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Azione revocatoria nelle procedure concorsuali


Il presente contributo analizza la fattispecie dell’azione revocatoria,  fornendo informazioni generali e approfondendo le principali modifiche alla normativa introdotte dal Codice della Crisi e successivamente dal Decreto Correttivo ter.

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1. Premessa

L’istituto dell’azione revocatoria nelle procedure concorsuali, da sempre oggetto di un nutrito dibattito giurisprudenziale e dottrinale, si può suddividere in due tipologie ben precise: “ordinaria” (artt. 2901 ss. c.c. e 165 CCII) e “nella liquidazione giudiziale o fallimentare” (artt. 166 ss. CCII, alla cui fattispecie sono riconducibili anche le disposizioni previste dagli artt. 163-164 CCII).

Partendo dalla prima, l’azione revocatoria ordinaria trova il suo fondamento, come detto, nell’art. 2901 ss. c.c. – applicabile anche in sede concorsuale in forza del richiamo contenuto nell’art. 165 CCII – ed è caratterizzata dalla necessaria sussistenza di un presupposto soggettivo (consilium fraudis) e uno oggettivo (eventus damni).

ll consilium fraudis è inquadrabile in due situazioni differenti, caratterizzate dalla collocazione temporale in cui avviene l’atto dispositivo in relazione alla nascita del credito: (i) la consapevolezza del pregiudizio che provocherebbe tale atto di disposizione nei confronti del creditore (valutazione del creditore ex post rispetto alla nascita del credito), e (ii) la dolosa preordinazione al compimento dell’atto (valutazione ex ante). Ai fini della valutazione del presupposto soggettivo, è particolarmente rilevante la questione riguardante la natura dell’atto di disposizione, il quale influisce in maniera netta sul conseguente onere della prova; infatti, se questo è a titolo oneroso è sufficiente la sussistenza del consilium fraudis del debitore; in caso contrario, se è a titolo gratuito si dimostra rilevante la presenza del consilium fraudis anche del terzo a cui è stato alienato il bene.

Per quanto concerne l’eventus damni, si riferisce a quella fattispecie in cui l’atto lesivo ha impedito ai creditori di poter soddisfare il loro credito, provocando un’insufficienza del patrimonio del debitore.

Segnatamente, l’azione revocatoria nella liquidazione giudiziale è quello strumento che consente al curatore (o figure affini) di tutelare la par condicio creditorum con un’azione mirata, avente l’obiettivo della reintegrazione nel patrimonio del debitore in sede concorsuale di tutti quegli atti che, secondo i requisiti dettati dalla legge, sono qualificabili come “pregiudizievoli verso i creditori”. Proprio in applicazione di detto principio, il patrimonio del debitore deve essere ricostruito, rendendo inefficaci tutti quegli atti che portano vantaggio a un creditore a danno degli altri.

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L’istituto trova il suo fondamento normativo nelle disposizioni sancite dall’art. 166 CCII, nel quale, al primo comma, viene stabilito che “sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore”, determinate categorie di atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie. Il concetto della conoscenza dello stato d’insolvenza (cd. scientia decoctionis) costituisce una presunzione iuris tantum circa il fatto che, al momento dell’atto dispositivo, il terzo fosse a conoscenza dello stato d’insolvenza.

Nell’azione revocatoria nella liquidazione giudiziale è previsto anche un altro elemento, il periodo sospetto, ossia quell’arco temporale all’interno del quale possono essere stati compiuti atti dispositivi del patrimonio del debitore lesivi delle ragioni creditorie. Dunque, nel caso in cui un determinato atto, ritenuto revocabile dall’ordinamento, sia stato compiuto all’interno di questo arco temporale, potrà essere dichiarato inefficace o potrà esserne richiesta la revoca giudiziale.

Ovviamente, tutti gli atti, normali o anormali, compiuti dopo la data di riferimento, sono da considerarsi compiuti nel periodo sospetto.

