Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

L’addio all’imprenditore Ernesto Pellegrini | WiseSociety


È stato il presidente dell’Inter dei record, ma è stato soprattutto un uomo che, partendo da zero, ha saputo costruire un impero economico governato sempre con un forte senso etico e con una forte attenzione alle personeWise Society ha avuto modo di conoscerlo da vicini Ernesto Pellegrini, che ci ha appena lasciati (le esequie il 4 giugno alle 14,45 nella basilica di Sant’Ambrogio, a Milano) e che qualche anno fa aveva accettato di raccontarci la sua storia, umana e professionale, nel libro “Sembrava impossibile. Da 0 a 100 storie di imprenditori di successo” (2019, Ed. Wise Society), dedicato a uomini come lui che hanno saputo trasformare il loro destino attraverso un’idea, la forza di volontà, il coraggio e creare, partendo da zero, qualcosa di importante, prezioso.

Prestito personale

Delibera veloce

 

Ernesto Pellegrini nacque, infatti, nel dicembre del 1940 in una famiglia di ortolani e iniziò la sua carriera vendendo mazzetti di rosmarino al mercato. Diplomato in ragioneria, mosse i primi passi professionali alla Bianchi, celebre azienda di biciclette. Ma la sua vera avventura cominciò a 25 anni non ancora compiuti, con la fondazione della Organizzazione Mense Pellegrini, poi diventata la Pellegrini Spa: un gruppo internazionale con oltre 11mila dipendenti, impegnato nel settore della ristorazione, dei buoni pasto e della sostenibilità sociale.

Nel 2014, con la sua Fondazione, ha creato il ristorante solidale Ruben, offrendo pasti a chi vive in difficoltà. Un impegno, quello verso i più fragili, che ha sempre accompagnato la sua carriera.

Ma il nome di Pellegrini è indissolubilmente legato anche all’Inter. Nel 1984 acquistò il club da Ivanoe Fraizzoli, coronando il sogno di un ragazzo che, a 13 anni, aveva visto per la prima volta un Inter-Juventus a San Siro. Da presidente nerazzurro portò a Milano stelle come Rummenigge, Matthäus, Klinsmann e Brehme. Con Giovanni Trapattoni in panchina, nel 1989 l’Inter vinse lo scudetto dei record, e nel 1991 la Coppa Uefa, poi bissata nel 1994. L’anno dopo, la cessione a Massimo Moratti, ma mai l’addio al tifo.

Wise Society, nell’esprimere il suo profondo cordoglio alla famiglia, in particolare alla moglie Ivana e alla figlia Valentina, vuole ricordarlo pubblicando il capitolo del nostro libro in cui aveva raccontato con uno stile inconfondibile la sua storia umana e imprenditoriale, che è stata già di ispirazione per molti e che per molti altri potrà ancora esserlo in futuro.

Aste immobiliari

l’occasione giusta per il tuo investimento.

 

Ernesto Pellegrini nel libro “Sembrava impossibile. Da 0 a 100 storie di imprenditori di successo” (2019, Ed. Wise Society), dedicato alle storie di imprenditori che, partiti da zero, sono riusciti a creare grandi imprese. Dal capitolo a lui dedicato, frutto di un’intensa intervista, emerge la figura di un uomo di grande umanità.

La versione integrale del capitolo del libro dedicato a Pellegrini

Ernesto Pellegrini
Il pallone e la forchetta
Da una cascina di periferia alle mense di mezza Italia. L’irresistibile ascesa del «ragazzo di campagna» diventato presidente dell’Inter. E oggi a capo di un impero

