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I legislatori della Silicon valley – Evgeny Morozov


Si prova una specie di brivido spiazzante nell’assistere alla proliferazione di idee coraggiose, spesso sconcertanti e a volte spaventose che l’élite tecnologica statunitense propone da qualche anno.

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Prendiamo le eresie di Balaji Srinivasan e Peter Thiel che, celebrando il Network state (una comunità online che aspira a essere considerata come uno stato autonomo) e il seasteading (stabilirsi in abitazioni costruite in mare al di fuori dei territori nazionali), hanno teorizzato una dottrina della fuga per l’aristocrazia digitale. Mentre Srinivasan evoca feudi basati sulla blockchain, Thiel sogna piattaforme sull’oceano dove i ricchi possano fluttuare liberi dalle grinfie dello stato, le loro fantasie libertarie come yacht di lusso placidamente ormeggiati in acque internazionali.

Sfornano idee con l’efficienza di una catena di montaggio e la discrezione di un treno merci. E le loro “opinioni controverse” sono fondate su precise tradizioni filosofiche

L’overdose soluzionista della Silicon valley ha gonfiato una bolla delle idee che fa a gara con quelle finanziarie, come un mercato sopravvalutato dove il prezzo delle grandi narrazioni sale più velocemente delle opzioni azionarie. E così, mentre Sam Altman abbozza disinvoltamente modelli planetari per la (non) regolamentazione dell’intelligenza artificiale e addirittura il welfare dell’ia (“Capitalismo per tutti!”), seguaci delle criptovalute (Marc Andreessen, David Sacks), aspiranti colonizzatori dello spazio (Elon Musk, Jeff Bezos) e sostenitori del ritorno al nucleare (Bill Gates, Bezos, Altman) offrono le loro entusiasmanti soluzioni a problemi dalle origini apparentemente ignote (chi succhierà tutta l’energia di cui improvvisamente abbiamo tanto bisogno?).

Ma anche questioni più terrene, dalla politica estera alla difesa, cominciano a preoccuparli sempre di più. Eric Schmidt, uomo dalla personalità incolore, non solo ha scritto due libri con Henry Kissinger ma collabora regolarmente con Foreign Affairs e altre fabbriche di dogmatismi e sventura. Gli piacciono i temi grossi e succosi, quelli che provocano cupi segni di assenso durante pranzi ai think tank. “L’Ucraina sta perdendo la guerra dei droni”, sentenzia un suo articolo scritto nel gennaio 2024. Non sarà mica – per pura coincidenza, è ovvio – lo stesso Eric Schmidt che, pochi mesi prima, ha avviato un’azienda di droni?

Ora che le élite tecnologiche si sono unite alla festa, le speculazioni sul futuro della guerra, un tempo dominio esclusivo degli “intellettuali della difesa”, è diventato il loro divertimento principe. Alex Karp della Palantir e Palmer Luckey della Anduril – un patrimonio netto combinato superiore a 11 miliardi di dollari – si atteggiano a David vestiti di stracci che combattono contro i Golia spendaccioni del Pentagono. Inevitabilmente anche Elon Musk, lo Zelig del tecnocapitalismo, ha opinioni precise sull’argomento: durante una recente apparizione ha decretato che nelle guerre del futuro, dove la priorità sarà distruggere le infrastrutture, “tutte le comunicazioni di terra come i cavi per la fibra ottica o i ripetitori telefonici saranno distrutte”. Se solo qualcuno avesse un’azienda che offre servizi satellitari per salvarci!

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Gli “intellettuali specifici” di Michel Foucault, che si conquistavano autorità attraverso una conoscenza tecnica specialistica, sembrano superati di fronte a un personaggio come Palmer Luckey, il ragazzo prodigio della realtà virtuale diventato fornitore della difesa. Dopo aver dismesso la giacca di tweed per le infradito e la camicia hawaiana, si pavoneggia nelle interviste presentandosi come un “propagandista” intenzionato a “ribaltare la verità”. In questo pantheon riorganizzato, il sobrio analista dell’epoca della guerra fredda cede il passo a un nuovo archetipo: clamorosamente ricco, attento alla celebrità e ideologicamente spudorato.