2. L’azione revocatoria tra la legge fallimentare e il codice della crisi

In continuità rispetto a quanto previsto dalla previgente Legge Fallimentare (artt. 63 ss. L.F.), la riforma organica portata dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, agli artt. 163 ss., ricalca le disposizioni relative agli effetti della liquidazio­ne giudiziale sugli atti pregiudizievoli alle ragioni dei creditori, allo scopo di dare attuazione al principio della par condicio creditorum.

In quest’ambito, la più rilevante novità apportata dal Codice è stata il diverso criterio di calcolo, a ritroso, del cosiddetto periodo sospet­to, che dovrà decorrere non dalla data di apertura della procedura concorsuale (prima, data della dichiarazione di fallimento), ma dalla data di deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale. Tale concetto è stato applicato in diverse norme della Sezione IV, Capo I, Titolo V del Codice della Crisi, al fine di garantire che il tempo decorrente tra il deposito e l’apertura non vada in danno dei creditori rendendo irrevocabili gli atti maggiormente risalenti.

La suddetta novità, di converso, ha reso più difficile per il creditore la valutazione della revocabilità in astratto di un pagamento ricevuto in precedenza, posto che non sempre è di immediata conoscibilità la data di deposito della domanda cui è seguita l’apertura della li­quidazione giudiziale[1].

Nell’ambito della disciplina prevista dal Codice si confermano le medesime categorie di atti revocabili (atti inefficaci ex lege, artt. 163-164, e atti che richiedono l’accertamento giudiziale, artt. 166, co. 1 e 2, 167, 168 e 169), ma si sono registrati anche elementi innovativi, tra i quali la disciplina dell’inefficacia ex lege dei pagamenti effettuati anticipatamente ri­spetto alla scadenza (art. 164, co. 1, CCII).

Nell’ambito degli atti la cui inefficacia deve essere accertata giudizialmente (atti a titolo one­roso, pagamenti e garanzie), il Codice ripercorre fedelmente la disciplina previgente di cui all’art. 67 L.F. (art. 166 CCII), conservando la distinzione tra i cosiddetti “atti anormali” e “atti normali”.

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3. Questioni processuali: termine per l’esercizio dell’azione, legittimazione e competenza

Per quanto attiene ai profili processuali, i termini di decadenza e di prescrizione per l’esercizio dell’azione sono enunciati dall’art. 170 C.C.I.I., il cui comma 1 stabilisce che le azioni revocatorie possono essere esercitate entro il termine di 3 anni dalla data di deposito del ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale e comunque non oltre i 5 anni successivi al compimento dell’atto. La norma prevede che, quando alla domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza segue l’apertura della liquidazione giudiziale, la data di riferimento per la decorrenza del periodo sospetto e per il calcolo dei termini per l’esercizio dell’azione decorrono dalla data di pubblicazione della predetta domanda di accesso e non più dalla data di deposito della sentenza dichiarativa di fallimento.

Tale regola generale presenta, però, delle eccezioni nel caso in cui la procedura concorsuale sia diversa dalla liquidazione giudiziale.

Infatti, in caso di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione revocatoria decorra dal momento dell’approvazione del programma di cessione dei beni aziendali e non dalla sentenza dichiarativa dello stato d’insolvenza o dalla nomina del commissario straordinario, poiché l’art. 49 D.lgs. n. 270/1999, nel disporre che l’azione revocatoria può essere proposta dal commissario straordinario “soltanto se è stata autorizzata l’esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali”, prevede l’avveramento di una specifica condizione per l’esercizio dell’azione stessa[2].

Situazione ancora più complessa si riscontra nel caso della liquidazione coatta amministrativa, ove entra in gioco anche l’art. 299 CCII, che, al comma 1, equipara la data di deposito del ricorso per l’accertamento giudiziario dello stato d’insolvenza a quella del ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale.

Per quanto attiene, invece, ai profili della legittimazione, si deve analizzare separatamente quella attiva da quella passiva.

