Il bollettino mensile del pacchetto di infrazioni da parte dell’Unione Europea difficilmente è una buona notizia per i 27 Stati membri dell’UE. Di solito più numerosi i casi di nuove procedure avviate che i casi di vertenze risolte o archiviate. In questo senso maggio è un mese emblematico per l’Italia, che registra l’avvio di nuove procedure d’infrazione, nello specifico sulle emissioni industriali e sui diritti degli azionisti.
Come spiega il Dipartimento per gli Affari Europei, che fa capo alla Presidenza del Consiglio, “la procedura d’infrazione è avviata nei confronti di uno Stato membro quando la Commissione europea rileva la violazione di una norma europea. La violazione può consistere nella mancata attuazione di una norma europea oppure in una disposizione o in una pratica amministrativa nazionali che risultano con essa incompatibili”.
Nell’ultimo conteggio accessibile, relativo al 26 marzo 2025, le procedure d’infrazione a carico del nostro Paese erano 65, di cui 50 per violazione del diritto dell’Unione e 15 per mancato recepimento di direttive. La parte del leone, purtroppo, è costituita dalle violazioni ambientali, ben 23, l’unico settore in doppia cifra. Tra l’altro le penultime due, risalenti al 25 marzo, erano collegate anche queste all’ambiente: la prima era relativa al mancato recepimento della direttiva delegata (UE) 2024/846 della Commissione, del 14 marzo 2024, che indica nuove disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada; l’altra era relativa al mancato recepimento della direttiva (UE) 2024/1711 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 giugno 2024, che punta a un miglioramento dell’assetto del mercato dell’energia elettrica dell’Unione.
A maggio le due nuove procedure di infrazione riguardano due temi caldi, per non dire scottanti.
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La procedura d’infrazione UE sulle emissioni industriali
“La Commissione ha deciso di inviare una lettera complementare di costituzione in mora all’Italia per il non corretto e incompleto recepimento della direttiva relativa alle emissioni industriali (direttiva 2010/75/UE)”. Nella prima parte della comunicazione UE si evince subito che si tratta di una vicenda che si trascina da anni – la direttiva contestata è infatti del 2010.
“La direttiva – spiega ancora la Commissione – mira a prevenire, ridurre e, per quanto possibile, eliminare l’inquinamento proveniente da attività industriali per proteggere la salute umana e l’ambiente. Secondo la sentenza della Corte di giustizia dell’UE del 25 giugno 2024 (C-626/22), la legislazione italiana non è in linea con la direttiva sulle emissioni industriali. In particolare, non tiene conto dell’impatto delle installazioni sulla salute umana, non considera tutte le sostanze inquinanti emesse dall’installazione al momento del rilascio dell’autorizzazione e non sospende l’esercizio di un’installazione qualora la violazione delle condizioni di autorizzazione presenti un pericolo immediato per la salute umana o per l’ambiente”.
Tuttavia la contestazione della Commissione non è solo sugli aspetti generali. Il riferimento successivo è in questo senso ancora più netto: “L’Italia non ha inoltre rispettato alcune delle disposizioni di tale direttiva per quanto riguarda lo stabilimento di Acciaierie d’Italia (impianto siderurgico ILVA) a Taranto”. Nel frattempo nella città pugliese, probabilmente l’emblema più noto dei conflitti ambientali e degli impianti industriali imposti dall’alto, sono cambiate tante cose. A partire dai vari passaggi di proprietà dell’ex acciaieria più grande d’Europa – da Ilva ad Acciaierie d’Italia, col governo Meloni di nuovo alla ricerca di un acquirente estero dopo i fallimenti passati.
“L’Italia non garantisce che lo stabilimento di Acciaierie d’Italia a Taranto operi in conformità alla normativa dell’UE sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per la salute umana e l’ambiente” scrive ancora la Commissione. Intervistato dal portale “cronache tarantine”, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha spiegato che “si tratta di fatti pregressi. Abbiamo già prodotto tutta la documentazione necessaria a chiarire ogni dubbio”.
Per i comitati e gli attivisti territoriali, invece, le rassicurazioni governative non risolvono quasi nulla. L’avvocato Maurizio Rizzo Striano ricorda su Facebook che 12 anni fa la Commissione europea aprì la prima procedura d’infrazione contro lo Stato italiano dopo l’esposto dello stesso Striano. E che da allora “la procedura non si concluse né con l’archiviazione né con il deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia Europea”, tranne poi “risvegliarsi” oggi, dopo la sentenza della Corte di giustizia, citata dalla stessa Commissione. “Ora il governo italiano – scrive ancora Striano – ha due mesi di tempo per rispondere. Ovviamente sosterrà che con l’ultimo decreto legge, il n. 3 del 2025, si è adeguata a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia Europea e che ha rilasciato un’AIA (autorizzazione integrata ambientale, nda) coerente con i principi enunciati nella sentenza. In realtà sia con l’ultimo decreto legge che con l’AIA in arrivo la sentenza della Corte è stata raggirata in modo eclatante”.
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La procedura d’infrazione UE sui diritti degli azionisti
Altrettanto complicata è anche la seconda procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il mese di maggio. In questo caso la Commissione invita il nostro Paese, si legge nel testo della contestazione, “a recepire correttamente la direttiva sui diritti degli azionisti (direttiva 2007/36/CE) di società quotate”. Ancora la Commissione ricorda che “la legge italiana mina la libertà degli azionisti di scegliere senza limitazioni il proprio rappresentante per le assemblee generali, imponendo invece un rappresentante designato a livello di società. In tal modo viola il diritto degli azionisti, ai sensi della direttiva, di presentare delibere per qualsiasi punto all’ordine del giorno, compresi quelli di nuova introduzione, negando così ai rappresentanti designati dalla società gli stessi diritti di cui godrebbero gli azionisti che essi rappresentano”.
Si tratta di contestazioni avanzate nel corso degli anni da parecchie organizzazioni non governative – l’ultima in ordine di tempo A Sud – che hanno visto ridurre di molto gli spazi di incidenza in questo modo sull’assemblea degli azionisti delle maggiori aziende e banche italiane: da Eni a Snam fino a Intesa San Paolo. In questo modo, sostengono le ong, è sempre più complicato portare avanti l’azionariato critico.
Come spiega Fondazione Finanza Etica, tra le prime realtà a introdurre questa pratica in Italia, l’azionariato critico è una modalità in cui organizzazioni non governative o singole persone acquistano un numero simbolico di azioni di un’azienda per esercitare pressione e far valere le proprie istanze in merito a questioni etiche, sociali o ambientali attraverso la presentazione di domande a cui l’azienda è obbligata a rispondere.
Infine anche per questa procedura d’infrazione l’Italia “dispone ora di 2 mesi per rispondere e rimediare alle carenze segnalate dalla Commissione, trascorsi i quali, in assenza di una risposta soddisfacente, quest’ultima potrà decidere di emettere un parere motivato”.
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