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“Serve un Piano industriale straordinario per rilanciare l’Europa”


“La verità, per quanto amara, è che oggi sia l’Europa che il nostro Paese affrontano un rischio concreto di deindustrializzazione, aggravato dalla guerra dei dazi e alimentato da un pregiudizio anti-industriale”. È questo l’allarme lanciato dal presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, intervenuto all’assemblea annuale a Bologna nella giornata di martedì 27 maggio.

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La relazione del Presidente Emanuele Orsini

Buongiorno a tutte e a tutti voi.
Desidero esprimere la mia sincera gratitudine al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e alla Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, per aver accettato di intervenire alla nostra Assemblea. Siamo contenti che siate qui. L’attenzione e il dialogo per le nostre imprese e per tutta la società in questo momento sono fondamentali.
I miei più sentiti ringraziamenti a tutti i Ministri e a tutte le Autorità presenti.
E un abbraccio a tutti voi, imprenditrici e imprenditori, in questa importante occasione di confronto e di crescita. Sono passati otto mesi dalla nostra ultima Assemblea.
Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà che stiamo attraversando, ma anche della forza e del coraggio con cui le stiamo affrontando.
Forza che troviamo in Emilia-Romagna, la mia terra, con imprese che hanno saputo reagire a terremoto e alluvioni. Coraggio che mostriamo, come persone e come cittadini, mentre assistiamo sempre più sgomenti al numero più alto – quasi 60 – di conflitti militari nel mondo.

Di fronte a guerre che spezzano vite e cancellano il futuro di intere generazioni, abbiamo il dovere morale di restare uniti. L’appello resta uno e uno solo: una pace vera e duratura da ricercare con tutte le forze. Coraggio che mostriamo come imprenditori mentre rischiamo di restare intrappolati nella guerra commerciale fra gli Stati Uniti e il resto del mondo e fra Stati Uniti ed Europa. Quest’ultima è ancora più allarmante, perché si consuma fra alleati storici. E ci indebolisce entrambi. Mai come oggi, le guerre commerciali tra alleati sono dannose e incomprensibili. C’è un’Italia silenziosa e tenace che è consapevole di dover andare avanti e credere nel futuro. È a questa Italia che oggi dedico la nostra Assemblea. Noi ne facciamo parte.
Per questo impegno costante, a voi – donne e uomini di Confindustria – va il mio grande e sentito grazie.
Oggi siamo a Bologna, e non a Roma come da tradizione, anche per ricordare la presenza capillare della nostra Confindustria, su tutto il territorio nazionale. Confindustria è un Sistema unico, ramificato in tutto il Paese. Il contesto nel quale facciamo le nostre scelte è sempre più complesso.

Siamo tutti coinvolti da un vero cambio di paradigma, che riguarda non solo le tecnologie avanzate e le transizioni digitali e ambientali, ma tutte le catene globali del commercio mondiale e dei flussi finanziari. Una strenua lotta per assicurarsi risorse essenziali per produrre: dall’energia alle terre rare, ai chip avanzati. Una nuova modalità di regolare le partite economiche attraverso rapporti unilaterali con le grandi potenze. E questo è un cambio di paradigma che investe anche il valore stesso delle democrazie e delle libertà. Abbiamo molto apprezzato l’intervento che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha pronunciato il 25 aprile scorso a Genova, in cui ha ricordato che 80 anni fa “la fabbrica, le fabbriche, si manifestarono, una volta di più, luoghi di
solidarietà e scuole di democrazia”. È stato così, e continua ad essere ancora così. L’industria italiana non è solo reddito e lavoro. È un pilastro della democrazia del nostro Paese. Grazie al Presidente Mattarella, per averlo ricordato ancora una volta. Per affrontare la complessa situazione in cui ci troviamo, è importante farne una fotografia chiara, utile a trovare
soluzioni efficaci per vincere l’incertezza.