In primo luogo, l’unico legittimato a far valere l’azione revocatoria è il curatore e le sue figure affini in caso di procedure diverse dalla liquidazione giudiziale, come il concordato preventivo, il concordato semplificato, la liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione straordinaria. Nel caso di concordato nella liquidazione giudiziale sarà l’assuntore che, accollandosi tutte le obbligazioni nascenti dal concordato in cambio di tutte le attività della procedura (comprese le azioni revocatorie promosse in precedenza) sarà legittimato a subentrare al curatore nel diritto controverso ex art. 111 c.p.c.[3].

Preme segnalare che la legittimazione attiva deve essere accompagnata, come avviene per qualsiasi altro giudizio ordinario, dall’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), in quanto l’azione revocatoria non presuppone necessariamente un danno e ha natura distributiva verso il ceto creditorio, nel rispetto della par condicio creditorum. Dunque, prima di incardinare un giudizio di revocatoria, si deve eseguire una valutazione circa l’effettiva lesione procurata dall’atto al concorso dei creditori[4].

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Per quanto riguarda il foro competente, è stato oggetto di sostanziale modifica a seguito dell’entrata in vigore del Codice della Crisi.

Se per l’azione revocatoria fallimentare (art. 67 L.F.), che era di competenza esclusiva e inderogabile del tribunale del luogo ove era stato dichiarato il fallimento, in ragione di quanto disposto dall’art. 24 L.F., non vi sono mai stati dubbi interpretativi, non si può dire lo stesso per la sua versione ordinaria. Infatti, in caso di revocatoria ordinaria esercitata dal fallimento ex art. 66 L.F., la giurisprudenza di legittimità si era interrogata circa una possibile deroga a tale principio qualora l’azione revocatoria riguardasse un atto di scissione societaria che, per sua natura, dovrebbe essere oggetto della competenza trasversale delle Sezioni specializzate in materia di impresa[5].

La questione è stata recentemente dipanata dalle Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno statuito che l’azione revocatoria ordinaria ex art. 66 L.F. dell’atto di scissione societaria è devoluta alla competenza del tribunale fallimentare, che prevale su quella del tribunale delle imprese[6]. Tale statuizione si è dimostrata tardiva, in quanto il Codice della Crisi, entrato in vigore da quasi tre anni, aveva già definito la competenza in materia di revocatoria ordinaria e nella liquidazione giudiziale all’art. 27, nel quale viene stabilita (i) la competenza della sezione specializzata in materia di impresa per quanto riguarda le controversie che coinvolgono le imprese assoggettabili all’amministrazione straordinaria o ai gruppi di imprese, e (ii) la competenza residuale del tribunale ove il debitore ha il centro dei suoi interessi principali (COMI).

Ne deriva che la sentenza delle SS.UU. troverà applicazione solo per quei giudizi che coinvolgono le procedure aperte sotto la vigenza della Legge Fallimentare, mentre sarà ininfluente per quelle aperte dopo l’entrata in vigore del Codice.

4. Revocatoria nella liquidazione giudiziale: gli atti inefficaci e revocabili. I casi più “spinosi”

4.1 Inefficaci gli atti a titolo gratuito e i pagamenti di crediti non scaduti e postergati

Queste due fattispecie di atti soggetti all’azione revocatoria, disciplinate dagli artt. 163-164 CCII, si differenziano da quelle contenute nell’art. 166, poiché sono revocati proprio per la loro natura (anche detti “inefficaci ex lege” o “affetti da anormalità assoluta”).

Invero, il loro tratto distintivo è proprio il carattere dichiarativo del loro accertamento, in quanto sono privi di effetto ipso iure se compiuti all’interno del periodo sospetto e la sussistenza della scientia decoctionis è assistita da presunzione iuris et de iure. Preme precisare che, sebbene la revoca sia da considerarsi automatica, il curatore può in ogni caso ricorrere all’iniziativa giudiziale di revocatoria in mancanza di restituzione spontanea o quando ha la necessità di precostituirsi un titolo giudiziale.

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Nello specifico, l’art. 163, co. 1, dichiara privi di effetto gli atti a titolo gratuito compiuti nei due anni antecedenti alla data di deposito della domanda da cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale e successivamente a tale data. Il secondo comma della suddetta norma, invece, ritiene esclusi dall’applicazione del precedente comma i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o per pubblica utilità, purché proporzionati al patrimonio del donante.

