Prima i vincoli finanziari, poi le necessità sanitarie. È questa la logica che ha guidato il finanziamento (e la ripartizione delle somme) del Servizio sanitario nazionale dal 2019 al 2023, tale da scaricare sulle Regioni e sulle Aziende sanitarie locali (Asl) il compito di trovare una via “coerente” tra finanziamento e diritto di accesso ai livelli essenziali di assistenza (Lea).
I meccanismi di riparto (ancorati a una legge del 2011), poi, sono sempre più oggetto di negoziazione tra le Regioni e sempre meno frutto di evidenze oggettive e, di fatto, non tengono conto dell’evoluzione demografica e tecnologica che ha investito la società in questi anni. Mentre le cosiddette “quote premiali” – destinate a incentivare comportamenti regionali virtuosi – avrebbero negli anni perso la loro natura, diventando oggetto di mediazione politica.
Tutto ciò accompagnato da uno scostamento netto fra programmazione regionale e centrale in cui varie Regioni hanno adottato un set di criteri per definire le allocazioni molto più dettagliato di quello nazionale. Alla luce del contesto attuale, dunque, è giunto il momento di ripensare completamente gli algoritmi del riparto.
Sono alcune delle evidenze emerse nel rapporto dal titolo “Il finanziamento del Servizio sanitario nazionale: dalla determinazione del fabbisogno alle allocazioni sulle aziende sanitarie”, realizzato dal Centro per la ricerca economica applicata in sanità (Crea) in collaborazione con Federsanità e Salutequità.
Servizio sanitario nazionale in sofferenza
Scarsamente finanziato, sottorganico e non equo. È la fotografia del Servizio sanitario nazionale che proprio il rapporto Crea aveva fornito a inizio anno, ricordando come oggi l’Italia sia il più ricco dei Paesi più poveri a livello europeo e che, per la salute, sarebbero necessari almeno 20 miliardi di euro in più (+11,3% del finanziamento attuale), per allineare la spesa agli standard europei.
Peraltro un precedente lavoro condotto nel 2015 proprio da Crea sanità, insieme con Fiaso, aveva già richiamato l’attenzione sulla necessità di colmare le lacune informative sui processi regionali e sulla centralità del sistema di finanziamento nell’analisi evolutiva del Servizio sanitario nazionale. A distanza di oltre dieci anni da quella ricerca (basata sui dati 2011-2012, si è rigenerata), il rapporto è stato aggiornato, anche alla luce di novità sostanziali (a livello normativo) intervenute nel frattempo.
A cominciare dalla messa a regime delle indicazioni del decreto legislativo 68/2011 (che ha introdotto il concetto di “fabbisogno sanitario”, oltre al metodo di calcolo standard dei Lea), a cui si aggiungono gli effetti del decreto legislativo 118/2011 (che ha istituito la Gestione sanitaria accentrata, Gsa).
Cosa analizza il nuovo rapporto
Alla luce di tale contesto, il rapporto analizza i processi/flussi di finanziamento del Ssn sia a livello nazionale che regionale. Nello specifico, l’analisi a livello nazionale ha affrontato nove aree di interesse: 1) la determinazione del Fabbisogno sanitario nazionale (Fsn); 2) il processo di integrazione del Fsn e la determinazione delle risorse ripartibili; 3) la suddivisione del Fsn in base alla priorità del Ssn 4) i criteri di riparto alle Regioni, dopo avere descritto la struttura dei Ssr; 5) l’accertamento delle risorse disponibili a livello regionale; 6) i criteri di riparto intra-regionali; 7) la definizione delle risorse ripartibili alle Asl ed enti regionali; 8) il riparto fra le Asl; 9) i tempi di intervento normativi regionali.
Il finanziamento a livello nazionale: tra fabbisogni teorici e vincoli reali
Dal punto di vista normativo, a livello nazionale, il processo di finanziamento del Servizio saniratio si avvia con la determinazione del Fabbisogno sanitario nazionale. Secondo quanto previsto dal decreto 68/2011 tale fabbisogno dovrebbe essere sufficiente a garantire il pieno finanziamento dei Lea, in condizioni di efficienza organizzativa.
L’importo, inizialmente definito nella legge di Bilancio, può subire modifiche successive. Tuttavia, l’analisi condotta evidenzia come il trade-off tra la stima dei fabbisogni e la compatibilità macro-economica non sembri aver ancora trovato una sua modalità di coniugazione efficace, “tradendo” nei fatti lo spirito del decreto stesso.
I dati disponibili suggeriscono che, nel periodo 2019-2023, il vincolo finanziario abbia prevalso su quello del fabbisogno per i Lea. La conseguenza, come detto, è che il compito di trovare una “coerenza” tra finanziamento e diritto di accesso ai Lea viene scaricato sul management regionale e delle aziende sanitarie, una responsabilità sempre più onerosa considerando l’enorme gap di spesa tra l’Italia e altri Paesi europei, che rende sempre più difficile la ricerca di ulteriori efficientamenti.