Soluzioni che ricerchiamo secondo i tre princìpi cardine del mio programma e dell’Assemblea dello scorso anno:
• il rispetto dell’identità, del ruolo e delle istanze del mondo delle imprese e dei suoi interlocutori;
• il dialogo come metodo di composizione dei bisogni e di ricerca di soluzioni condivise;
• l’unità nel portare avanti queste soluzioni con uno sguardo lungo sul futuro dell’Europa e dell’Italia. Oltre le divisioni politiche.

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L’amara verità è che oggi sia l’Europa che il nostro Paese affrontano un rischio concreto di deindustrializzazione, aggravato dalla guerra dei dazi, ma alimentato da un pregiudizio anti-industriale.
Confindustria propone un Piano Industriale Straordinario per rilanciare l’economia europea e nazionale.


COMINCIAMO DALL’EUROPA

Presidente Metsola, so che Lei condivide la maggior parte delle cose che sto per dire. Ci aiuti a ribadirle con forza.
Alle politiche europee serve un radicale mutamento di impostazione: le scelte degli ultimi anni stanno presentando un conto pesantissimo. Hanno indebolito la nostra competitività industriale, hanno messo a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro e, di conseguenza, l’intero sistema di welfare e di coesione sociale: cuore del modello europeo dal secondo dopoguerra.
Bisogna intervenire subito per cambiare questa rotta.
Se questo non accade, avremo dato ragione a chi non vuole un’Europa né più unita, né più forte.
A volerla, unita e forte, siamo noi. E tutti quelli che con noi si battono per correggere gli errori compiuti.
Sul Green Deal, l’errore è stato anteporre l’ideologia al realismo e alla neutralità tecnologica: ci siamo dati i tempi e gli obiettivi ambientali più sfidanti del mondo, ma senza alcuna stima degli effetti e dei costi sull’industria e sui lavoratori e le loro famiglie. Il resto del mondo non condivide né i nostri standard, né i loro costi, e tutto ciò ci porta fuori mercato.
Ma non siamo i soli a chiedere una svolta.

Sono con noi tutte le Confindustrie europee. Lo chiede con forza l’industria dell’automotive. Il rischio concreto è di avere auto sempre più costose, con il risultato di cedere quote di mercato sempre maggiori ai concorrenti cinesi. È la stessa opinione espressa con forza dalla Germania del nuovo cancelliere Friedrich Merz, che mette al centro del suo programma un grande piano di rilancio industriale, superando finalmente il tradizionale veto tedesco che anteponeva il “deficit zero” agli investimenti produttivi.

Una posizione nuova, quella tedesca, su cui l’Italia – seconda manifattura d’Europa e quarta esportatrice al mondo – deve far leva per costruire posizioni comuni. Il grande piano di investimenti industriali tedeschi è un’opportunità per rafforzare le interconnessioni tra filiere italiane e filiere tedesche. E lo diciamo dall’Emilia-Romagna, terra in cui i nostri motori sono riconosciuti come eccellenza in tutto il mondo. In tema di veicoli, la nuova Commissione europea ha finora adottato misure blande: ha solo diluito le multe ai produttori, quando invece avrebbe dovuto azzerarle. Ma sta lasciando immutata la data del 2035 per lo stop al motore endotermico, nonostante la posizione critica del nostro Governo e di quello tedesco.

