Circa dieci giorni fa è stato annunciato ufficialmente da Bill Gates che la Gates Foundation cesserà le proprie attività nel 2045, impiegando nei prossimi 20 anni circa 200 miliardi di dollari.
È significativa la motivazione di tale scelta: Gates – si legge nel suo blog –, parafrasando The gospel of wealth di Andrew Canergie, si sofferma sulla citazione “l’uomo che muore così ricco muore disonorato”, aggiungendo che “la gente dirà molte cose su di me quando morirò, ma sono convinto che “è morto ricco” non sarà una di queste”; da qui l’intenzione di donare, fin dalla costituzione della Fondazione Gates 25 anni fa, mentre si è in vita (come suggerito dal suo mentore Chuck Feeney) e non alla morte. “Ci sono così tanti problemi urgenti da risolvere per tenere per se risorse che potrebbero essere usate per aiutare delle persone” continua Gates ed il riferimento ai tagli dell’amministrazione Trump alla cooperazione internazionale ed ai progetti di sanità pubblica americana è evidente. In un momento storico in cui non solo gli USA, ma anche Inghilterra, Francia ed altri paesi riducono significativamente le risorse destinate alla cooperazione ed in cui una buona parte della filantropia si protegge e analizza tattiche di compromesso, Gates rilancia. Coraggiosamente.
Non credo sia utile in questa sede analizzare come la Gates Foundation abbia operato in passato, investendo circa 100 miliardi di dollari in cure sanitarie, prevenzione, innovazioni tecnologiche, cibi nutrienti, culture resistenti, ecc; il corrispettivo di queste analisi, infatti, è rappresentato dalle molte critiche – quali ad esempio gli effetti distorsivi provocati sui mercati, il paternalismo economico sui paesi aiutati, approcci iper tecnologici, intrasferibilità dei programmi sviluppati, focus su risultati immeditati a scapito di soluzioni a basso costo – che in questi 25 anni sono state rivolte a questa istituzione. Questa riflessione non ci porterebbe lontano, se non constatare che la chiusura della Gates Foundation rappresenta la fine di un modello, quello dei ricchi imprenditori tecnologici convinti di applicare il loro successo nel mondo degli affari alla filantropia mediante denaro, esperti e strategie innovative.
Credo invece che sia molto più stimolante riflettere sui patrimoni destinati alla filantropia e, conseguentemente, sul ruolo della stessa nella società. Cercando di fare sintesi relativamente al dibattito scaturito dalla scelta di Gates potremmo distinguere due punti nodali: l’origine e destino dei patrimoni.
L’origine dei patrimoni; questa è forse la parte più controversa della questione e quella che anima di più la riflessione. Molti hanno tacciato i donatori – Gates nel caso di specie, ma lo stesso dovrebbe valere (e lo scrivo provocatoriamente) per McKinsey Scott, al momento ritenuta giustamente un elemento di rottura nel panorama filantropico – di aver detratto quelle risorse allo Stato, di aver violato norme o eluso leggi per accumulare quelle fortune. Questo spinge l’analisi ancora più al cuore della ratio della filantropia.
La filantropia – come sostiene Bob Reich – è un artefatto dello stato ed in quanto tale è forgiata dalle politiche pubbliche e dalle norme sociali. Se un capitale privato si accumula è perché politiche pubbliche lo consentono o, a contrario, non sono in grado di regolamentare la tracciabilità e l’equa tassazione dello stesso. Le imprese e gli imprenditori operano in un regime normativo, creato dagli Stati, che consente e favorisce l’accumulazione di capitali. Se ciò non fosse e ritenessimo che la filantropia non abbia una funzione sociale, basterebbe modificare le norme fiscali e le regolamentazioni, imponendo tassazioni più rigorose e presumendo che lo Stato sia in grado di impiegare meglio le risorse rivenienti da tali tributi.
Il rischio che aleggia intorno a molti degli interventi critici sulla scelta della destinazione dei capitali per scopi filantropici è che tale accumulazione implichi automaticamente il dovere morale di una restituzione alla società. Non è così. Ciò, infatti, non avviene nella maggioranza dei casi ed in tal caso viene spesso interpretato come un tentativo di riparare i danni o le nefandezze compiute dalle imprese o degli imprenditori a scapito della società. Uno studio degli anni ’60 – dal singolare nome American Freshman Survey – prova quanto detto: chiedendo agli studenti quali fossero agli obiettivi più importanti della vita, un campione compreso tra l’80% ed il 90% rispondeva “sviluppare una filosofia di vita significativa”. Lo stesso studio effettuato oggi vede crollare tale percentuale al 50%. Negli anni ‘60 il 50% del campione riteneva che “fare più soldi possibile fosse un obiettivo molto importante”, oggi questa percentuale è salita all’80/90%. C’è stato un capovolgimento di numeri e valori che non è legato alla natura umana ma ad una cultura sempre più individualista e materialista.