L’art. 164, co. 1, CCII qualifica come inefficaci ex lege i pagamenti effettuati anticipatamente ri­spetto alla scadenza, come ad esempio l’estinzione anticipata di un finanziamento, quando la scaden­za dell’obbligazione cada il giorno dell’apertura della liquidazione (e non il giorno del deposito della domanda, in controtendenza rispetto alla data di riferimento sinora applicata) o successivamente, a condizione che i pagamenti siano stati eseguiti dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della procedura concorsuale o nei due anni antecedenti.

A differenza di quanto previsto dal previgente art. 65 L.F., il Codice della Crisi ha aggiunto alla presente norma due commi ulteriori, con l’obiettivo di disciplinare in maniera maggiormente analitica la relativa fattispecie. Il comma 2 dell’art. 164 richiama quanto era già previsto dall’art. 2467, co. 1, c.c., preve­dendo che “sono privi di effetto rispetto ai creditori i rimborsi dei finanziamenti dei soci a favore della società se sono stati eseguiti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della procedura concorsuale o nell’anno anteriore”. Medesimo effetto è stato previsto per il rimborso di finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti (art. 164, co. 3, CCII).

4.2. Revocabili: gli atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie

L’azione revocatoria nella liquidazione giudiziale trova il suo fondamento normativo nelle disposizioni sancite dall’art. 166 CCII, il quale recita, al primo comma, che “sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore” le seguenti categorie di atti:

(i) contratti a titolo oneroso sproporzionati, ossia che superano di oltre un quarto quanto al debitore è stato dato o promesso, se compiuti dopo il deposito della domanda cui è seguita la liquidazione giudiziale (comma 1, n. 1);

(ii) atti di pagamento cd. anormali, se compiuti dopo il deposito della domanda o nell’anno anteriore (comma 1, n. 2);

(iii) la costituzione di pegni, anticresi e ipoteche volontarie dopo il deposito della domanda o nell’anno anteriore per debiti non scaduti per debiti preesistenti non scaduti (comma 1, n. 3);

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(iv) la costituzione di pegni, anticresi e ipoteche giudiziali e volontarie dopo il deposito della domanda o nei sei mesi anteriori per debiti scaduti (comma 1, n. 4);

Per quanto attiene a tali categorie di atti, la legge prevede, per la loro natura, la sussistenza di una presunzione legale della conoscenza dello stato d’insolvenza nei confronti del convenuto, dispensando quindi il curatore dal fornire la prova diretta, attribuendo al convenuto l’onere di fornire prova contraria.

Nel comma 2 dell’art. 166 sono previsti, invece, (v) i cd. atti normali, ossia tutti quegli atti a titolo oneroso, di pagamento o di rilascio di garanzie di debiti scaduti ed esigibili, effettuati dal debitore con denaro o con altro mezzo normale di pagamento, a condizione che siano compiuti successivamente al deposito della domanda che ha portato all’apertura della liquidazione giudiziale o nei sei mesi anteriori; in questo caso, l’onere probatorio della scientia decoctionis del soggetto che ha beneficiato dell’atto revocando è direttamente in capo al curatore.

Per meglio comprendere la portata di quanto detto sinora, bisogna partire dall’analisi del requisito della conoscenza dello stato d’insolvenza (cd. scientia decoctionis) e, soprattutto, della prova liberatoria riconosciuta, nella fattispecie, al convenuto (cd. inscientia decoctionis).

Nello specifico, il curatore può provare la scientia decoctionis del convenuto in via diretta, ossia tramite mezzi di prova che permettano di circostanziarla (ad esempio, articoli di giornale, giuramento, …), o anche a mezzo di presunzioni, purché vengano offerti indizi gravi, precisi e concordanti ex artt. 2727-2729 c.c., al fine di comprovarne la conoscenza effettiva e non meramente potenziale[7]. Se il convenuto è un soggetto terzo al rapporto contrattuale, la scientia decoctionis deve essere dimostrata fornendo anche dei criteri di collegamento con le prove e presunzioni dedotte che comprovino che il terzo, avvalendosi della normale prudenza e avvedutezza in considerazione delle concrete condizioni in cui si è trovato ad operare, non avrebbe potuto non accorgersi del dissesto in cui versava il debitore[8].

