27,1 per cento nel 2004 al 37,7 nella prima metà del 2024. Lo scorso anno i giovani in questa fascia di età rappresentavano quasi la metà dei non occupati che non cercavano né desideravano un impiego; oltre otto su dieci dichiaravano di non essere disponibili a lavorare per motivi legati allo studio. Questi fattori contribuiscono a spiegare perché l’aumento dei livelli di istruzione – fenomeno in sé positivo e osservato anche nel resto d’Europa – si sia accompagnato in Italia a un marcato calo della partecipazione giovanile al lavoro: dal 2004 a oggi il tasso di attività nella fascia 15-34 anni è sceso di quasi dieci punti percentuali. È importante evitare che la maggiore frequenza degli studi superiori si rifletta in un allontanamento dei giovani dal mercato del lavoro Una maggiore aderenza tra le competenze sviluppate nei corsi di studio e quelle richieste dalle imprese faciliterebbe un più rapido inserimento occupazionale degli studenti. Per esempio, gli Istituti Tecnici Superiori, ancora poco diffusi, sono nati per combinare la necessità di maggiori livelli di istruzione con quella di offrire percorsi di studio più vicini al mondo del lavoro. Allo stesso tempo, è necessario adottare politiche che coinvolgano l’ampio numero di giovani che non lavorano né partecipano a corsi di studio o formazione, che rappresentano il 15,2 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni.

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