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Agroalimentare: rendicontare la sostenibilità crea valore e aumenta la competitività


Anche nel settore agroalimentare, intraprendere un percorso di sostenibilità rappresenta una scelta vincente per accrescere la competitività e la resilienza delle aziende. Questo approccio facilita l’accesso al sistema finanziario e ai canali di distribuzione, consentendo, in una prospettiva di medio-lungo periodo, una significativa riduzione dei costi. Ma per accedere a questi vantaggi le imprese devono essere trasparenti e dimostrare il loro impegno dati alla mano. Per questo la rendicontazione delle informazioni ambientali, sociali e di governance è un elemento chiave strategico per la competizione delle aziende dell’agrifood, un comparto messo particolarmente sotto pressione dall’incremento di normative stringenti, dagli impatti del cambiamento climatico, dai rischi della perdita di biodiversità e dalle richieste dei consumatori sempre più sensibili a un’alimentazione sana e sostenibile. Se ne è parlato nell’ambito del convegno Sostenibilità in azione: come rendicontare l’impegno e i risultati ESG nel settore agroalimentare, organizzato da ESGnews martedì 6 maggio durante TUTTOFOOD, la principale fiera B2B dell’agroalimentare, di cui la piattaforma è partner per la sostenibilità.

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La tavola rotonda, moderata da Alessandra Frangi, Founder e Ceo di ESGnews, ha visto la partecipazione di Valeria Brambilla, Amministratore Delegato, Deloitte & Touche, Elisa Dellarosa, Head of Corporate Governance and Sustainability, Crédit Agricole Italia, Angelo Riccaboni, Professore di Economia Aziendale e Presidente Santa Chiara Lab, Università di Siena e Piero Gabrieli, Direttore Marketing Petra Molino Quaglia.

Come in altri settori, anche in quello agroalimentare la sostenibilità è una questione materiale a doppio senso: se da un lato, infatti, stando a quanto riporta la FAO, l’industria agroalimentare è responsabile di un terzo delle emissioni di gas climalteranti, al contempo le previsioni dell’Agenzia europea dell’ambiente sostengono che il climate change potrebbe ridurre il valore dell’agricoltura europea del 16% entro il 2050 a causa della maggiore siccità e più intense precipitazioni.

La ricerca di Deloitte sulle aziende che hanno rendicontato con la CSRD

Per capire l’importanza strategica della rendicontazione di sostenibilità Valeria Brambilla ha fornito in anteprima i dati di una recente ricerca di Deloitte Italia su 36 società quotate, che rappresentano circa 700 miliardi di euro di capitalizzazione, dalla quale è emerso come le informazioni non finanziarie stiano diventando centrali nell’informativa complessiva. Stando all’osservatorio privilegiato della società di consulenza, la rendicontazione di sostenibilità è sempre più percepita dalle imprese non soltanto come esercizio di compliance, ma come strumento di indirizzo strategico, con implicazioni dirette sulla governance, sull’integrazione dei sistemi di reporting e sul rafforzamento dei controlli interni.

Dalla survey, presentata in occasione del convegno, sono emersi tre principali fenomeni legati all’adozione della rendicontazione ESG nelle grandi imprese italiane. La prima riguarda la centralità del Chief Financial Officer (CFO), ora coinvolto anche nelle misurazioni delle variabili ESG e non solo economiche e finanziarie, fattore che permette un’interazione più profonda tra i dipartimenti operativi e quelli finanziari, sviluppando una cultura aziendale più integrata. Proprio la sinergia tra diversi dipartimenti aziendali, necessaria per misurare le variabili ESG, è il secondo fenomeno emerso: una collaborazione interdipartimentale che ha avuto un impatto positivo sulla definizione delle strategie e dei piani d’azione industriali. Infine, nelle grandi imprese che hanno attuato per prime la CSRD, sono evoluti i sistemi di controllo i quali, includendo anche aspetti legati alla produzione, alle condizioni lavorative e al trattamento dei dipendenti, hanno permesso di aprire la strada a un approccio più integrato e strategico alla sostenibilità.