In quest’ottica quindi, senza voler peccare di ingenuità, ritengo che possa esserci una lettura del fenomeno meno superficiale, basata non solo su una logica di opportunismo ma anche altruistica e morale nell’impiego di risorse private legittimamente accumulate – e su questo non si può transigere – destinate all’interesse pubblico. Dato che l’origine di queste risorse è dovuta a incentivi fiscali ed a sussidi, diretti o indiretti, pubblici è necessario che questi capitali abbiano una funzione ridistributiva in termini di giustizia sociale, provando a correggere gli squilibri sistemici che cercano di convincerci – così come insegna il pensiero neoliberista – che tutti abbiamo le stesse opportunità.
Ciò porta la riflessione al secondo punto: il destino dei patrimoni.
Ho sempre amato la metafora che compara la filantropia ad una bilancia; in uno dei due piatti c’è la libertà e nell’altro l’equità. Sta al donatore decidere se privilegiare un’azione libera nella destinazione delle proprie risorse filantropiche (cosa e come) o se invece far prevalere un’ottica di equità, di giustizia sociale e di restituzione alla società di un po’ dei privilegi di cui immeritatamente (sempre per antagonismo al pensiero neoliberista) gode.
Date le premesse sull’origine del patrimonio appare scontato come la legittimazione della filantropia passi da meccanismi di radicale redistribuzione, che le impongono di essere ancora più redistributiva di come lo sarebbe stato lo Stato nell’impiego di quelle risorse.
E qui entrano in gioco due elementi.
Il primo è quello della scelta della causa alla quale dedicare il patrimonio. Questa è una scelta non semplice perché – come sostiene Phil Buchanan – oltre alla passione di donare occorre considerare dove le risorse possono generare il maggior bene possibile su cause – quelle che Peter Singer definisce le “objectively best causes” – che necessitano la capacità di focus ma che sono spesso interrelate. In merito appare un contrappasso interessante che Melinda French Gates, in una recente intervista, abbia sottolineato la necessità di un impellente cambio di mentalità quando un imprenditore milionario decida di destinare parte del patrimonio all’interesse generale. Se ciò non avviene – eludendo quindi il passaggio da logiche estrattive di profitto a logiche distributive – l’innata propensione al rischio degli investimenti si tradurrà in un contraddittorio e vessatorio standard di elevatissima efficienza a carico dei partner filantropici. Ciò a conferma, se mai ce ne fosse bisogno, della necessità di professionalizzazione del settore e che spendere male le risorse può essere più dannoso che tenersele per se.
L’altro elemento, ancora più spiazzante, è quello della perpetuità o meno della fondazione, rilanciato da Bill Gates e che rinnova un dibattito mai sopito tra le fazioni – una pro ed una contro – relativamente al tema della cessazione delle fondazioni per il totale impiego del proprio patrimonio.
Questi due elementi apparentemente distanti sono in realtà strettamente ed intrinsecamente collegati. Al riguardo può essere utile soffermarsi sul dato filologico: la parola fine deriva dal latino finis, che indicava, in primo luogo, un punto terminale di uno spazio fisico o di un intervallo di tempo. Finis rappresentava, pertanto, un con-fine di spazio e di tempo. Per estensione, poi, finis è stato applicato anche ad un’azione, assumendo quindi il significato di obiettivo o scopo. Questo punto di partenza chiarisce come la fine (intesa come termine) di un’organizzazione sia indissolubilmente legata al suo fine (inteso come scopo).
Questa premessa conferma quindi come l’esaurimento del patrimonio di un ente filantropico sia una delle possibilità di scelta del fondatore che interferirà nel fine e nelle modalità attraverso le quali l’ente lo perseguirà fino al proprio esaurimento.
Se quindi The Atlantic Philanthropy è stato uno dei primi casi del c.d. spend down, la Gates Foundation non sarà l’ultimo.
Ciò che mi pare importante sottolineare è che in un tempo di spaesamento e di dissolvenza dei punti di riferimento valoriali, gesti coraggiosi sono necessari. Viviamo un’epoca di transizione nella quale l’ipocrisia umana costringe a precisare il bisogno di una “pace disarmata e disarmante” e ad illudere che nazioni civili non possano commettere atroci genocidi. In questo tempo la scelta di Gates rappresenta un gesto radicale, di cui c’è un disperato bisogno.