Liquidare questi imprenditori e dirigenti d’azienda come semplici uomini di spettacolo sarebbe un errore. Per prima cosa, sfornano idee con un’efficienza da catena di montaggio: i loro blog, i loro podcast e le loro newsletter Substack hanno la discrezione di un treno merci. E le loro “opinioni controverse”, nonostante la confezione volgare, sono spesso fondate su precise tradizioni filosofiche. Quindi, ciò che sembra a prima vista cibo spazzatura intellettuale – crocchette di pensiero ultraprocessate e fritte nell’olio del capitale di rischio – spesso nasconde ingredienti genuini presi da una dispensa raffinata e da buongustai.

Non a caso, il bibliofilo miliardario è il nuovo feticcio della Silicon valley e la libreria ha soppiantato lo yacht come barometro supremo dello status. L’infatuazione molto discussa di Peter Thiel per il politologo Leo Strauss e il critico letterario René Girard costituisce solo un ramo di questo albero di famiglia filosofico. Un tralcio ben più solido è quello di Alex Karp, la cui tesi di dottorato sul filosofo Theodor Adorno e il sociologo Talcott Parsons è un fondamento intellettuale per l’impero della sorveglianza della Palantir. Le sue comunicazioni con gli investitori sono guarnite di citazioni erudite.

Eppure, in qualche modo, la realpolitik per ottimisti di Karp sembra decisamente non adorniana. “La capacità degli Stati Uniti di organizzare la violenza in modo superiore è l’unica ragione per cui il mondo è migliorato negli ultimi… settanta-ottant’anni”, ha dichiarato su Fox Business a marzo. La scuola di Francoforte va al Nasdaq passando per una sosta di rifornimento alla Cia: dove Adorno e Max Horkheimer vedevano la violenza celata dietro la razionalità dell’illuminismo, Karp vede la violenza organizzata come segno dei benefici globali dell’egemonia statunitense, oltre a una ricca opportunità di profitto nel contribuire a migliorarne ancora l’organizzazione (questa volta con gli algoritmi, i droni, l’intelligenza artificiale).

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La retorica militante di Karp è la spia dell’impazienza della Silicon valley per il pensiero non ancorato all’azione. Marx avrebbe sicuramente brindato a questa virata verso la prassi: invece di limitarsi a “discutere il mondo”, le élite tecnologiche hanno la volontà, i mezzi – e adesso, a quanto pare, le “grandi palle” – per cambiarlo. Il ritorno di Trump gli ha aperto un canale diretto con la macchina federale. Il loro approccio? Lo stesso che ha raso al suolo le “industrie dinosauro”: prima rompere, poi bonificare.

Le categorie su cui ci siamo basati – élite, oligarchi, intellettuali pubblici – vacillano di fronte a questa nuova specie. I re-filosofi della Silicon valley non sono semplicemente i mecenati di una volta, che foraggiavano fondazioni e associazioni non profit, né plutocrati che abbozzano manifesti tra uno yacht e l’altro. Hanno studiato e costruito un ibrido più muscolare: portafogli di investimenti che servono da tesi filosofiche e posizioni di mercato che fanno avverare le loro convinzioni. Mentre i miliardari dell’era industriale aprivano fondazioni per commemorare le loro visioni del mondo, queste figure creano fondi di investimento che sono anche fortezze ideologiche: dal capitalismo (tesi), al filantro-capitalismo (antitesi) alla guerra culturale come centro di profitto (sintesi).