Ma la CSRD è focalizzata sulle aziende di maggiori dimensioni. Il timore è che la semplificazione portata dal pacchetto Omnibus comporti un rischio di esclusione da percorsi virtuosi di sostenibilità delle aziende di dimensioni inferiori. In realtà il rallentamento degli obblighi di rendicontazione dettati dall’entrata in vigore del pacchetto Omnibus, potrebbe essere positivo per dare il tempo anche alle aziende meno attrezzate di preparare il percorso di incorporazione dei fattori ambientali e sociali nella strategia, di fissare i KPI e le procedure per arrivare alla fase di rendicontazione. “Il Pacchetto Omnibus ha posticipato l’entrata in vigore della CSRD per le aziende di grandi dimensioni non quotate, escludendole quindi dagli obblighi immediati di rendicontazione. Ma il decreto non annulla la necessità di attrezzarsi, bensì ridefinisce i tempi di una transizione che resta comunque inevitabile. Il mercato, gli investitori e gli istituti di credito continueranno a richiedere trasparenza sulle performance ESG, indipendentemente dagli obblighi normativi”, dichiara Brambilla, “La sfida sarà dunque quella di interpretare questa fase non come un rinvio, ma come un’occasione per costruire competenze, rafforzare la governance e prepararsi a una sostenibilità autentica e strutturata, quanto più possibile integrata al business. Le imprese che hanno già avviato o sceglieranno di avviare un percorso volontario di reporting di sostenibilità, anche se non obbligate, potranno posizionarsi in anticipo come attori credibili, responsabili e pronti alla competizione internazionale”.

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A che punto è il settore agroalimentare

Ma a che punto è il settore agroalimentare, fatto per lo più di piccole e medie aziende? A rispondere è il professore Riccaboni dell’Università di Siena che con il Santa Chiara Lab ha realizzato una delle più ampie analisi condotte sul livello di integrazione delle variabili ESG delle imprese agroalimentari italiane. Dallo studio – che ha coinvolto un campione complessivo di oltre 3000 aziende del settore agroalimentare di diverse dimensioni e caratteristiche, suddivise in sei filiere (cerealicolo, vitivinicolo, olivicolo, lattiero-caseario, ortofrutticolo e apistico) e operanti dalla produzione alla trasformazione dei prodotti agroalimentari, dalla materia prima al prodotto finito – emerge che le PMI, in confronto ai gruppi di maggiori dimensioni, risultano in ritardo su quasi tutti i fronti. In particolare, sono indietro nell’uso e nell’efficienza energetica, quindi negli investimenti in energie rinnovabili (mentre il 74% delle grandi aziende ha già investito nelle energie rinnovabili, solo il 50% delle pmi ha intrapreso questa strada, ostacolata principalmente da limitazioni economiche e da un accesso ridotto agli incentivi). Così come nell’efficienza nell’utilizzo delle risorse idriche (le pmi registrano un consumo medio di 278 m³ di acqua per euro di fatturato, quasi tre volte superiore agli 87 m³ delle grandi aziende).

Anche per il professore è importante sottolineare che nonostante le semplificazioni europee e il vento statunitense avverso, rallentare sarebbe un grave errore che danneggerebbe soprattutto le pmi, aggravando maggiormente il divario esistente: “Una volta che le attuali criticità saranno superate, e lo saranno, i temi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, gli SDGs, torneranno ad essere ancora più urgenti e rilevanti di prima, ma con un risvolto concreto: la sostenibilità crea valore ed è necessaria perché permette un migliore controllo dei rischi. In questo scenario, le grandi aziende, che stanno già avanzando sul fronte della sostenibilità, saranno ulteriormente avvantaggiate rispetto alle piccole e medie imprese. La distanza tra i comportamenti delle grandi imprese che, almeno formalmente, risultano più sostenibili e quelli delle pmi rischia di ampliarsi ulteriormente”, afferma Riccaboni, “Se non prestiamo attenzione a questo divario, la situazione potrebbe peggiorare. E ciò non fa bene al Paese fortemente basato sul tessuto delle piccole e medie imprese, e in particolare su settori chiave come quello agroalimentare, che, a seconda delle stime e dei criteri utilizzati, contribuisce per il 25%, 30% o addirittura il 35% al PIL nazionale”.

Un boost positivo potrebbe essere comunque dato proprio da quelle grandi imprese che sono chiamate a controllare e verificare gli impatti lungo tutta la filiera. E infatti stando all’analisi del Santa Chiara Lab, molte aziende dichiarano di considerare le performance di sostenibilità dei propri fornitori, anche se poi, nel concreto, poche sono in grado di quantificare esattamente quante collaborazioni vengano effettivamente valutate su questi criteri.