Stefano Zurlo

Sono passati più di cinquant’anni, ma il grazie sale su impetuoso, come il getto di una fontana rigogliosa: «Se faccio questo mestiere lo devo al Benini, un sindacalista, un comunistone, come si diceva allora». Ernesto Pellegrini sorride e nello sguardo traspare un mix di riconoscenza e nostalgia: «Ero un dipendente della Bianchi. Contabile, promosso sul campo contabile capo. Avevo 24 anni e mi trovavo bene in quell’azienda famosa per le sue biciclette. Ma ambivo a qualcosa in più, non ero uno che si accontentasse del proprio posto, dentro di me fremevo, avevo grandi ambizioni, puntavo in alto, o più in alto, anche se non avevo la minima idea di dove andare a parare. Mi ci voleva l’occasione, la spinta del destino e la chance arrivò servita dal Benini».
Sono le quattro di pomeriggio di un giorno luminoso e il cavalier Pellegrini è seduto alla sua scrivania all’ultimo piano della nuova sede, una torre tutta vetri alla periferia di Milano. Dalle grandi finestre si domina tutto lo skyline ambrosiano: il monte Rosa, grandioso e quasi incombente sul quartier generale di via Lorenteggio, il Resegone, più lontano, il Duomo, piccolo e suggestivo come una miniatura. Sembra che il tempo e lo spazio siano a portata di mano, ubbidienti alla volontà vulcanica dell’imprenditore, come – per usare un’immagine di Eugenio Montale – in un’aria di vetro. Ma è un’illusione: le ore avanzano inarrestabili, mentre l’agenda s’imbarca sotto mille impegni. E allora il pasto diventa una pausa di pochi secondi. L’industriale scarta un modesto panino al prosciutto cotto che lo attende tristanzuolo da ore, ma rinuncia: «Prima finiamo la conversazione. Pranzerò alle cinque. E poi – ridacchia quasi divertito – dicono che io sono il re della ristorazione».
Altro flashback, al glorioso 1965 e a quel passaggio decisivo: «Il Benini fu netto: “Ragioniere, il gestore della mensa ha lasciato per andare altrove, all’Alfa Romeo. Perché non ci prova lei? Lei è un bravo contabile e può amministrare direttamente la mensa della Bianchi”. L’idea mi stimolava, sarei diventato imprenditore, avrei fatto il salto che immaginavo dentro di me un giorno sì e l’altro pure, ma il percorso era tutto da inventare. E poi mi occupavo di paghe e bilanci. “Ma il cuoco?”, obiettai. E lui, pronto: “Ce l’ho io la cuoca, fa dei minestroni…”, e mi strizzò l’occhio alludendo alla sua amante. “E poi”, aggiunse picchiandosi la mano sul petto, “agli operai ci penso io”. Io non sapevo cucinare neanche un uovo, ancora adesso non so accendere un fornello, ma decisi di provarci. Andai dal mio capo e attaccai il discorso. Lui mi ascoltò, poi rispose: “Lei è matto, come farà a tenere a bada gli operai?”. “Me la sento”, fu la mia replica, “e poi vorrei migliorare la mia situazione economica senza rischiare il posto di lavoro. Mi dia un contributo, dottore”, osai aggiungere, “un incentivo”. Lui staccò un assegno da 150mila lire e mi offrì la sua benedizione».
Quel giorno, 15 giugno 1965, in un clima tumultuoso e pionieristico, inimmaginabile nella società ingessata di oggi, Pellegrini si sdoppia: resta il capo dei ragionieri della Bianchi, ma, contemporaneamente, fa girare la chiavetta della sua storia imprenditoriale.
Nasce la Pellegrini.
Ernesto Pellegrini invece è venuto al mondo il 14 dicembre 1940.
«Mi sono affacciato su questa terra in una cascina di via Bonfadini 56». Ai bordi della metropoli, a due passi dall’aeroporto di Linate e non lontano dallo stabilimento della Bianchi, che sorgeva dalle parti di via Mecenate. Siamo in una dimensione agricola, abbarbicata ai prati e agli orti che accarezzavano, allora più di oggi, Milano. Le mucche, le galline, le uova, le verdure a un tiro di schioppo dalle ciminiere e dalle fabbriche della capitale industriale d’Italia. E ancora, altra magia su una frontiera sottile e fragile, coriandoli di paesini – Morsenchio, Morsenchino, Merezzate – già incapsulati nell’involucro della città, ma ancora con una loro fisionomia. «Sono figlio di ortolani, dunque contadini con una loro specializzazione in zucchine e fragole e con una vita scandita dai ritmi della natura. Papà e mamma mandavano avanti la baracca, insomma avevano la responsabilità della cascina e molte persone li aiutavano nei campi e nell’accudire gli animali. Non avevo niente di superfluo e però non mi mancava nulla».