Di converso, il convenuto deve provare l’inscientia decoctionis, circostanziata al momento in cui è stato compiuto l’atto revocando. La giurisprudenza costante ha stabilito che, anche in caso di presunzione legale[9], deve essere dedotta l’esistenza di circostanze concrete e specifiche tali da far ritenere, a una persona di ordinaria diligenza e avvedutezza, che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa[10], a nulla rilevando l’eventuale ignoranza colpevole della stessa[11].

È necessario, quindi, passare all’analisi delle singole fattispecie di atto revocabile.

 

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(i) Per quanto attiene alle prestazioni sproporzionate di oltre un quarto rispetto a quanto dato o promesso, il curatore deve valutare se la sproporzione era effettivamente esistente al momento del compimento dell’atto o alla conclusione del contratto[12] e non al momento in cui è stata esercitata l’azione revocatoria[13], non rilevando in alcun modo la sproporzione derivante da eventi successivi, né tantomeno devono considerarsi i successivi elementi che hanno portato a un aumento o ad una diminuzione della sproporzione[14].

(ii) Per quanto riguarda, invece, i cd. atti anormali di pagamento, il concetto di anormalità è stato a lungo oggetto di dibattito giurisprudenziale, a seguito del quale si è giunti alla conclusione che l’anormalità del pagamento va individuata nella complessità del meccanismo satisfattorio posto in essere, estraneo alle comuni relazioni commerciali[15].

Dunque, secondo la giurisprudenza di legittimità costituiscono mezzi anormali di pagamento tutti quegli atti in cui il denaro entra in funzione non quale strumento di immediata e diretta soluzione, ma in via mediata e indiretta, quale effetto finale di altre forme negoziali; tale principio riposa sulla considerazione, fondata sul brocardo “id quod plerumque accidit”, che l’estinzione di un debito con mezzi diversi da quelli ordinari rinviene la sua ragione nello stato di insolvenza in cui versa il debitore, nella sua difficoltà di adempiere e nell’intento del creditore, consapevole di tale stato, di ottenere comunque il soddisfacimento della propria pretesa[16].

(iii) e (iv) Quanto alla costituzione di garanzie, queste possono essere analizzate simultaneamente, posto che il discrimine tra le due è l’effettiva scadenza (e quindi l’esigibilità) del debito in ragione del quale è stata costituita la garanzia stessa.

La collocazione delle garanzie nel comma 1 dell’art. 166 (prima nell’art. 67 L.F.) e la giurisprudenza di legittimità determinano che queste sono revocabili solo se concesse a titolo oneroso (presunzione iuris tantum di onerosità)[17]; il discorso sarebbe ben diverso in caso di gratuità, in quanto in tal caso, a seconda del tipo di garanzia (es., fideiussione, pegno, ipoteca, …), rientrerebbe nella categoria degli atti cd. normali.

Recentemente, peraltro, la Cassazione si è espressa, in tema di revocatoria fallimentare, in merito al concetto di “debito scaduto” in relazione alla stipula in una dilazione di pagamento, applicabile, mutatis mutandis, anche alla disposizione prevista dal Codice. È stato infatti stabilito che quando una garanzia (nella specie, l’ipoteca) sia rilasciata a favore del creditore dopo che si sia già verificato l’inadempimento del termine originario di pagamento, il debito può considerarsi scaduto, per gli effetti di cui all’art. 166, comma 1, n. 4 CCII, a nulla rilevando che tra debitore e creditore venga contestualmente pattuito un piano di rateizzazione (o una dilazione di pagamento), purché risulti un nesso teleologico unitario tra il nuovo termine che ne deriva e la costituzione della garanzia[18].