Tuttavia, è interessante notare come le pmi diano grande importanza alle certificazioni.  Un elemento particolarmente significativo considerando che, come ricorda il professore, in Italia storicamente le certificazioni sono state viste con diffidenza. “Credo invece che rappresentino uno dei grandi temi del futuro e che le imprese dovranno affrontare un vero e proprio cambiamento culturale per valorizzarle appieno” conclude Riccaboni raccontando dello standard EQUIPLANET: un sistema sviluppato da Santa Chiara Next, insieme a Valoritalia, che valuta la gestione della sostenibilità nelle imprese agroalimentari e verifica l’allineamento con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda ONU 2030 (SDGs), con i criteri ESG e con i principali riferimenti internazionali in materia di sostenibilità.

Sostenibilità come leva di creazione di valore e il ruolo delle banche nella transizione

Poter certificare significa avere contezza della propria attività e rendicontare le informazioni necessarie all’ottenimento di un riconoscimento. D’altronde, ricorda Dellarosa, la sfida della sostenibilità, a livello sia imprenditoriale che finanziario, si gioca principalmente sul terreno dei dati che sono fondamentali dal momento che “la sostenibilità è una leva di creazione di valore. Rappresenta, cioè, un elemento strategico che conviene all’impresa” afferma la Head of Corporate Governance and Sustainability, Crédit Agricole Italia.

Dal punto di vista economico-finanziario, è possibile ormai affermare con evidenza che un’azienda ben posizionata in ambito ESG, con buone performance ambientali, sociali e di governance, presenta un rischio di default nettamente inferiore alla media. È, in altri termini, un’azienda più solvibile, più profittevole, più resiliente, con una visione di governance orientata al medio-lungo termine. “Questo è particolarmente rilevante per il sistema bancario. Infatti, la trasparenza delle informazioni, ovvero la capacità dell’impresa di raccontare sé stessa e il proprio posizionamento sui temi ESG, permette di colmare il cosiddetto ‘gap informativo’ che, tradizionalmente, penalizza le imprese nella valutazione del merito creditizio” afferma Dellarosa che prosegue: “Quando parliamo di ‘assessment ESG’, ci riferiamo a un processo di raccolta e analisi di informazioni attraverso interviste, questionari, survey e strumenti di valutazione mirati. Questo consente di raccogliere dati granulari e di qualità superiore rispetto a quelli disponibili attraverso le fonti tradizionali”.

Tali informazioni permettono di stimare con maggiore precisione le potenzialità di un’impresa, facilitando l’accesso al credito, alle agevolazioni del PNRR, alle garanzie pubbliche e ad altri strumenti di sostegno. E fa sì che le valutazioni non siano affidate a proxy che rischiano di non intercettare il vero valore di un’attività imprenditoriale.

In questo contesto, sottolinea Dellarosa, la banca svolge un ruolo abilitante non solo perché finanzia la transizione ecologica e sociale, ma anche perché agevola l’accesso a risorse e incentivi. “Tuttavia, per farlo, ha bisogno di dati: dati che consentano di valutare la “maturità ESG” delle imprese”.

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Questo è cruciale anche sul fronte della gestione dei rischi. Quando si parla di rischio climatico e ambientale, si pensa spesso a ciò che minaccia il sistema finanziario. In realtà, la banca analizza la posizione dell’impresa per comprendere le minacce a cui è esposta (dal punto di vista ambientale, climatico, sociale) e poter offrire soluzioni di mitigazione, protezione e adattamento.

“Pensiamo, ad esempio, al cambiamento climatico e al suo impatto sulle fasi primarie della produzione agroalimentare” racconta la Head of Corporate Governance and Sustainability, “eventi estremi come siccità, ondate di calore, piogge intense e dissesti idrogeologici stanno diventando cronici, non più occasionali. Questi fenomeni minacciano direttamente le rese agricole e la stabilità produttiva, aggravati dalla perdita di biodiversità e dal degrado degli ecosistemi. Ma anche le stesse imprese possono contribuire al danno ambientale, attraverso pratiche come l’agricoltura intensiva o la sovrappesca, generando impatti negativi sul suolo, sul mare e sulla salute degli habitat. Raccogliere e analizzare questi dati significa stimare quanto un’impresa, oggi magari profittevole, possa essere vulnerabile nel medio-lungo periodo”.