Prendiamo il campo di battaglia degli investimenti etici, questa confessione capitalista chiamata Esg (environmental, social and governance, cioè ambientale, sociale e di governance) dove il dubbio tentativo di Wall street di misurare la virtù come una relazione trimestrale sugli utili si è trasformato in un focolaio della guerra culturale. Per i non iniziati, l’Esg rappresenta l’ammissione tardiva del mondo finanziario che avvelenare i fiumi, sfruttare i lavoratori e nominare consigli di amministrazione formati dagli amici con cui si gioca a golf può influire negativamente sui bilanci. I punteggi Esg dovrebbero misurare la sostenibilità ambientale, la responsabilità sociale e le pratiche di governance delle aziende, una sorta di valutazione di solvibilità morale per le imprese che vogliono dimostrare di essersi evolute dallo sfruttamento della natura e della dignità umana.

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La cosa peculiare – quasi perversamente affascinante – è il modo in cui le élite della Silicon valley hanno piazzato la loro artiglieria su questo campo di battaglia, così apparentemente distante dai loro regni digitali. Così abbiamo avuto gli scetticismi di Musk (“una truffa”), le denunce di Chamath Palihapitiya (“una frode totale”) e i riti di sepoltura di Andreessen (“un’idea zombi”).

Ma questi personaggi vanno oltre i semplici commenti. Quando la prassi chiama, Silicon valley risponde con gli investimenti, non con la semplice filantropia. Thiel, dopo aver paragonato l’Esg al comunismo cinese e averlo definito un “cartello ideologico”, ha finanziato lo Strive asset management, un fondo anti-Esg. Andreessen, che aveva già finanziato New founding, un fondo cristiano vicino al movimento trumpiano Make America great again (Maga), ha contribuito a foraggiare 1789 Capital, un altro baluardo anti-Esg ora fortificato da Trump junior. Il loro colpo di genio? Convertire posizioni intellettuali in speculazioni di mercato per riplasmare la realtà contro cui stavano mettendo i loro investimenti.

L’impronta intellettuale della Silicon valley ha scavato solchi più profondi di quanto pensassimo? E se quella di Andreessen e soci, che oggi indossano i panni dei “piccoli geni” coraggiosi, fosse più di una semplice pantomima? Si fa strada un’ipotesi scabrosa e inquietante: e se le nostre élite tecnologiche multitasking fossero proprio le forze – astute, potentissime, a volte deliranti – che guidano la “trasformazione strutturale” della sfera pubblica diagnosticata dal filosofo Jürgen Habermas nelle sue prime opere?

Il giovane Habermas – prima che la teoria dei sistemi gonfiasse la sua prosa e il gusto per la sfumatura ne annacquasse la furia – aveva individuato il colpevole con chiarezza cristallina: il declino del dibattito critico e aperto era dovuto all’influenza corruttrice della concentrazione del potere. Mai furono pronunciate parole più vere. Ma quando nel 2023 ha aggiornato la sua analisi del 1962, ha scelto di fissarsi su questioni come la “sterzata algoritmica”, un po’ come chi si preoccupa di raddrizzare i quadri mentre la casa sta crollando.

Oggi è sempre più chiaro che sono gli oligarchi tecnologici – e non le loro piattaforme guidate dagli algoritmi – il pericolo maggiore. Il loro arsenale combina tre armi letali: forza di attrazione del denaro (fortune talmente vaste che distorcono la fisica fondamentale della realtà), autorità oracolare (visioni tecnologiche trattate come profezie inevitabili) e sovranità sulle piattaforme (la proprietà dei crocevia digitali dove si svolgono le conversazioni della società). L’acquisizione di Twitter (oggi X) da Musk, gli investimenti di Andreessen in Substack, il corteggiamento di Rumble da parte di Thiel, il conservatorismo di YouTube hanno colonizzato il mezzo e il messaggio, sia il sistema sia il mondo naturale.

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Dobbiamo aggiornare le nostre categorie per descrivere questa nuova specie di oligarchi intellettuali. Se l’intellettuale pubblico di ieri somigliava a un archeologo che dissotterrava metodicamente manufatti culturali, il modello di oggi è l’esperto di demolizioni, che dissemina intere strutture della società di esplosivi ideologici e li fa brillare dalla distanza sicura di un conto offshore. Questi personaggi non scrivono sul futuro: lo installano, testando le loro teorie su popolazioni ignare in un esperimento gigantesco.