Cosa dicono i numeri
Guardando ancora più nel dettaglio i numeri dell’analisi, il Fondo sanitario nazionale – che che tra il 2019 e il 2023 è cresciuto in media del 3,01% annuo (con un picco nel 2020 e un decremento verso il 3% nel biennio 2022-2023), viene suddiviso in base alle priorità del Ssn.
Va ricordato, a tal proposito, che non tutto il Fondo è immediatamente disponibile per le Regioni, poiché una parte viene accantonata e distribuita successivamente, originariamente per finanziare “quote premiali” legate a comportamenti regionali virtuosi. Negli anni, la distribuzione di tali “quote” si è di fatto allontanata dai criteri premiali o di verifica del rispetto dei Lea, diventando sempre più il risultato di accordi pattuiti in sede di Conferenza Stato-Regioni.
Le risorse indistinte vengono attribuite ai macro-livelli di assistenza (prevenzione, ospedaliera, distrettuale), con la distrettuale suddivisa in sub-livelli (medicina di base, farmaceutica, specialistica, territoriale). I pesi per questa ripartizione sono sostanzialmente rimasti quelli stabiliti dal decreto 68 del 2011. In questo segmento, è interessante notare come la quota destinata all’assistenza territoriale sia determinata “a residuo”, modificandosi in base alle variazioni della quota della farmaceutica.
Qui lo studio evidenzia una disconnessione effettiva tra l’evoluzione dei processi di erogazione, influenzati dall’invecchiamento della popolazione, dall’innovazione tecnologica e organizzativa, e la destinazione delle risorse con criteri di allocazione rimasti statici. Secondo gli analisti, appare paradossale, per esempio, che l’assistenza territoriale, obiettivo primario della missione 6 del Pnrr, sia finanziata “a residuo”.
Inoltre, il “congelamento” della quota della farmaceutica dopo il 2016, sganciandola dall’incremento del tetto di spesa, ha creato un’incongruenza interna al sistema e ha favorito le regioni meridionali a scapito di quelle settentrionali (eccetto Lombardia e province autonome).
Le scelte regionali: un mosaico disordinato e poco trasparente
Passando al livello regionale, l’analisi ha affrontato l’accertamento delle risorse, i criteri di riparto intra-regionali e la definizione delle risorse ripartibili alle aziende e agli enti regionali. Una delle evidenze più nette è la forte disomogeneità e la mancanza di trasparenza che caratterizzano i processi regionali.
Prevale un approccio definito “fai da te”, con scelte di finanziamento interne variamente articolate in termini di processo, prioritarizzazione degli interventi e algoritmi di riparto. Molte Regioni hanno adottato un set di criteri per definire le allocazioni molto più dettagliato di quello nazionale. Alcuni esempi: il Piemonte utilizza 27 quote di allocazione per i macro-livelli Lea (undici per la prevenzione, cinque per l’ospedaliera, undici per la distrettuale), a fronte delle sei quote nazionali; l’Emilia-Romagna ne adotta tredici.
Il riparto interno delle risorse tra le Asl
Ancora più variabile è l’applicazione dei criteri per il riparto interno delle risorse tra le aziende: il Piemonte conta sedici criteri aggiuntivi rispetto a quelli nazionali, l’Emilia-Romagna quattordici, la Campania cinque e la Basilicata quattro. Alcune Regioni, inoltre, differiscono anche nelle quote di assegnazione ai Lea rispetto a quelle nazionali (si tratta di Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Umbria).
La Puglia, per citare un caso, introduce la pediatria come sub-livello nell’assistenza territoriale, mentre la Basilicata distingue Mmg e Pls nella medicina generale. Ci sono Regioni, poi, che utilizzano criteri di riparto che tengono conto di indicatori sociali e geomorfologici, come mortalità infantile, deprivazione e congestione urbana (Puglia). Ancora a livello regionale, si registra una scarsa trasparenza sui criteri di allocazione e persino sull’accertamento delle risorse ripartibili localmente.
Per esempio, poche Regioni considerano esplicitamente i saldi di mobilità attiva o le risorse provenienti dai Fondi per i farmaci innovativi nel processo di determinazione delle risorse regionali. Tale mancanza di trasparenza unito a un approccio disomogeneo – precisa il rapporto – rendono difficile valutare l’equità delle allocazioni e se le risorse raggiungano effettivamente il territorio in proporzione ai fabbisogni della popolazione.