E ve lo dico con chiarezza: non possiamo indebitare i costruttori europei costringendoli ad acquistare le quote di CO2 da BYD e TESLA. Tutto questo per rispettare i vincoli europei che ci siamo autoimposti. È una vera pazzia.
Non vogliamo buttare via gli investimenti miliardari fatti per trasformare il diesel in un motore pulito e performante. Come non vogliamo costringere gli automobilisti ad usare auto elettriche di altri continenti. A chiedere una svolta sul Green Deal è anche l’ex premier britannico laburista Tony Blair, che ha puntato il dito contro il rischio di desertificazione industriale per aver fissato tempi e obiettivi non realizzabili. Siamo confortati di aver trovato il Governo italiano al nostro fianco nella richiesta di un forte cambio di passo dell’Unione europea.
Abbiamo bisogno rapidamente di abbattere la speculazione finanziaria sull’ETS e rivedere il CBAM.
Bisogna avviare una drastica semplificazione del sovraccarico di Regolamenti e Direttive europei che si è abbattuto su ogni settore industriale. Chiediamo una radicale revisione delle migliaia di prescrizioni imposte ai nostri settori.
A tutti i nostri settori.
Ancora non siamo rassicurati sul superamento delle norme europee sul packaging, norme che possono rappresentare un colpo durissimo per le nostre imprese. Devono essere riscritte.
Lo stesso vale per la preferenza europea per il riuso al posto del riciclo. Ma è sul riciclo, soluzione ambientalmente neutrale almeno quanto il riuso, che l’industria italiana è leader in Europa e ci batteremo con tutte le nostre forze per difendere il nostro primato. Lo stesso vale per le normative (ETS su tutte) che hanno determinato un aumento dell’import di cemento da Paesi extra UE del 43% nel 2024 rispetto al 2023 e di quasi sei volte rispetto al 2018.
Le imprese farmaceutiche ci dicono poi che o l’Europa cambia passo, oppure è più conveniente investire negli Stati Uniti. In Europa infatti servono dai dieci ai dodici anni di ricerca prima
di ottenere l’autorizzazione per un nuovo farmaco. E l’Europa cosa sta facendo? Sta provando ad abbassare la protezione dei brevetti da otto a sei anni.
È questa l’Europa che vogliamo?
Un’Europa senza industria e che attira meno investimenti?
Un’Europa che dipende sempre di più dal resto del mondo?
La nostra risposta è no, no e poi ancora no.

Mettiamo poi una cosa in chiaro. Comprendiamo che l’Europa debba spendere di più e meglio per la propria difesa. Ma la guerra commerciale va affrontata con la stessa determinazione e con investimenti straordinari altrettanto necessari. L’Europa deve difendere i propri interessi su tutti i fronti: da quello industriale a quello sociale. Non è possibile che l’unica eccezione per sforare il Patto di Stabilità sia relativa alla spesa per la difesa.
La nostra idea è diversa.
Il Patto di Stabilità e Crescita deve consentire un grande piano di sostegno agli investimenti dell’industria, in ogni Paese europeo. Altrimenti, non è un patto per la stabilità e la crescita. È un patto per il declino dell’Europa. Bisogna lavorare seriamente alla creazione del Mercato Unico degli investimenti e dei risparmi, a maggior ragione visto che oggi importanti flussi finanziari potrebbero abbandonare gli Stati Uniti. Anche la Banca Centrale europea deve avere più coraggio sia sul fronte dei tassi d’interesse, sia su quello dei requisiti patrimoniali bancari, che oggi sono molto più rigidi rispetto a quelli in vigore negli Stati Uniti e in Cina. Nelle politiche europee occorre un radicale mutamento di impostazione, in termini di obiettivi, priorità e strumenti. Per noi, il Piano Industriale Straordinario europeo deve essere basato su due leve:
• la prima sono gli investimenti per sostenere la capacità innovativa dell’industria, da realizzare con il contributo delle risorse pubbliche e private. Per attivarli serve un “New Generation EU per l’industria” e un mercato dei capitali realmente unico e integrato;
• la seconda sono le regole per rimettere al centro la competitività, l’abbattimento degli oneri burocratici e l’unione tra le tre dimensioni della sostenibilità (economica, sociale e ambientale).