(v) In ultimo, gli atti cd. normali costituisco una macrocategoria di atti revocabili, in quanto è logico ritenere che il debitore possa aver compiuto tutta una serie di atti nel periodo sospetto, posto che comunque stava svolgendo la propria attività d’impresa, ed è compito del curatore verificare se questi hanno recato pregiudizio alla massa dei creditori e comprovare la scientia decoctionis della controparte contrattuale.

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Ne deriva che tale categoria comprenderà tutti quegli atti pregiudizievoli delle regioni dei creditori concorsuali che non rientrano nella disposizione di cui al comma 1 e che non rientrano nei cd. atti esenti da revocatoria del comma 3.

5. Atti esenti da azione revocatoria

Da ultimo, non si possono dimenticare le categorie di atti esenti da azione revocatoria e specificamente indicati nell’art. 166, co. 3, CCII, che è stato oggetto di sostanziali modifiche con la riforma organica del 2022, seppur confermando in larga parte le cause di esenzione dalla revocabilità.

Alla lettera a) vengono indicati i pagamenti di beni e servizi eseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa nei cd. “termini d’uso, e nella cui categoria, secondo la giurisprudenza di legittimità, non possono rientrarvi anche i beni e servizi, ma solo ed esclusivamente il pagamento da questi derivante e considerando le modalità di svolgimento della relazione commerciale tra creditore e debitore[19]. Stante il confine sottile tra atto normale e/o anormale con quello compiuto nei termini d’uso, la giurisprudenza si è più volte espressa in merito, stabilendo che i pagamenti esclusi poiché avvenuti nei “termini d’uso” sono quelli normalmente in uso tra i contraenti e pattuiti originariamente tra le parti, non costituenti prassi patologiche[20].

Tale esenzione trova esclusiva applicazione per i pagamenti aventi ad oggetto il prezzo delle “forniture”, e cioè i contratti che sono “immediatamente espressivi dell’esercizio dell’attività d’impresa o comunque riferibili all’oggetto tipico dell’attività dell’imprenditore, con esclusione delle operazioni che con quell’attività non abbiano un nesso[21].

Inoltre, la Suprema Corte si è recentemente espressa statuendo che non è applicabile l’esimente de qua ai pagamenti eseguiti in attuazione di un “piano di rientro”, stipulato a seguito del mancato adempimento dell’obbligazione originaria entro i termini pattuiti[22].

Alla lettera b), invece, vengono indicate le rimesse su conto corrente, per le quali merita di essere menzionata l’avvenuta eliminazione del requisito della “consistenza” delle rimesse, con la conseguenza che viene ora previsto il solo requisito della “durevolezza” nel Codice della Crisi. Infatti, il Legislatore ha ritenuto che il “requisito della consistenza”, che esprime un valore relazionale, da accertare caso per caso, lasci all’interprete un inevitabile margine di discrezionalità. Una parte della giurisprudenza di meri­to[23] ha fatto ricorso a un parametro espresso in termini percentuali, da alcuni rap­portato al saldo debitore nel periodo sospetto; secondo un altro orientamento[24] verrebbe invece in considerazione il c.d. “rientroex art. 70 L.F. (ora art. 171, co. 3, CCII), cioè la differenza tra la massima esposizione debitoria raggiunta dal debitore nel periodo sospetto e quella riscontrata al momento di apertura del concorso dei creditori, mentre altre pronunce[25] hanno valorizzato l’importo medio delle rimesse dato dalla somma delle stesse divise per il loro numero, rapportate all’importo medio del saldo debitore computato all’inizio e alla fine del pe­riodo di riferimento.

L’eliminazione del requisito della (non) consistenza ai fini della revocabilità delle rimesse è dunque funzionale a eliminare tali difformità interpretative, senza in alcun modo pregiudicare l’effettivo ambito di operatività dell’esenzione, giacché l’esigenza di sottrarre alla revocatoria operazioni che non abbiano realmente depauperato il patrimonio del debitore né leso effettivamente la par condicio creditorum è comunque soddisfatta, oltre che dal requisito della durevolezza, dal limite stabilito dall’art. 171, co. 3.