Ernesto va a scuola, gioca a pallone, fa la vita del ragazzino però fantastica e con la mente scappa da quel mondo piccolo. «Andavo al cimitero di Linate, proprio nel punto in cui gli aerei si staccano da terra, vedevo la tomba dei nonni, la cui cascina era a Ponte Lambro, dove oggi c’è il Centro Cardiologico Monzino, e mi dispiacevo. “Quando avrò i soldi”, pensavo fra me e me, “costruirò per loro una magnifica cappella come quelle delle famiglie più importanti della zona”. E devo dire – aggiunge con un’espressione di tenera malinconia – che sono stato di parola. I primi guadagni li ho investiti per realizzare una tomba di famiglia».
Ma a quell’epoca il futuro deve ancora arrivare. Il presente ha un perimetro più modesto, con i riti di sempre, le feste paesane, le cerimonie religiose, i rapporti gerarchici. Ernesto non è ricco, ma è un privilegiato: «Avevo 12 o 13 anni e c’era nel microcosmo della cascina un personaggio, Ruben, che mi dava del lei. Io lo pregavo: “Per favore dammi del tu”. “No”, rispondeva sempre lui, “ci vuole rispetto per le famiglie che ci danno il lavoro e ci fanno mangiare”. E andava avanti imperturbabile con il lei. Ruben aveva servito, come si diceva allora, mio nonno, poi era passato con noi: mio papà, me e mio fratello Giordano. Dormiva su un letto di paglia nella stalla, non litigava mai con nessuno e leggeva montagne di libri. Ruben era molto più di un semplice salariato, era una pagina di storia, l’icona di quella realtà».
A 19 anni, Ernesto diventa ragioniere e trova subito lavoro alla Bianchi. È lo stesso periodo in cui il padre compra il primo trattore, un Sametto. Sembra il primo passo di una gloriosa modernizzazione, invece è l’inizio dell’epilogo. Siamo davanti a una metamorfosi pasoliniana: ma qui non scompaiono solo le lucciole; no, sono quei villaggi dal respiro profondo, anzi antico, ad essere travolti dall’avanzare della città. «A dicembre 1961 papà, improvvisamente vecchio, muore e, poco dopo, partono gli espropri delle nostre terre. Al posto della cascina sorge un quartiere di case popolari. Io, mia mamma e mio fratello andiamo a vivere in un appartamentino di 85 metri quadri in via Dalmazia. Io, con un discreto bagaglio scolastico sulle spalle, ho trattato con la proprietà un po’ per tutti i residenti costretti a sloggiare. Molti trovano una soluzione e una sistemazione adeguata, ma qualcuno viene tagliato fuori. Con l’abbattimento della cascina Ruben perde il lavoro e nessuno gli dà una casa. Qualche tempo dopo un giornale del pomeriggio mi gela il sangue con il suo titolo crudo: barbone morto assiderato. Ma Ruben non era un barbone, anzi, era un grande lavoratore.
Piango e penso che un giorno troverò il modo di onorarlo. Ci sono voluti quasi cinquant’anni, ma ci sono riuscito: nel 2014 è nato a Milano, in fondo al Giambellino, un ristorante che porta il suo nome, Ruben, in cui trecento persone appartenenti alle fasce sociali più deboli mangiano ogni sera pagando la cifra simbolica di 1 euro». Ernesto Pellegrini è negli anni Sessanta un ragazzo brillante che aspetta solo la sorte e l’occasione arriva quando il Benini gli lancia l’idea di condurre la mensa. «Lei ci sa fare ed è figlio di ortolani, sa distinguere la verdura buona da quella di pessima qualità».
Comincia l’avventura della Pellegrini: il ragioniere non ha tempo per voltarsi indietro, ma deve correre dietro al nuovo impegno che decolla subito. «Mi ero iscritto ai corsi serali di economia in Cattolica, ma sono riuscito a passare solo 16 esami sui 32 previsti. Sono mezzo dottore, perché poi il troppo successo mi ha impedito di proseguire gli studi. In breve sono arrivate altre commesse e mense da gestire: il Tubettificio Ligure di Abbadia Lariana e la casa editrice Universo, quella di Grand Hotel».
Sono gli anni rigogliosi del boom: ottimismo, umiltà e poca burocrazia con i suoi lacci e l’inseparabile corredo di geremiadi e lamenti sullo Stato oppressore. «Spirava un vento positivo, la fortuna era dalla nostra parte, dalla mia parte. E poi stava avvenendo un cambiamento sociologico straordinario: moltissime donne andavano in ufficio o in fabbrica. E il loro arrivo modificò le abitudini e portò all’istituzionalizzazione della pausa pranzo. Le mense nascevano come funghi».
Pellegrini ha antenne potenti, capta i movimenti e le esigenze della società. «Rilevai un locale, l’Elisee, uno dei due soli self service della città e, da perfetto autodidatta, mi misi a studiare. Osservavo per ore i clienti, li seguivo mentre ordinavano i loro piatti preferiti e poi cercavo di cogliere le dinamiche e le traiettorie del gusto, le tendenze che si stavano affermando. Quei mesi furono una scuola fondamentale».