Se l’Unione Europea riuscisse a diminuire le barriere interne al Mercato Unico al livello di quelle degli Stati Uniti, la sua produzione aumenterebbe del 6,7%. Ovvero oltre 1.000 miliardi di euro.
Deve finire la logica per cui, oggi, per le istituzioni europee la norma è l’obiettivo, a prescindere dagli effetti prodotti sull’economia reale e sulla società. Andare avanti così significa sbattere contro un muro. E noi i muri li vogliamo abbattere.
Con la nostra sovrapproduzione di regole, alla Cina abbiamo lasciato la sovrapproduzione industriale che, oltretutto, incentiviamo. Per raggiungere questi obiettivi, il nostro appello è alla massima cooperazione tra forze dell’impresa, del sindacato e della politica.  E non può che essere l’Europa il primo destinatario delle nostre sollecitazioni.

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Le motivazioni sono immediate:
• oltre il 70% della normativa di riferimento per le imprese europee, e quindi anche italiane, arriva dall’Unione europea;
• più del 50% dell’export italiano ha come destinazione l’Unione europea;
• l’unione doganale e il commercio sono competenze esclusive dell’Unione europea.
Ecco perché chiediamo al Presidente del Consiglio e alla Presidente del Parlamento europeo di sostenere, a Bruxelles, un Piano Industriale Straordinario europeo.
Se le politiche rimangono solo nazionali, continueremo con la frammentazione che ha caratterizzato l’Europa finora, e non riusciremo a far crescere la massa critica degli investimenti industriali e delle innovazioni tecnologiche. Ecco perché all’Europa serve anche una netta sterzata nella sua politica commerciale. Al momento, l’Unione europea ha scelto di evitare la collisione con gli Stati Uniti. Scelta che condividiamo.
Ma, mentre negoziamo con l’Amministrazione americana, dobbiamo accelerare sugli accordi di libero scambio con altre aree del mondo. Sono un antidoto al protezionismo e il principale strumento per diversificare gli sbocchi del nostro export.

Accordi che le imprese italiane stanno utilizzando con un beneficio superiore alla media europea:
• Corea del Sud +170%, a fronte del 127%;
• Canada +61%, rispetto al 51%;
• Giappone +24,5% a fronte del 10,7%.

Questi numeri parlano da soli. Dopo aver aggiornato gli accordi con Cile e Messico, l’Unione europea deve assolutamente concludere quello con il Mercosur. È possibile che non ci sia ancora una data per il voto sul Mercosur?
Gli Stati Uniti ogni settimana alzano e abbassano dazi, aprono e chiudono trattative con il resto del mondo. E noi? Quanto ancora dobbiamo aspettare? Ma il Mercosur non basta, ed è per questo che dobbiamo puntare ad accordi con l’Australia, avanzare nei negoziati con l’India e con i Paesi ASEAN, e guardare ai 54 Paesi dell’Unione Africana che hanno aderito a un’area di libero scambio.
E l’Italia fa bene in questo quadro a lavorare ad accordi di partnership bilaterali diretti tra la nostra industria ed economie che sono pronte ai nostri prodotti.

Confindustria ha creato una mappa per valutare il potenziale di export per ogni Paese e per ogni prodotto.
Questo nostro strumento, ExPAnD (Export Potential Analysis and Development), può diventare un riferimento per il Sistema Paese.


VENIAMO ORA ALL’ITALIA

Da quando abbiamo tenuto la nostra ultima Assemblea, abbiamo ricercato sempre un confronto diretto con il Governo sulle nostre proposte e sulle misure che lo stesso Governo proponeva.
Gli effetti non sono mancati.