Continuando, alla lettera c) l’esenzione comprende i contratti (definitivi o preliminari) di compravendita stipulati “a giusto prezzo” per immobili destinati all’abitazione principale e/o alla sede dell’imprenditore: la ratio è quella di tutelare sia l’acquirente in buona fede sia quello affetto da scientia decoctionis, ma nel caso in concreto il prezzo pagato è da considerarsi giusto, dunque in linea con l’andamento del mercato in quel determinato periodo (altrimenti rientrerebbe nelle prestazioni sproporzionate di cui al comma 1, n. 1).

Ancora, alla lettera d) riguardo agli atti e pagamenti effettuati in adempimento di piani attestati di risanamento, il Codice della Crisi ha introdotto una disposizione che esclude l’esenzionein caso di dolo o colpa grave dell’attestatore o di dolo o colpa grave del debitore, quando il creditore ne era a conoscenza al momento del compimento dell’atto, del pagamento o della costituzione della garanzia. Gli stessi atti, sempre nell’intento di incentivare il ricorso a strumenti di regolazione della crisi, sono anche esonerati dalla azione revocatoria ordinaria.

Passando alla lettera e), il Codice della Crisi, a differenza della L.F., ha previsto altresì l’estensione dell’ombrello protettivo previsto per il concordato preventivo e per gli accordi di ristrutturazione anche con riguardo alla revocatoria ordinaria e non solo a quella fallimentare come già previsto dalla L.F. Inoltre, il recente Decreto Correttivo-ter (D.lgs. 13 settembre 2024, n. 136) ha avuto modo di colmare la lacuna normativa esistente circa la non inclusione, tra gli atti non revocabili, di quelli compiuti in esecuzione del concordato semplificato, colpevolmente ignorato dal Legislatore della prima versione del Codice.

Alla lettera f) viene specificata l’esenzione per i pagamenti eseguiti dall’imprenditore a titolo di corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti e altri collaboratori, anche non subordinati, dell’imprenditore stesso. La giurisprudenza ha inoltre precisato che in tale definizione sono compresi anche i corrispettivi di prestazioni lavorative autonome, purché rese con carattere di continuità e coordinazione[26], mentre ne sono escluse le imprese di somministrazione, in quanto non si tratta di un “credito di lavoro” bensì di natura commerciale.

In ultimo, preme ricordare che sussistono anche delle casistiche di esclusione dall’azione revocatoria nella liquidazione giudiziale che non sono codificate dal Codice della Crisi, ma che hanno origine giurisprudenziale o da norme speciali.

Una di queste è il pegno rotativo[27], del quale la giurisprudenza ne esclude la revocabilità se l’atto originario che lo costituisce, dotato dei requisiti previsti dall’art. 5 del Decreto legislativo del 21/05/2004 n. 17, è stato compiuto al di fuori del periodo sospetto[28].

Ne deriva che la sostituzione, caratteristica di questa fattispecie di garanzia, non determina la costituzione di una nuova garanzia rispetto al rapporto iniziale, alla condizione che (i) risulti da atto scritto avente data certa ex art. 2704 c.c., (ii) avvenga la consegna del bene posto a garanzia, e (iii) il bene offerto in sostituzione abbia un valore equivalente a quello sostituito. Qualora manchino tali condizioni, i singoli atti costitutivi sarebbero autonomi tra loro e di conseguenza autonomamente revocabili a seconda del periodo in cui ciascuno è stato concesso.

Recentemente la Suprema Corte si è espressa anche in tema di factoring, stabilendo che l’esenzione da revocatoria di cui all’art. 6, co. 1, Legge del 21 febbraio 1991 n. 52 riguardi solo i pagamenti ordinari compiuti dal debitore ceduto al cessionario nell’ambito del contratto, ai sensi dell’art. 67, co. 2, L.F., e non anche gli atti solutori anomali, di cui al primo comma, n. 2, dello stesso art. 67 L.F. (ora art. 166 CCII)[29].

 

[1] Invero, solo la domanda presentata in proprio dal debitore viene pubblicata nel registro delle imprese.

