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Piccoli comuni, grandi ostacoli: l’AI pubblica è per pochi


Le nuove linee guida AGID sull’intelligenza artificiale nella Pubblica Amministrazione nascono con una visione importante: introdurre l’uso dell’AI in modo etico, trasparente, responsabile, e al servizio del cittadino.

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L’intento è nobile, come lo sono i 20 principi che guidano il documento: l’accountability, la non discriminazione, la sicurezza, la tracciabilità, la trasparenza degli algoritmi, tra gli altri.

Intelligenza artificiale nella PA locale: il gap con la realtà

Tuttavia, se ci fermiamo a osservare il contesto reale delle pubbliche amministrazioni italiane, in particolare quelle sotto i 100mila abitanti — che rappresentano la maggioranza — emerge una frattura netta tra ambizione normativa e realtà operativa. Molti comuni, specie nelle aree interne, non dispongono né delle risorse economiche, né delle competenze professionali, né del personale sufficiente per mettere in pratica quanto previsto.

I principi ci sono, la trasmissione al territorio manca

Le linee guida disegnano un modello ideale di adozione dell’AI, che prevede la presenza di una governance tecnologica strutturata, di figure con competenze specialistiche, di processi solidi di gestione del rischio e della privacy, e di infrastrutture capaci di supportare l’esecuzione di algoritmi anche complessi.

Nella maggior parte dei piccoli comuni italiani, però, l’IT è spesso nelle mani di una o due persone, quando va bene.

Figure come il responsabile della transizione digitale o un data protection officer sono presenti spesso solo a livello di nomina, senza reali strumenti operativi. La cultura dei dati è ancora embrionale: i database sono frammentati, che siano in cloud o locali, e mancano politiche strutturate di gestione documentale e valorizzazione del patrimonio informativo. I progetti di cloud migration sono iniziati grazie al PNRR ma l’assenza di interoperabilità effettiva rende i sistemi isolati e le basi dati sono quasi più dei fornitori che degli enti, imprigionate in cloud remoti anche se teoricamente più sicuri e certificati.

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In questo contesto, parlare di intelligenza artificiale significa rischiare l’effetto paradossale: proporre standard troppo avanzati a chi ancora fatica con i fondamenti della digitalizzazione.

L’illusione dell’uniformità nell’adozione dell’intelligenza artificiale

Applicare gli stessi requisiti a tutte le amministrazioni, grandi o piccole, metropolitane o rurali, rischia di accentuare le disuguaglianze. Le grandi città, le regioni, i ministeri hanno team interni competenti, possono permettersi consulenze specialistiche e partecipano a reti collaborative avanzate. I piccoli comuni, invece, si trovano spesso a rincorrere il quotidiano, a rispondere a obblighi formali senza riuscire a trasformarli in valore concreto per il cittadino.

È facile che in questi contesti i progetti restino solo dichiarati, mai veramente implementati. Oppure che ci si affidi a consulenze esterne, si facciano i chatbot giusto per fare qualcosa, spendendo soldi pubblici non in maniera efficace per fare AI, senza costruire strumenti di impatto. Il rischio più concreto, però, è l’esclusione: chi non riesce a presentare progetti solidi resta fuori dai finanziamenti, e diventa obsoleto in poco tempo in un mondo che cambia, non solo tecnologicamente, molto velocemente. Rischiando di avere un Paese a due ai-velocità: i grandi comuni e la PA di grande dimensione che evolvono nell’epoca AI e la piccola PA dei comuni che rimane nell’epoca “AC” (avanti ChatGPT).

Intelligenza artificiale nella PA: servono percorsi sostenibili

Il punto non è abbassare l’asticella, ma costruire percorsi realistici. Serve un approccio più flessibile, che parta dal contesto reale. Una soluzione possibile è quella dell’unione delle forze: più comuni che si associano per condividere ruoli tecnici, infrastrutture e competenze, così da ridurre i costi (che sono sicuramente un punto critico per queste soluzioni) e aumentare la massa critica, nonché standardizzare e condividere le soluzioni.

In fondo il problema che è anche la soluzione probabilmente ricade nel fatto che un comune di 100.000 abitanti e di 100 abitanti deve garantire gli stessi servizi e a molti piace pensare che standardizzare spersonalizzi. D’altra parte nel mondo digitale fare servizi in maniera artigianale serve solo ad aumentare i costi e a rallentare lo sviluppo anche dell’AI oltre che a disperdere fondi per avere uguaglianza ma non equità e disperdere l’impatto.

Forse vale la pena di ragionare di un’unità minima pubblica per cui ha realmente senso parlare di AI (Regione? Consorzi? Convenzioni di almeno X abitanti? Altro?) probabilmente è una chiave di volta. Allo stesso modo, possono essere utili percorsi formativi mirati, brevi e molto pratici, capaci di avvicinare alla governance dei dati anche chi parte da zero.

È fondamentale investire in strumenti già testati, facilmente adattabili ai piccoli enti, magari mediante un marketplace di strumenti come lo è quello SAAS o IAAS. Ma soprattutto serve una regia nazionale che vada oltre lo scrivere linee guida: che scenda sul campo, accompagni gli enti locali, li aiuti nella progettazione, nel monitoraggio, nella valutazione dei rischi, magari in ottica di un prosieguo del lavoro fatto dal Transformation Office del Dipartimento Trasformazione Digitale per creare un canale di trasmissione bidirezionale tra Governance e attuazione, orientandosi verso il post PNRR e l’AI. Anche i progetti pilota replicabili, su ambiti concreti come lo smistamento documentale o l’assistenza al cittadino, potrebbero rappresentare un buon punto di partenza da condividere.

Intelligenza artificiale nella PA: servono percorsi sostenibili

L’intelligenza artificiale nella PA non può diventare l’ennesimo capitolo di digitalizzazione astratta. Le linee guida AGID pongono le basi per un uso etico e consapevole dell’AI, ma non possiamo ignorare le condizioni di partenza. Senza fondi distribuiti, senza competenze, senza infrastrutture, il rischio è che questi principi restino sulla carta, alimentando la frustrazione di chi prova a fare innovazione ma si scontra con limiti strutturali evidenti.

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L’Italia non ha una sola PA, ne ha migliaia, con storie, capacità e strumenti molto diversi tra loro. Se vogliamo davvero una transizione digitale inclusiva, dobbiamo partire da un’analisi del reale. E offrire soluzioni concrete e sistemiche, che partano forse anche da una valutazione della sostenibilità del funzionamento stesso dei comuni prima che dalla tecnologia.



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