È quindi fondamentale superare una visione a breve termine e adottare un orizzonte temporale più ampio. Solo così è possibile comprendere appieno il rischio fisico (legato, ad esempio, agli eventi climatici) e quello di transizione (che riguarda per esempio l’introduzione di nuove normative, come quelle previste dal Green Deal o dalla strategia “Farm to Fork”, che mirano alla tutela della biodiversità, al benessere animale e alla riduzione dell’uso di pesticidi)

Un’azienda che oggi pratica agricoltura intensiva e rispetta le regole vigenti, potrebbe quindi trovarsi fuori mercato tra pochi anni, se non si sarà preparata in tempo con un piano di transizione. Nel settore agroalimentare tutti gli obiettivi della tassonomia europea sono coinvolti: dalla riduzione dell’inquinamento all’uso sostenibile delle risorse idriche e marine, dall’economia circolare alla gestione degli scarti, fino alla decarbonizzazione.

“Anche se alcune scadenze sono state rinviate, le regole arriveranno. E le imprese devono prepararsi. Chi non lo farà rischia di essere perfettamente competitiva oggi, ma irrilevante domani. La raccolta e l’analisi dei dati ESG servono proprio a questo: a stimare il posizionamento, a valutare il rischio di transizione, forse il più insidioso, e a capire, oggi, cosa fare per governare il cambiamento” conclude Dellarosa.

Il caso Petra Molino Quaglia

A portare un esempio concreto dei temi trattati durante la tavola rotonda, Gabrieli, Direttore Marketing di Petra Molino Quaglia, ha raccontato l’evoluzione di un’azienda familiare giunta alla quarta generazione, che ha saputo trasformare un prodotto base come la farina in un vettore di innovazione, sostenibilità e cultura alimentare.

Il progetto Petra, ha spiegato Gabrieli, nasce non come semplice operazione commerciale, ma come iniziativa strategica orientata alla trasmissione di valore lungo la filiera, fino al consumatore finale. In un mercato, quello della farina, storicamente dominato dalla logica del prezzo, Petra ha scelto un approccio controcorrente: non puntare sul volume o sulla guerra dei listini, ma sulla costruzione di consapevolezza e fiducia.

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Al centro di questo percorso c’è anche l’innovazione tecnologica. Petra ha investito nella costruzione di un piccolo mulino ad alta tecnologia, progettato per garantire massima tracciabilità e sicurezza alimentare. Un’infrastruttura che consente di collegare in modo diretto e trasparente il campo al panificio, e quindi al consumatore. Ogni lotto di farina è riconducibile a un raccolto specifico e a una parcella di terreno tracciata fin dalla semina.

Parte integrante della visione Petra è progetto Neogranìa (leggi l’approfondimento qui). In Neogranìa, la farina diventa il punto d’incontro tra biodiversità evolutiva e filiera partecipativa: si coltivano miscugli di grani non selezionati artificialmente, ma lasciati evolvere naturalmente sul campo, anno dopo anno, in funzione delle condizioni ambientali e climatiche. Un metodo divulgato in Italia dal genetista agrario Salvatore Ceccarelli, già attivo in Medio Oriente.

Ma il vero punto di forza del progetto, secondo Gabrieli, è la capacità di creare legami forti tra tutti gli attori della filiera: il coltivatore, il custode dei semi, il mulino, il panificatore e il consumatore. Ogni anno, durante la “festa del raccolto”, questa rete si riunisce, rinsaldando un senso di comunità che si riflette anche nel valore percepito del prodotto finale.

“Non vogliamo vendere un pane a 50 centesimi in meno al chilo”, ha sottolineato il direttore marketing, “Vogliamo costruire un’economia in cui ogni anello della filiera riceva un margine equo, in grado di garantire continuità, ricerca, innovazione e qualità. Anche il consumatore deve capire che il prezzo che paga non è solo per ciò che mangia, ma per l’intero progetto che sostiene”.

Il sogno, ha concluso Gabrieli, è quello di diffondere questo approccio a tutta l’azienda: dai vertici a chi muove un muletto in magazzino. Perché solo così un’impresa può davvero essere sostenibile nel tempo.



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