Ciò che li distingue dalle élite ricche del passato non è l’avarizia ma la verbosità, una logorrea torrenziale che esaspererebbe perfino Balzac. Se i baroni industriali finanziavano gli studi per riciclare i loro interessi mascherandoli da documenti programmatici, i nostri oligarchi intellettuali hanno eliminato ogni filtro. Altro che “sterzata algoritmica”: gli oligarchi intellettuali impongono la conversazione con le loro granate filosofiche. Le sganciano alle tre del mattino su X ed entro l’ora della colazione diventano invariabilmente notizie di rilievo internazionale.

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Come dovremmo collocare queste figure in un dibattito strutturato sugli intellettuali? Alla fine degli anni ottanta, Zygmunt Bauman individuò due archetipi di intellettuali: i legislatori, che scendevano dalla montagna con i comandamenti della società scolpiti nella pietra, e gli interpreti, che si limitavano a mediare tra dialetti culturali senza prescrivere regole universali. La postmodernità, scriveva Bauman, stava erodendo la posizione dei legislatori. Le grandi narrazioni erano morte. L’autorità universale era appassita. Tutto ciò che restava era l’interpretazione.

I nostri oligarchi intellettuali cominciano come interpreti. Si posizionano come intermediari tecnologici, canali passivi di futuri inevitabili. Il loro dono speciale? Leggere le foglie di tè del determinismo tecnologico con perfetta chiarezza. Non prescrivono, si limitano a tradurre il vangelo dell’inevitabilità. È la funzione “intellettuale” della loro identità a doppia elica. Ma la catena del dna degli oligarchi ha maglie più strette. Armati delle loro visioni profetiche, chiedono sacrifici specifici all’opinione pubblica, al governo, ai loro dipendenti. Altman gira per le capitali come un Kissinger della tecnologia, offrendo trattati di pace per una guerra dell’ia che non è nemmeno cominciata. Musk tratteggia il destino cosmico dell’umanità con la certezza di un piano quinquennale sovietico. Thiel e Karp riscrivono la strategia della difesa mentre Andreessen reinventa il denaro e Srinivasan la governance. Il loro dono interpretativo si trasforma come un camaleonte in mandato legislativo.

In tutto questo, gli oligarchi intellettuali della Silicon valley hanno costruito le porte della loro cattedrale su quelle che un tempo i postmodernisti avevano definito macerie: una grande narrazione con la parola “tecnologia” (ma anche “frattura”, “innovazione”, “intelligenza artificiale generale”) incisa su ogni pietra, con il peso dell’inevitabilità. Sfogliano tomi come Quello che vuole la tecnologia di Kevin Kelly (Codice edizioni 2011) non da lettori ma da revisori, appuntando tra le righe i loro imperativi.

La metamorfosi raggiunge il suo stadio finale non con manifesti o tempeste di tweet ma con la colonizzazione delle stanze del potere di Washington. Li vediamo passare dai consigli di amministrazione al consiglio dei ministri, determinati e fluidi come il mercurio, capaci di fondere magistralmente interpretazione e legislazione prima profetizzando le esigenze della tecnologia, poi plasmando la politica per soddisfare le divinità che loro stessi hanno inventato. I nostri oligarchi intellettuali orchestrano la sinfonia della realtà usando il capitale per bombardare a tappeto e affinando la strategia di “allagare la zona” di Steve Bannon fino a farne una scienza idraulica. Concentrando poteri che prima erano sparsi in diverse sfere della società, propongono dei futures il lunedì, li finanziano il martedì e ne determinano l’esito il venerdì. E chi si azzarderebbe a mettere in dubbio la parola di profeti che con le loro rivelazioni hanno fatto nascere PayPal, la Tesla e ChatGpt? Il loro diritto divino al vaticinio deriva dalla loro comprovata divinità.