Le foto di quell’epoca sono la colonna sonora dell’Italia in marcia verso il benessere. Donne dalle messe in piega vaporose. Cartoline dai luoghi argentati delle vacanze. Le prime fuoriserie. I primi elicotteri. E il calcio. «Mi innamorai dell’Inter negli anni Cinquanta. Una formazione strepitosa: Benito Lorenzi detto Veleno, il giocatore più cattivo del campionato; Lennart Skoglund, il Naka, imprendibile nei suoi strepitosi dribbling; Giorgio Ghezzi, il kamikaze che usciva dai pali accartocciandosi sul pallone fra le gambe degli avversari. Fu quell’Inter memorabile che andai a vedere per la prima volta nella mia vita a San Siro il 4 aprile 1954. Era il derby d’Italia e i nerazzurri fecero a pezzi la Juventus con un risultato clamoroso: 6 a 0. Ma la mia partita fu una pena. Rimasi intrappolato nei corridoi, in mezzo ad una fiumana di gente che non era riuscita a trovare posto. E così il match lo interpretai, fra frustrazione ed euforia, dalle urla del pubblico. Alla fine, arrabbiato, feci un bel proposito: “Una cosa così non mi capiterà più. Piuttosto mi compro la squadra e ne divento presidente”».
Pellegrini s’interrompe, in bilico fra soddisfazione e divertimento.
«Ci ho messo qualche anno, ma ho realizzato pure quel sogno». Può sembrare strano, ma la strada verso il vertice del club passa per Villar Perosa e la Juventus. «Nel 1978 l’Avvocato mi propone di acquistare l’hotel di Villar Perosa, dove i bianconeri vanno in ritiro. Io rilancio: “Va bene, ma lei mi dia la gestione della mensa Riv”, storica azienda metalmeccanica produttrice di cuscinetti a sfera proprietaria dell’albergo. “E io la pago con i ricavi dei pasti”. L’affare va in porto e metto il naso nel football professionistico, ma i miei desideri sono altri».
E allora Pellegrini scrive una lettera al presidente del club, Ivanoe Fraizzoli: «Mi chiamo Ernesto Pellegrini. L’attività che svolgo mi ha portato ad assumere la gestione di Villar Perosa, cioè della struttura presso la quale la Juventus svolge i suoi allenamenti e i suoi ritiri.
Ne sono molto felice perché ho conosciuto persone che, come Giampiero Boniperti, oggi presidente, furono mitici giocatori. Ma il mio cuore da sempre batte nerazzurro e voglio perciò chiederle se non ci sia un modo perché io possa essere partecipe della vita dell’Inter in modo più significativo di quanto non sia da tifoso».
Fraizzoli risponde con entusiasmo, Pellegrini entra nel Consiglio direttivo della squadra. È solo il primo passo: nell’81 l’imprenditore tifoso assume la conduzione della Pinetina, l’equivalente di Villar Perosa in casa nerazzurra, nell’82 è vicepresidente. Infine, all’inizio del 1984, diventa il numero uno del club. E, da neopresidente, fa subito il botto: porta a Milano Karl-Heinz Rummenigge, un gioiello mondiale. Ci vuole un po’ di tempo, perché non sempre la fortuna è alleata, ma alla fine lo scudetto arriva nella stagione ‘88-89. È l’Inter di Matthaus, Berti e Trapattoni. La stagione ‘89-90 porta in dote la Supercoppa, poi, nel giro di tre anni, l’Inter alza due volte la coppa Uefa. I nerazzurri trionfano nel ‘90-91 battendo la Roma e nel ‘93-94 contro il Salisburgo, grazie anche alle incredibili parate di Walter Zenga.