Allocazione delle risorse alle aziende sanitarie e spostamento verso l’ospedaliero
Altro elemento oggetto di analisi riguarda i flussi finanziari che arrivano alle aziende sanitarie (Asl, Ao, Aou, Irccs) e agli altri enti regionali. Cosa è emerso? Un’evidenza particolarmente degna di nota è lo spostamento a priori delle risorse verso la componente ospedaliera.
Tale fenomeno appare in contraddizione con la dichiarata volontà, contenuta negli atti di programmazione del Ssn, di potenziare l’assistenza territoriale.
Malgrado i propositi di sviluppo del territorio, le quote destinate alle funzioni territoriali si trovano in competizione con altre voci in rapida crescita, come la farmaceutica distrettuale, dimostrando un ritardo nell’adeguamento dei criteri di finanziamento alle nuove strategie assistenziali.
L’attitudine generalizzata a garantire un finanziamento indipendente dai volumi di erogazione delle aziende ospedaliere suggerisce che le tariffe per l’attività (drg per l’ospedaliera, tariffe per la specialistica ambulatoriale) non siano rappresentative dei costi pieni sostenuti. Di conseguenza, le Regioni ricorrono a finanziamenti non legati all’attività per garantirne l’equilibrio finanziario.
L’istituzione della Gsa ha razionalizzato la gestione delle risorse accentrate dal punto di vista contabile, ma con il rischio di perdere trasparenza sul loro eventuale utilizzo per garantire, ex post, l’equilibrio finanziario delle aziende.
Valori pro-capite variabili
E ancora – evidenzia il documento – l’analisi della variabilità del finanziamento pro-capite alle singole Asl rivela una forte variabilità sia intra che inter-regionale. Il range di assegnazione pro-capite alle Asl, dove è stato possibile ricostruire il flusso, arriva a 1.367 euro a livello nazionale e varia significativamente a livello regionale (tra i 123 euro della Toscana e i 3.785 euro della Puglia).
È necessario considerare che le Asl possono avere strutture di offerta (ospedali, ambulatori) diverse, il che può spiegare, almeno in parte, tali differenze.
Tuttavia, la difficoltà nel separare chiaramente il finanziamento delle aziende territoriali da quello destinato (in particolare) ai presidi ospedalieri rende complessi i confronti omogenei e la valutazione se tali differenze siano giustificate o rappresentino fonte di iniquità. Un tema che potrebbe divenatare ancora più rilevante con lo sviluppo degli ospedali e delle case di comunità.
Tempi di ripartizione e impatti sulla gestione
Un altro aspetto evidenziato dal rapporto riguarda i tempi di emanazione delle norme di riparto.
Le norme a livello nazionale (decreti di riparto Csr) sono state emanate sempre più tardi negli anni considerati, slittando nel terzo o addirittura nell’ultimo trimestre dell’anno. Anche le delibere regionali si posizionano generalmente negli ultimi mesi dell’anno.
Questa lentezza nell’attribuzione formale delle risorse rende complessa la programmazione e la gestione finanziaria da parte delle aziende sanitarie.
Uno sguardo verso il futuro
In conclusione, lo studio sul finanziamento del Ssn e dei Ssr disegna un quadro caratterizzato da un processo disordinato e sempre più oggetto di negoziazione politica tra le Regioni, piuttosto che basato su evidenze oggettive e fabbisogni reali.
Una volta analizzato il quadro complessivo, il rapporto suggerisce la necessità di superare l’approccio basato sullo “storico” e sulla sola “negoziazione politica”, promuovendo una metodologia di calcolo del fabbisogno sanitario standard basata su criteri più oggettivi e aggiornati. Questi dovrebbero includere elementi come i Lea effettivi, i tassi di rinuncia alle cure, le caratteristiche della popolazione, l’epidemiologia, l’innovazione tecnologica, il personale e le infrastrutture necessarie, gli standard organizzativi e la mobilità sanitaria.
“Il finanziamento del Ssn dovrebbe essere agganciato a una strategia pluriennale per la salute e il rafforzamento del sistema salute, adottata con un nuovo Piano sanitario nazionale definito con una procedura più forte”, si legge nelle conclusioni del rapporto. In linea con i principi costituzionali, la garanzia dei diritti incomprimibili come la salute dovrebbe incidere sul bilancio e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.
Secondo gli analisti, infine, una maggiore accountability a livello regionale sarebbe opportuna per poter valutare l’effettiva destinazione delle risorse in proporzione ai fabbisogni. Sebbene l’analisi del processo di finanziamento sia complessa e meriti ulteriori approfondimenti, le evidenze emerse da questo studio offrono spunti critici fondamentali per ripensare i meccanismi di allocazione delle risorse nel Ssn, al fine di migliorarne l’equità, l’efficienza e l’efficacia nel rispondere ai bisogni di salute dei cittadini. Una sfida enorme su cui costruire il presente e il futuro del Servizio sanitario nazionale.
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