Alesina è stato tra i primi a capire che modellare la politica economica dei governi senza tenere conto degli incentivi elettorali e dell’aspetto strategico che certe scelte avrebbero avuto non ci avrebbe portato lontano.
Esattamente cinque anni fa è mancato improvvisamente l’economista Alberto Alesina, collaboratore del Corriere della Sera e docente di Politica Economica all’università americana di Harvard, dove ha insegnato per più di tre decenni e dove è stato anche presidente del Dipartimento di Economia dal 2003 al 2006. Alesina è stato tra i primi a intuire che divisioni sociali che andavano al di là delle classi economiche avrebbero avuto un ruolo importante nel determinare le preferenze elettorali e di policy dei cittadini.
Modellare la politica
Da quando Alberto è mancato mi è capitato spesso di chiedermi cosa avrebbe detto o fatto in varie circostanze di vita accademica, ma mai come negli ultimi sei mesi ho sentito il peso di non potermi confrontare con lui su quello che sta succedendo negli Stati Uniti. Con lui che in questo paese ha creduto ma che da sempre aveva capito i punti di rottura della società americana.
Negli anni ’80 Alberto fu tra i primi a capire che modellare la politica economica dei governi senza tenere conto degli incentivi elettorali e dell’aspetto strategico che certe scelte avrebbero avuto non ci avrebbe portato lontano. Non si può capire la politica economica o il livello del debito pubblico senza tenere conto del conflitto politico. Questa sua intuizione allargò gli orizzonti della macroeconomia e lo rese uno dei fondatori di una nuova branca dell’economia, la “political economy”.
La frammentazione etnica
Alberto avrebbe dunque avuto molto da dire sull’attuale polarizzazione ideologica, non solo negli Stati Uniti, e sulle implicazioni economiche di quest’ultima.
Ma il suo contributo non si fermò qui. Fu tra i primi a intuire che divisioni sociali che andavano al di là delle classi economiche avrebbero avuto un ruolo determinante nel determinare le preferenze elettorali e di policy dei cittadini. In una serie di contributi innovativi mostrò come livelli più elevati di frammentazione etnica o razziale in paesi o città diverse fossero associati a minore offerta di beni pubblici quali istruzione e trasporti, a una qualità più bassa delle istituzioni e a livelli inferiori di fiducia. Si spinse a ipotizzare che le divisioni razziali fossero uno dei fattori in grado di spiegare la differenza tra il sistema di welfare europeo e quello statunitense – dove quest’ultimo si sarebbe sviluppato di meno a causa della riluttanza dei cittadini a finanziare benefici per membri di gruppi diversi. Difficile non pensare a quanto l’attuale polarizzazione nelle opinioni sul sistema di welfare e la spesa sanitaria negli USA rifletta divisioni sociali e demografiche.
Il risultato del merito o della fortuna
La domanda di cosa spiega le preferenze degli elettori in tema di redistribuzione è una di quelle su cui Alberto si è interrogato più a lungo. A parte il ruolo dell’eterogeneità nelle preferenze, Alberto capì l’importanza del sistema di valori che porta gli individui a definire la condizione economica di un individuo come risultato del “merito” (ovvero dello sforzo che ciascun individuo può controllare) o piuttosto della “fortuna” (ovvero di fattori fuori dal controllo dell’individuo, come l’essere nati in una certa famiglia o in un certo gruppo etnico). Usando dati di indagini campionarie all’interno e al di fuori degli USA, Alberto mostrò come differenze nelle credenze sull’origine del successo e nell’aspettativa di poter avere un elevato grado di mobilità sociale spieghino una parte significativa delle differenze tra chi vuole che il governo redistribuisca più risorse e chi, al contrario, vuole un ruolo minimale.
La disinformazione sull’immagrazione
Molte delle tendenze che abbiamo osservato in anni recenti si possono ricondurre ad argomenti che Alberto ha studiato e sviluppato prima che diventassero di dominio comune. Per esempio, le spinte secessioniste e le tendenze a ridisegnare i confini dei paesi in modo da conciliare i benefici economici delle “economie di scala” e i potenziali costi dell’eterogeneità sociale ed etnica in termini di preferenze di policy. O ancora, il livello di disinformazione quando si parla di immigrazione. Negli ultimi anni Alberto si era dedicato, insieme a vari collaboratori, alla raccolta di dati sulle opinioni dei cittadini europei e americani in tema di immigrazione. Da questi dati emerge chiaramente che la popolazione nativa tende sistematicamente a sovrastimare il numero di immigrati nel proprio paese, e a sottostimare il profilo socioeconomico di questi ultimi: gli immigrati sono visti come meno istruiti, più disoccupati, e più dipendenti dai sussidi pubblici di quanto in realtà lo siano. Questa visione negativa correla poi con un minore supporto alle politiche redistributive e allo stato sociale. Di nuovo, è difficile sovrastimare il ruolo che la retorica sull’immigrazione e la disinformazione su questo tema ha giocato nella politica americana in tempi recenti, e Alberto aveva intravisto questa direzione molto tempo fa.
La determinazione nella ricerca
Ripensandoci, forse so come sarebbe andata la discussione tra me e Alberto su quello che sta succedendo. Con aria da prof e un grande sorriso mi avrebbe detto: «Cosa ti avevo detto io??». In quel sorriso ci sarebbero state molte cose: la soddisfazione per aver avuto l’intuizione giusta (cosa che immancabilmente Alberto aveva), l’autoironia di chi sa che comunque le proprie risposte sono imperfette e parziali, e la determinazione di chi vuole continuare a cercare. Sì, perché la cosa più importante che ho imparato dal mio amico e maestro Alberto Alesina è che ciò che conta è porsi le domande giuste, e non aver paura se sembrano ambiziose o irrisolvibili.
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