Il Piano Casa Straordinario per i neoassunti è entrato nell’orizzonte delle misure a cui il Governo lavora e su cui già si è intervenuti con una prima misura fiscale. Presidente Meloni, so quanto tiene a questo progetto. È una vera emergenza sociale, dobbiamo intervenire il prima possibile per aiutare i nostri lavoratori e soprattutto i nostri giovani. La necessità del ritorno al nucleare nel mix energetico nazionale è entrata tra le priorità del Governo. Con la Farnesina, l’ICE, SACE e SIMEST si è rafforzata la cooperazione diretta con il nostro Sistema industriale in tutti i nuovi accordi a cui l’Italia sta lavorando, non solo con il Piano Mattei, ma anche con il Sud America, l’Africa e l’Asia. E altrettanto forte è la collaborazione con il Governo nel sostegno ai diversi progetti di formazione all’estero di giovani da attrarre in Italia e assumere nelle nostre imprese, progetti che il Sistema territoriale di Confindustria sta moltiplicando.
E tuttavia, il tema della competitività dell’industria italiana e dei rischi a cui è esposta ci chiama tutti a un cambio di marcia, anche in Italia. Dobbiamo dire le cose come stanno. Al netto dell’effetto dei dazi, dopo due anni di flessione della produzione, l’industria italiana è in forte sofferenza. È ancora frenata da troppi ostacoli, che riducono la competitività delle imprese rispetto a quelle di Paesi con regole, sistemi fiscali e infrastrutture più favorevoli. Troppo spesso in Italia vengono scambiati i successi delle imprese come effetto di grandi strategie di sviluppo che, invece,
non ci sono state. Il nostro Paese e le nostre realtà imprenditoriali hanno tutte le carte in regola per farcela.
Ma bisogna cambiare prospettiva. Anzi, ribaltarla.
Bisogna lavorare tutti insieme – industria e servizi, istituzioni e partiti, di maggioranza e di opposizione, forze sociali e sindacati – ad un vero Piano Industriale Straordinario per l’Italia. E dobbiamo farlo adesso, con scelte forti: per aumentare la competitività, la produttività e l’innovazione con gli investimenti e la semplificazione. Certo, le scelte sono condizionate dalla sostenibilità del debito pubblico. Siamo convinti, però, che sia più un problema di metodo che di risorse. Per fare un esempio, ad oggi, delle nostre 80 proposte di misure a costo zero, dopo i primi segnali di forte interesse, ne sono state approvate 8 e 6 sono in corso di approvazione. Lavoriamo allora insieme per superare gli ostacoli, per approvarne molte di più. Le soluzioni non arriveranno solo con le leggi di bilancio. Serve un progetto di sviluppo e crescita di ben più ampio respiro.
Sono le stesse agenzie di rating a ricordarcelo, indicando i pilastri che più hanno contribuito alla sostenibilità del nostro debito pubblico: misure strutturali introdotte fuori dalla Legge di Bilancio.

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Palazzo Chigi ha accolto con favore la nostra proposta di IRES Premiale per rilanciare gli investimenti delle imprese. Ma poi, per mancaza di fondi, se ne è ristretta la platea dei beneficiari.
Ora più che mai serve sostenerla con forza, togliendone le limitazioni, oppure proseguire su linee di azione che sostengano la patrimonializzazione delle imprese e ne riducano
il carico fiscale, in piena coerenza con quanto previsto dalla stessa delega fiscale ancora inattuata su questo.
Per noi non ci sono alternative: bisogna pensare al rilancio dell’industria e al rilancio del PIL.
Dobbiamo darci un obiettivo di crescita ambizioso: raggiungere almeno il 2% di crescita del PIL nel prossimo triennio, da consolidare e aumentare nel tempo. Una crescita da raggiungere investendo in spesa pubblica produttiva, a partire dalle infrastrutture, e creando le condizioni affinché le imprese possano generare ricchezza per tutti.