L’ultimo aspetto sul quale vale la pena soffermarsi è quali siano gli effetti di una scelta del genere in termini di destino del patrimonio e dell’organizzazione. Quasi sempre per analizzare la scelta in esame si adotta – come nel caso di Gates – la prospettiva dell’inizio, della dichiarazione di intenti. Credo che invece sia utile partire da dove finisce la storia.
Esiste un caso esemplificativo, meno noto di altri, che racconta perfettamente l’impatto di una scelta radicale come quella di fissare un termine per la durata delle attività di una fondazione: la Compton Foundation. Semplificando le conseguenze della perpetuità possono sintetizzarsi in:
- Fiducia negli altri: la fondazione si è focalizzata meno sulla leadership ed il racconto di sé stessa e più sul sostegno delle organizzazioni e sulla conduzione delle attività da parte delle stesse. “Finalmente abbiamo iniziato a credere nelle partnership profonde, basate sulla comunità, informate dal movimento, che creano fiducia e durano nel tempo, necessarie per provocare e sostenere un cambiamento profondo”.
- Confrontarsi con le dinamiche di potere: l’esistenza senza fine può perpetuare l’illusione che i fondatori possano mantenere la presa su soldi di origine pubblica (dato che derivano da mancate tasse), ribandendo invece che le risorse non sono delle fondazioni ma di chiunque e, pertanto, è necessario usarle.
- Ridefinire le proprie responsabilità: il dovere di una fondazione è di usare al meglio e non di proteggere il proprio patrimonio. “Come potevamo dare priorità alla sopravvivenza della nostra organizzazione mentre i diritti fondamentali venivano attaccati, minando la nostra speranza di un clima stabile, della pace e della libertà riproduttiva?”. La conseguenza di questa decisione porta la fondazione ad adottare una mentalità flessibile, apertura a contributi significativi e di lungo periodo e processi più snelli per rispondere alle urgenze.
- Riparare i danni: la fine della propria esistenza ha dato il coraggio alla fondazione di riscrivere la propria storia anche attraverso gli occhi dell’oppressione, dello sfruttamento e dell’ingiustizia che possono essere alla base della creazione di patrimoni privati che poi divengono filantropia.
- Iniziare un lavoro che non potremo finire: ancora più significativo è il processo di ripensamento delle priorità alla luce del termine fissato. La Compton Foundation a soli tre anni dalla chiusura ha definito nuove priorità. Una cosa apparentemente folle ma densa di significato: focalizzarsi su nuove iniziative centrate sulle relazioni basate sulla riparazione – la cd. “relational repair” – in base alla nuova storia della fondazione.
La durata limitata di un patrimonio filantropico impone un senso di urgenza affinché ogni contributo, assistenza ed infrastruttura lasci l’organizzazione, l’ente o il movimento sostenuto più forte rispetto a quando la Fondazione non ci sarà più.
Una scelta del genere spoglia la filantropia di tutte le infrastrutture mentali e mostra come il settore abbia la capacità, il privilegio e le risorse per poter assumersi tali rischi. Da qui il ruolo cruciale che la filantropia può giocare nell’alleanza con il settore pubblico, fungendo da capitale di rischio per una società democratica, stimolando innovazione sociale e favorendo una società pluralista in grado di correggere l’ortodossia dello Stato e decentralizzare la distribuzione dei beni pubblici (Reich).
Altre esperienze – ad esempio la Stupski Foundation – confermano come il termine alla vita dell’ente generi relazioni diverse tra donatori – che abbassano la guardia – e partner, aprendosi a collaborazioni trasparenti. Il modello di auto perpetrazione delle Fondazioni è assimilabile a un’impresa – “si tratta di fare soldi per dare soldi” – mentre quando si riesce a “fare solo filantropia, è entusiasmante. Si possono intraprendere pratiche che infrangono tutte le regole del business, a vantaggio delle comunità che, in molti casi, sono state danneggiate da queste pratiche commerciali estrattive”.
La legittimazione della filantropia è nutrita da scelte cruciali strategiche, che implicano sì l’origine dei patrimoni, ma molto di più la destinazione degli stessi per il finis, da intendersi sia come un fine che come una fine. Questa postura ridimensiona il potere del portafoglio ed enfatizza la funzione complementare della filantropia rispetto al settore pubblico, abilitando la società civile nella promozione di cambiamento ed innovazione trasformativa e confutando il mito che queste siano appannaggio esclusivo solo del settore privato da cui quelle eterogenee risorse sono derivate.
ABSTRACT
The announcement of the Gates Foundation spend down renews reflection on the origin of philanthropic assets but, above all, on their fate. The deep link that intrinsically unites the end (objective) with the end (term) of the foundation shapes and influences the ways in which it intervenes and relates to its partners, promoting new forms of legitimising philanthropic action with the public sector and civil society.
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