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Quando parlano, descrivono il consolidamento e l’espansione dei loro piani non come interessi economici privati ma come l’unica speranza di salvezza del capitalismo. Il “manifesto del tecno-ottimista” di Andreessen – l’enciclica digitale che sprona gli Stati Uniti a costruire invece di lamentarsi – è pieno di riferimenti alla stagnazione economica e prescrive il rischio imprenditoriale come unico antidoto alla sclerosi del sistema. Invocando Nietzsche e Marinetti, dice che l’accelerazione è una virtù e condanna l’invito alla prudenza. “Crediamo che non ci sia nessun problema materiale che non possa essere risolto con più tecnologia”, proclama. Non è solo un’affermazione, è una catechesi per il futuro che lui desidera.

Thiel continua a ripetere che l’occidente ha perso la capacità d’innovazione ed evoca a sua volta l’immagine di un deserto tecnologico che deve essere irrigato dalla Silicon valley. Altman, invece, si esibisce in un’agile doppio passo: prima dichiara che l’ia divorerà posti di lavoro, poi propone l’estensione del reddito minimo universale come l’unica soluzione logica. E lo fa non solo con i ghirigori retorici ma attraverso i finanziamenti alla ricerca e Worldcoin, la sua seconda, meno nota startup dell’identità digitale che offre dividendi a chi decide di sottoporsi alla scansione dell’iride. Non sono solo banalità opportunistiche ma veri e propri imperativi esistenziali: rifiutate le loro proposte e vedrete la civiltà andare in pezzi.

Questa autopromozione messianica – un gruppo di oligarchi tecnologici che s’incoronano da soli come i portavoce ufficiali dell’umanità – ci riporta ai quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Il filosofo marxista italiano sviluppò la teoria degli “intellettuali organici” come voci emergenti dalle classi in ascesa, specialmente del proletariato, capaci di tradurre gli interessi particolari in imperativi universali nella battaglia per l’egemonia culturale. L’amara conclusione? Il capitale ha battuto la sinistra al suo stesso gioco: gli oligarchi intellettuali sono diventati gli intellettuali organici non nominati del capitale. In dieci anni il capitalismo ha raggiunto l’obiettivo che il socialismo non è riuscito a raggiungere in un secolo.

Tra la fredda aritmetica della ricerca del profitto e il teatro messianico della salvezza della civiltà si annida la contraddizione più rivelatrice degli oligarchi intellettuali, e cioè che devono spegnere le stesse fiamme rivoluzionarie che i loro imperi hanno attizzato. La campagna ossessiva contro la cosiddetta cultura woke è la spia del riflesso più antico del potere: il contenimento delle proprie contraddizioni. E così Musk denuncia il “virus mentale woke”, mentre Karp lo attacca come “una forma di esile religione pagana”. Andreessen dipinge le università di élite come seminari marxisti per “comunisti che odiano l’America”. Joe Lonsdale, un altro milionario della tecnologia (e tra i fondatori della Palantir) è stato il motore trainante della University of Austin, l’ateneo anti-woke per “capitalisti che amano l’America”.

Per risalire alle origini di questa ansia oligarchica dobbiamo riprendere le previsioni di Alvin Gouldner sull’ascesa della “nuova classe” alla fine degli anni settanta. Gouldner descriveva una “intellighenzia tecnica” portatrice di una carica rivoluzionaria impressa nel suo stesso dna. All’apparenza docili – “non desiderano nient’altro che crogiolarsi nelle loro ossessioni narcotiche per gli enigmi tecnici” – lo scopo fondamentale di questi nuovi intellettuali era “rivoluzionare continuamente la tecnologia” destabilizzando le fondamenta culturali e l’architettura sociale con il loro rifiuto di inchinarsi agli dei del passato.