Quello che ci stiamo giocando è un futuro collettivo, non individuale. Voglio ricordare qualche numero. Come Sistema Confindustria, contribuiamo per oltre il 44% del valore aggiunto generato dalle imprese private in Italia. Il manifatturiero rappresenta quasi il 20% del valore aggiunto e ben il 30% del monte contributivo che tiene in piedi l’INPS. Il 60% delle nostre imprese offre ai propri dipendenti previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa, quota che supera l’80% per le imprese più grandi. Tra queste, una su quattro eroga contributi per istruzione, attività
ricreative e borse di studio destinate ai familiari dei propri collaboratori. E una su dieci offre servizi di assistenza per familiari non autosufficienti: un aiuto prezioso in un Paese che invecchia, ma dove l’assistenza domiciliare è ancora poco sviluppata. Le nostre Academy aziendali, che si aggiungono all’impegno che l’industria italiana esprime sostenendo gli ITS, sono cresciute dalle 25 del 2010 alle 232 del 2024, a testimonianza dell’impegno che mettiamo nella formazione dei giovani. La nostra responsabilità sociale non è un distintivo retorico.
È un fatto, di cui siamo molto orgogliosi. E aggiungo che quando esportiamo per oltre 626 miliardi e ci diamo l’obiettivo di arrivare a quota 700 miliardi, oltre a dare
solidità ai bilanci delle nostre imprese, contribuiamo alla tenuta di quello del Paese.
Ma questi contributi al PIL e al sistema sociale potrebbero venire a mancare.
La crisi dell’industria ha avuto come effetto immediato un significativo e preoccupante calo degli investimenti, in particolare su impianti, macchinari e mezzi di trasporto. L’occupazione, invece, per ora tiene. Tra le grandi imprese industriali associate a Confindustria, due su tre (67,9%) stanno trattenendo i propri dipendenti nonostante il calo dell’attività. Di queste, oltre un terzo (34,8%) lo fa per mantenere le competenze già presenti in azienda, consapevole delle difficoltà nel reperire nuovo personale qualificato. Ma per quanto potremo ancora farlo?
Tutto questo oggi è a rischio. Secondo il nostro Centro Studi, l’economia italiana, anche in assenza di nuovi dazi, sarebbe cresciuta nel 2025 di uno 0,6%.
Ora è esposta al rischio di un nuovo triplo shock:
• la caduta della domanda statunitense;
• la frenata della domanda globale;
• la possibile crisi finanziaria, con ripercussioni su PIL, investimenti, occupazione e debito.

Dentro questo scenario difficile, si muovono le nostre imprese. E se anche solo 300 medie imprese decidessero, in questa tempesta, di spostare la produzione in Paesi con minori costi e maggiori incentivi, le ricadute negative riguarderebbero almeno 100 mila occupati. Tutto questo, l’Italia non se lo può permettere. Dobbiamo reagire subito e valorizzare al meglio le risorse destinate agli investimenti industriali. O potenziamo l’IRES Premiale o ripristiniamo un’ACE per l’industria, strumenti più che mai essenziali per patrimonializzare e incrementare gli investimenti del sistema produttivo italiano.

Puntiamo su Industria 4.0, 6.0 – chiamiamola come vogliamo – purché sia potenziata; questa misura per noi è indispensabile. E puntiamo sui contratti di sviluppo, strumenti in cui le imprese hanno già maturato esperienza e ottenuto risultati concreti. Però, anche qui, servono procedure più semplici, regole certe e tempi più rapidi.
In un momento complicato come questo abbiamo bisogno di convincere i nostri imprenditori ad investire. Per tutto questo, pensiamo ad un sostegno agli investimenti di 8 miliardi di euro l’anno per i prossimi 3 anni. Ancora meglio se avessimo un orizzonte temporale di 5 anni. Ma dobbiamo partire subito; in attesa di un possibile New Generation EU per l’industria, dobbiamo trovare le risorse per iniziare.
Quindi, dove trovarle?
Usiamo tutto il margine possibile per spostare risorse del PNRR, non utilizzabili entro metà 2026, indirizzandole verso strumenti più efficaci a favore degli investimenti produttivi. Sfruttiamo la possibilità che la riforma dei Fondi di Coesione UE del Commissario Fitto mette a disposizione per le filiere industriali italiane salvaguardando le quote per il Sud. Incentiviamo gli investimenti nella transizione digitale allo stesso modo di quelli destinati alla transizione ambientale. In caso contrario, non riusciremo a colmare i divari digitali e a vincere la sfida decisiva dell’Intelligenza Artificiale. Introduciamo strumenti di supporto alle imprese delle filiere più in difficoltà, come l’automotive.
Non si tratta di aiuti assistenziali, ma di misure mirate a favorire aggregazioni, ristrutturazioni e rafforzamento del capitale aziendale. Abbattiamo le tasse su tutti i premi di produttività, facendo lo stesso per i contratti aziendali e territoriali, in cui imprese e lavoratori scambiano maggiore produttività con più reddito e welfare aziendale.