Un’epoca si chiude, la squadra passa a Massimo Moratti.
Pellegrini è sempre più concentrato sull’azienda che macina utili su utili, si ingrandisce sempre di più, oggi fattura circa 650 milioni di euro e dà lavoro a 8500 dipendenti.
«L’Inter è una fede, ma in questi anni anche la mia fede in Dio è maturata molto». L’incontro con alcuni sacerdoti straordinari, il pellegrinaggio in Terra Santa con la moglie Ivana e la figlia Valentina, le donne della sua vita, l’aiuto di don Sante Torretta in alcuni momenti difficili: «Quando ero presidente dell’Inter spesso non avevo tempo per la messa domenicale, ora non la salto per nessuna ragione al mondo».
In qualche modo Ernesto Pellegrini è stato toccato da un episodio speciale che si può leggere come un miracolo: «Un giorno ero andato con Ivana alla messa celebrata da padre Emiliano Tardif nella chiesa delle Suore Marcelline a Cernusco sul Naviglio. A Padre Tardif, vicino al Rinnovamento Carismatico, veniva riconosciuto il dono della conoscenza: nel corso delle celebrazioni eucaristiche annunciava la guarigione di qualcuno fra i presenti. Bene, da circa vent’anni io soffrivo di una doppia ulcera al duodeno che mi costringeva tutte le sere ad assumere medicine. Era una sofferenza continua. E spesso, nel cuore della notte, ero costretto ad alzarmi e a mangiare qualcosa. Dunque rimasi sbalordito quando quella mattina Padre Tardif, all’improvviso, disse: “Fra voi c’è un uomo che ha molto sofferto, ma Dio gli è vicino e come segno di questa vicinanza non avrà più alcun disturbo allo stomaco”. “È lei la persona di cui parla”, mi disse subito don Angelo Mainardi, che accompagnava me e Ivana. Quindi si avvicinò Padre Tardif che aggiunse poche parole: “Si faccia coraggio e dia testimonianza del dono ricevuto”. Il dolore era sparito. Da quel giorno non ho mai più preso una pillola e, nel corso della successiva gastroscopia, il professor Alberto Titobello mi domandò tutto meravigliato: “Ma che cosa le è successo?”. “Chissà, sarò stato miracolato”».
Chissà. Lassù, in cima alla torre di Lorenteggio, il panino attende ancora. L’ora del pranzo è passata e sta transitando anche quella della merenda. Meglio addentare il prosciutto. Ma prima il ragioniere chiama la figlia Valentina, al suo fianco in azienda: «È bravissima e prenderà il mio posto. Ma fra non meno di vent’anni». E finalmente si decide a mangiare.


>>>  TI POTREBBE INTERESSARE ANCHE >>> “Sembrava Impossibile”: successo al Mudec per il libro edito da Wise Society


© Riproduzione riservata





Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

 

Ristrutturazione dei debiti

procedure di sovraindebitamento

 

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Aste immobiliari

 il tuo prossimo grande affare ti aspetta!