L’alleanza immaginata da Gouldner – ingegneri razionali e intellettuali culturali uniti per sfidare il capitalismo consolidato – costituiva la “nuova classe”, una forza potenzialmente rivoluzionaria ostacolata dalla sua stessa condizione di privilegio. Come hanno dimostrato i decenni successivi, l’utopia di Gouldner non si è mai davvero materializzata (anche se reazionari come Bannon e Curtis Yarvin non sarebbero d’accordo). La Silicon valley si è però rivelata una strana eccezione. Le sue truppe – se non necessariamente i suoi generali – sono imbevute d’ideali controculturali e credono nella diversità e nell’appiattimento delle gerarchie. Le ricerche sui lavoratori del settore tecnologico riscontrano l’emergere di una “soggettività post-neoliberista”, una coscienza allergica alla disuguaglianza e sempre più ostile alla teologia imprenditoriale che un tempo imponeva il sacrificio completo della vita privata sull’altare dell’azienda.

Uno studio del 2023 sulle donazioni politiche di duecentomila dipendenti di 18 settori industriali rivela che i lavoratori del settore tecnologico sono marcatamente anti-establishment, secondi solo ai bohé­mien delle arti e dello spettacolo nel loro ardore progressista. La fonte di questo radicalismo è la stessa a cui attingeva Gouldner, cioè la “cultura del discorso critico” insita nel lavoro tecnico in quanto tale. I ricercatori hanno rilevato che i dipendenti non tecnici delle stesse aziende non mostrano alcun segno di questa indole ribelle, a riprova del fatto che è la programmazione informatica in sé a contribuire alla loro mentalità dissidente. L’aspetto più rivelatore di questo studio è il gigantesco cratere che divide i lavoratori tecnologici progressisti dai loro capi che simpatizzano per la destra. Questa divisione è una bomba a orologeria che è scoppiata all’inizio della prima amministrazione Trump. Catalizzati dalle misure del governo profondamente aggressive ma maldestre nell’applicazione, i lavoratori della Silicon valley si sono trasformati da soldatini obbedienti in dissidenti digitali.

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Aizzati dai social network e dalle tensioni sociali dopo l’assassinio di George Floyd per mano della polizia, i lavoratori del settore tecnologico si sono rivelati una minaccia imprevista. Gli oligarchi si sono visti attaccati dall’interno da una legione di progressisti che improvvisamente rifiutavano di mettere la loro sapienza tecnica a disposizione delle macchine sanguinarie del Pentagono o delle deportazioni dell’ufficio immigrazione. Queste rivolte mettevano a rischio non semplici accordi contrattuali ma l’alleanza stessa che legava la Silicon valley al complesso militare-industriale. Il secondo fronte della ribellione – la consapevolezza climatica – è emerso in tutto il suo fervore evangelico quando i dipendenti di Amazon hanno pubblicato il loro manifesto verde, proclamandosi capaci di “ridefinire ciò che è possibile” per la salvezza del pianeta. Per gli oligarchi, questa duplice ribellione era un tumore maligno da asportare subito.

Incapaci di riprogrammare la forza lavoro con mezzi diretti, gli oligarchi intellettuali della Silicon valley hanno adottato una soluzione più elegante: condannare l’infiltrazione woke con un fanatismo da inquisizione medievale, mascherando la sicurezza nazionale con la retorica del dovere patriottico. Così ora Karp chiede fedeltà geopolitica ai suoi salariati: i dipendenti devono sostenere Israele ed essere contro la Cina, e chi non è d’accordo è libero di cercarsi un impiego altrove. Come ha detto al forum di Davos nel 2023, “vogliamo dipendenti che vogliono stare dalla parte dell’occidente. Magari qualcuno non sarà d’accordo. Benissimo, nessuno lo obbliga a lavorare qui”.

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Il mandato che sta dietro queste dichiarazioni è semplice: riallineare l’intellighenzia tecnologica al potere economico tradizionale bonificandola dal pensiero sovversivo. Il sogno di Gouldner di un’alleanza tecnico-culturale si è spezzato, mandato in frantumi dalle lettere di licenziamento, dal disprezzo della coscienza sociale, considerata una debolezza, e da una paranoia esagerata per la concorrenza cinese.