Moltiplichiamo le semplificazioni. Il divario per ottenere un’autorizzazione tra noi e altri Paesi è disarmante. Rivediamo oneri e responsabilità imposte alle imprese dalla Legge 231. Riportiamo questa norma alla sua funzione originaria: non colpire gli imprenditori o spaventarli con il rischio di sanzioni, ma incentivarli all’innovazione dei propri assetti organizzativi. Non possiamo pensare che i nostri imprenditori prima di essere giudicati, vengano pignorati o confiscati.
Di questo Piano Industriale Straordinario, la componente più urgente è quella dei sovraccosti energetici. È un vero dramma che si compie ogni giorno: per le famiglie, per le imprese e per l’Italia intera. Le nostre imprese continuano a subire un sovraccosto energetico che supera il 35% del prezzo medio europeo e che arriva anche
a toccare punte dell’80%, nel confronto con i maggiori Paesi europei. I consumi industriali italiani rappresentano il 42% del fabbisogno elettrico nazionale (125 TWh) e per le imprese
il prezzo dell’energia viene calcolato in base al costo dell’elettricità prodotta con il gas. La produzione di energia da fonti rinnovabili rappresenta il 45% dell’elettricità messa in rete, ma non concorre alla formazione di un prezzo più competitivo per l’industria. È una situazione insostenibile. Occorre agire con urgenza. A questo proposito, mi ha fatto molto piacere quanto dichiarato
dal Presidente del Consiglio tre settimane fa, che rispondendo a interrogazioni alla Camera e al Senato ha detto “Bisogna abbattere il sovraccosto energetico che pesa come un macigno sulla competitività delle imprese italiane”; e inoltre ha aggiunto “lancio un appello alle opposizioni, lavoriamo insieme per il disaccoppiamento in bolletta tra prezzo del gas e prezzo delle rinnovabili”.
È esattamente quello che chiediamo e ho chiesto da quando sono Presidente di Confindustria.
L’Autorità dell’Energia ha calcolato che gli incentivi alle rinnovabili ammontano, fino ad oggi, a 170 miliardi di euro. Incentivi pagati da famiglie e imprese attraverso le loro bollette. E allora voglio dire una cosa a nome di tutte le imprese che si trovano a fare i conti con bollette che rischiano di metterle fuori mercato. Dopo tutti gli incentivi per le rinnovabili, noi non possiamo più accettare di continuare a pagare l’energia al prezzo vincolato a quello del gas. Per questo dobbiamo entrare subito nella logica del disaccoppiamento.