[2] Cfr., in ultimo, Cass., sez. I, 23 ottobre 2024, n. 27454, in dejure.it.

[3] Cfr., Cass., 15 ottobre 2020, n. 22257, in dejure.it.

[4] Cfr., Trib. Milano, 26 maggio 2017 e Trib. Piacenza, 31 marzo 2011, in dejure.it.

[5] Cfr., ordinanza interlocutoria alle Sezioni Unite, Cass., 9 agosto 2023, n. 24237, in dejure.it.

[6] Cfr., Cass. SS.UU., 26 febbraio 2025, n. 5089, in dejure.it.

[7] Cfr., inter alia, Cass., 14 settembre 2022, n. 27074, Cass., 3 agosto 2022, n. 24151, applicabili mutatis mutandis, in dejure.it.

[8] Cfr., inter alia, Cass., 17 giugno 2020, n. 11696, App. Milano, 1° marzo 2019, n. 934, applicabili mutatis mutandis, in dejure.it.

[9] Cfr., Cass., 11 aprile 2011, n. 8224, Cass. Civ., 19 luglio 2010, n. 16876, in dejure.it.

[10] Cfr., Cass., 8 aprile 2009, n. 8566, Cass., 23 aprile 2002, n. 5917, in dejure.it.

[11] Cfr., Cass., 23 settembre 2009, n. 20482, App. Roma, 10 febbraio 1997, in dejure.it.

[12] Cfr., Cass., 4 novembre 1991, n. 11708, in dejure.it.

[13] Cfr., Cass., 19 aprile 1995, n. 4408, in dejure.it.

[14] Cfr., Cass., 5 marzo 2007, n. 5058, Cass., 5 novembre 1999, n. 12317), in dejure.it.

[15] Cfr., Trib. Arezzo, 16 luglio 2018, n. 760, in dejure.it.

[16] Cfr., Cass., 3 febbraio 2006, n. 2441, in dejure.it.

[17] Cfr., ex multis, Cass., 21 maggio 2010, n. 12507, in dejure.it.

[18] Cfr., Cass., 11 gennaio 2025, n. 3450, in dejure.it.

[19] Cfr., Cass., 7 luglio 2021, n. 19373, in dejure.it.

[20] Cfr., Trib. Milano, 22 giugno 2020, n. 3523, in dejure.it.

[21] Cfr. Cass., 30 marzo 2025, n. 8384, in ius.giuffrefl.it.

[22] Cfr., Cass., 30 marzo 2025, n. 8384, in ius.giuffrefl.it.

[23] Cfr., tra le altre, Trib. Treviso, 23 marzo 2016, Trib. Milano, 27 marzo 2008, in dejure.it.

[24] Cfr., Trib. Firenze, 18 aprile 2016, in dejure.it.

[25] Cfr., Trib. Torino, 21 febbraio 2014 e Trib. Milano, 25 maggio 2009, in dejure.it.

[26] Cfr., App. Brescia, 14 settembre 2023, n. 1376, in dejure.it.

[27] Il pegno rotativo è una speciale tipologia di pegno, che si caratterizza per la possibilità di sostituire l’originario bene oggetto della garanzia reale con altri beni di pari valore: in altri termini, viene prevista contrattualmente la possibilità di sostituire la cosa oggetto di pegno (cd. clausola di rotatività o di sostituzione) assoggettando a pegno un bene diverso da quello precedentemente vincolato e tale da determinare la perpetuazione del vincolo pignoratizio, senza necessità di concludere un nuovo contratto e senza che si verifichi alcuna ipotesi di modificazione del rapporto obbligatorio che determini la novazione di questo (fra gli altri, si veda CIPOLLA – STROPPA, Le nuove frontiere del pegno rotativo, 2023, in dirittobancario.it).

[28] Cfr., ex multis, Cass., 13 maggio 2021, n. 12733; Cass., 1° luglio 2015, n. 13508; Trib. Novara, 24 gennaio 2012, in dejure.it.

[29] Cfr., Cass., 9 dicembre 2024, n. 31652, in dejure.it.



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