L’affermazione degli oligarchi intellettuali come soggetto sociale stabile e coerente è un sottoprodotto di questa battaglia per l’egemonia. E certamente non si fermeranno. Nella Washington di Trump non arrivano come ospiti, ma come architetti. Il loro armamentario di torsione della realtà – potere del denaro, dominio delle piattaforme, burocrazie che s’inginocchiano ai loro piedi per trasformare fantasie private in politiche scelte – esercita una forza senza precedenti. Carnegie e Rockefeller incutevano rispetto ma non avevano questo arsenale micidiale fatto di propaganda, fascino della celebrità e accesso agli uffici presidenziali. Riscrivendo le leggi, incanalando le sovvenzioni e ricalibrando le aspettative dell’opinione pubblica, gli oligarchi intellettuali trasformano sogni deliranti – feudi della blockchain, ville su Marte – in futuri apparentemente plausibili.

Per fortuna, quella che a prima vista sembra una fortezza monolitica nasconde difetti strutturali invisibili agli osservatori adoranti. L’apparente capacità di piegare la realtà a piacimento paradossalmente si scava la fossa da sola costruendo camere di risonanza che, mentre celebrano la libertà d’espressione, soffocano qualsiasi critica. E in un paesaggio già inquinato dal culto per i leader, il contatto con la verità senza filtri diventa sempre più raro. Questo è uno dei molti aspetti che differenziano sostanzialmente la politica e gli affari. Il capitale di rischio deve comunque fare i conti con il freddo giudizio del mercato. Il mercato, anche se imperfetto, mette regolarmente alla prova le ipotesi d’investimento.

Ma il potere oligarchico si presta a una tentazione più sinistra: perché modificare le previsioni per adattarle alla realtà quando si può piegare la realtà per avvalorare le previsioni? Quando la Andreessen Horowitz dichiara le criptovalute come eredi inevitabili del sistema bancario, il passo successivo non è adattarsi ma attivarsi, sfruttando l’influenza dell’amministrazione Trump per trasformare la profezia in politica. La collisione tra la fantasia imprenditoriale e l’ostinazione dei fatti si può evitare quando si hanno le leve per riconfigurare i fatti. È la mossa finale: la riconfigurazione di leggi, istituzioni e aspettative culturali fino a fondere profezia e realtà in un’unica allucinazione. La realtà, tuttavia, ha sempre il suo punto di rottura, una lezione che i burocrati sovietici impararono quando le loro favole meticolosamente architettate si schiantarono contro le costrizioni materiali. Il partito comunista cinese, più astuto nei metodi, ha costruito sistemi multilivello di raccolta del malcontento – forum digitali, autorità locali, ong controllate – in grado di fornire informazioni cruciali su potenziali disordini.

Gli oligarchi intellettuali manifestano esattamente l’istinto opposto: stanno seguendo il metodo sovietico. L’apparato del Doge di Musk vuole trasformare i dipendenti rimasti in manichini accondiscendenti, mentre i suoi collaboratori danno la caccia ai dissidenti sulle piattaforme digitali con efficienza algoritmica. Scegliendo la negazione sovietica della realtà invece del monitoraggio della realtà alla maniera cinese, hanno costruito casse di risonanza che alla fine manderanno in fumo i loro grandi progetti.

In tutto questo c’è una profonda ironia: questi uomini che vedono comunisti dappertutto stanno per commettere il peccato cardinale della tecnocrazia sovietica, scambiando i loro modelli patinati per la realtà riottosa che pretendono di domare.

Non c’è molto da sorprendersi: quando gli oligarchi intellettuali metteranno le mani sull’apparato più potente della storia, si trasformeranno inevitabilmente in apparatchik, con l’unica differenza che passano le vacanze nelle tende del festival Burning Man invece che nelle lussuose case di cura della Crimea. Elon Musk avrà anche cominciato come l’imprenditore e innovatore Henry Ford, ma finirà come Leonid Brežnev, leader sovietico aggrappato al potere fino alla fine. ◆ fas

 

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Evgeny Morozov è un sociologo e giornalista bielorusso. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Silicon valley: i signori del silicio (Codice edizioni 2017). Questo articolo è uscito sul giornale online The Ideas Letter con il titolo “The new legislators of Silicon valley”.

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