Inoltre, è possibile e necessario ridurre nella bolletta gli oneri generali di sistema, che da soli gravano per circa 40 euro per MWh. Questo dovrebbe riguardare tutte le PMI industriali, non solo gli
artigiani e i commercianti con utenze in bassa tensione. Bisogna battersi in Europa per sospendere l’ETS, visto che consumo ed emissione di CO2 pesano a loro volta in bolletta elettrica tra i 25 e i 35 euro a MWh. Bisogna snellire e accelerare le procedure dell’Energy Release e della Gas Release che sulla carta riservano all’industria quote di energia a prezzi minori. Dobbiamo affrontare con realismo il paradosso per cui, da un lato, gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni ci impongono di accelerare sulle rinnovabili, ma dall’altro, veti e ostacoli burocratici bloccano in Italia progetti per 150 GWh di nuovi impianti. E di questo voglio parlare con chiarezza: mi rivolgo a tutti i partiti politici.
Si smetta di dire a Roma che siete per le rinnovabili, per poi porre nelle Regioni ostacoli di ogni tipo proprio alle rinnovabili.
E bisogna accelerare il ritorno al nucleare con i piccoli reattori modulari, molto meno invasivi e più sicuri delle centrali di vecchia generazione e capaci di fornire quell’elettricità di continuità che serve all’industria e che le rinnovabili intermittenti non possono fornire. Anche su questo non ci possono essere divisioni politiche, parliamo di indipendenza e sicurezza nazionale. Quella che condividiamo da imprenditori è una grande responsabilità. Stiamo affrontando enormi difficoltà.
Come abbiamo detto lo scorso anno alla nostra Assemblea: siamo l’Italia che manda avanti l’Italia.
E noi vogliamo restare in Italia.
È qui che vogliamo progettare e investire sulle priorità strategiche per cambiare il futuro del nostro Paese. È qui che vogliamo concentrare tutte le forze del nostro Sistema per agevolare la crescita di tutte le imprese, in particolar modo le piccole, attraverso aggregazioni, fusioni e più credito. E su questo, Confindustria deve fare sempre di più. Non siamo perfetti ed è nostra responsabilità fare
tutto il possibile per migliorare e migliorarci. Ma voglio ricordare un aspetto essenziale. Il cuore delle nostre proposte sono le persone. Le loro competenze sono il motore dell’innovazione e della
crescita. Stiamo perdendo troppi giovani che cercano altrove ciò che qui, evidentemente, non trovano.

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E proprio perché, per noi, al centro di tutto ci sono le persone, insisto ancora sui temi della sicurezza sul lavoro e delle retribuzioni. Gli incidenti diminuiscono solo se battiamo con più forza la via della prevenzione e della formazione. Non smetterò mai di dire che ogni morte sul lavoro è un fallimento per tutti. Per questo ribadiamo che è fondamentale un accordo con il sindacato e con il Governo, affinché tutte le imprese siano spinte ad investire di più in formazione e prevenzione, usando anche l’avanzo INAIL che ammonta a circa 1,5 miliardi di euro ogni anno, versati dalle imprese. E ai sindacati voglio dire un’altra cosa, sui salari. Sapete benissimo che in Italia le retribuzioni più elevate e i meccanismi per il recupero dell’inflazione sono nei contratti di Confindustria.
Ma questo non significa che non ci poniamo il problema. Le retribuzioni italiane che perdono potere d’acquisto spingono verso il basso consumi e crescita, e abbattono la dignità della vita e del lavoro. È un problema nazionale. Affrontiamo insieme la battaglia contro i contratti pirata. E affrontiamo insieme quella per una maggiore rappresentatività di imprese e sindacati che firmano i contratti di lavoro. I contratti sani.
E ancora: chiediamo insieme che la lotta alle false cooperative nei settori in cui si nascondono, venga fatta dallo Stato con tutte le sue forze. Altrimenti, se così non sarà, vengano dati a noi imprese gli strumenti adeguati per capire chi è in regola e chi non lo è.
Mettiamo al centro la legalità e il rispetto delle regole. E lavoriamo insieme per alzare ancor più le retribuzioni anche nell’industria attraverso i contratti di produttività aziendali, in cui
crescita dell’impresa e crescita del reddito dei lavoratori vadano di pari passo, perché non può esistere una crescita senza l’altra. In questo secolo nulla è più come prima: alleanze, transizioni, intelligenze.
Per un mondo nuovo servono strumenti nuovi e un patto nuovo tra tutti noi. Tra forze politiche e sociali. Abbiamo dimostrato di avere la capacità di superare momenti difficili affrontandoli tutti insieme. Guardando all’interesse comune. Adesso è giunto il tempo della responsabilità, del coraggio, della determinazione. Per un’Europa più forte.
E per un’Italia ancora più grande.

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